Noemi De Lisi, il vocabolario dell’anima

Noemi De Lisi

Nel tuo profondo che ignori avrei voluto raggiungerti,
nello strano evento delle tue braccia macchiate di lividi
e della mia bocca che trema nel dire: “Non volevo farti questo”.
In ogni stretta, morso, schiaffo che ti ho dato per scoprire
la parte dove ti riassumi tutta e avrei potuto impararti subito.
Strapparti via quello che di me rimane nelle tue intenzioni,
spogliarti fino a non riconoscermi più: “Chi è stato a farti questo?”.
Dimenticare me per primo poi ricordare te in ogni cosa,
ripetertelo a memoria e imitarti così bene da confondermi.
Diventare te per poterti finalmente amare nell’unico modo,
diventare te senza lasciarti ricordare nulla della mia vita:
delle mie serate per strada a camminare da solo, senza soldi,
di quella vecchia casa piena di rumori e pianti di mia madre,
del letto sempre disfatto, le scarpe scollate, il dente spezzato,
della foga sopita nel mio corpo che batte quando resto immobile
mentre una voce mi chiama da dentro col tuo nome e sanguino.

***

La città sembrava la mia casa,
i vicoli spogli, lucidi a volte
nella notte dopo la pioggia
erano il lungo corridoio fino alla mia stanza,
quella che tu dicevi vuota
e io ti odiavo perché dicevi una cosa non vera.
Per questo ti immagino mentire su tutto,
forse non sei neanche partita e mi segui
per la città, attenta che non mi volti.
Mi guardi camminare racchiuso nelle spalle con le mani in tasca
e lo fai come se mi spiassi dalla finestra della stanza,
quella che mi teneva sveglio tutta la notte:
“Dalla finestra sento il gallo cantare ogni ora,
non l’ho mai visto ma mia madre dice che c’è da sempre.
Dalla finestra si vede una specie di giardino in fondo,
lì c’è il gallo e ogni volta che canta,
qualcuno apre gli occhi e mi spia dalla finestra.”
Quando te lo raccontavo mi davi uno schiaffo:
“Sono stanca di tutte le tue storie!”.
Mi siedo sul marciapiede e mi tengo la guancia
come se mi avessi appena colpito, come se stessi dormendo
e non mi volto per non sorprenderti a spiarmi
lì dietro lo spigolo di un palazzo.
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“Verso Libero” 2017

Il fuoco accende la IV edizione del Festival poetico ‘verso Libero’.

La rassegna, che si terrà a Fondi il 30 settembre e 1 ottobre 2017, offre uno sguardo sull’opera di de Libero e sulla poesia tra musica, teatro e arte.

Saper vedere, mettere a fuoco. Una città è stata messa a ferr’e fuoco. A fuoco una vittima, la parola, la vita. Brucia qualche cosa dentro. Arde la brace delle nostre azioni, la passione accende i nostri passi. La metafora del fuoco è onnipresente nell’opera di Libero de Libero «e di cenere odora / la stanza chiusa del cuore». La fiamma della poesia è sempre accesa nell’opera che resiste al tempo. Esistere è non smettere di divampare. Continua a leggere

Noemi De Lisi, “La stanza vuota”

NOEMI DE LISI

di Maddalena Lotter

Il libro d’esordio di Noemi De Lisi, uscito nel 2016 per Ladolfi con il titolo “La stanza vuota” e finalista al Premio Carducci 2017, è un’opera sinistra, che ci pone di fronte alla stortura che giace tranquilla, e poi inquieta appena arriva alla sua saturazione, in ogni dinamica famigliare (considerato che ogni dinamica famigliare sviluppa nel tempo una dinamica nevrotica); “La stanza vuota” ci riconduce in ogni momento a quel vissuto perturbante che abita nella quotidianità di ogni relazione con l’altro e con il sé; Das Unheimliche nella terminologia freudiana. Chiamo in causa Freud giusto perché è impossibile non riconoscere che la raccolta di De Lisi è intrisa di riferimenti voluti o inconsapevoli ad alcuni topoi della psicanalisi. Basterebbe già dire che le tre sezioni che compongono il libro si intitolano: Io e mia madre, Io e Anna, Noi: una dialettica morbosa che si risolve in un Noi finale non propriamente felice e tantomeno risolutivo. “La stanza vuota” è infatti una storia assolutamente non lineare, quanto piuttosto circolare, concentrica, e che procede per saturazione: ogni lirica sembra montare su se stessa fino a un punto di sfinimento per poi sgonfiarsi. Vengono in mente alcune pagine della musica di Béla Bartók, una per tutte “Musica per archi, percussioni e celesta” (1936) , che non a caso viene definita dalla critica una musica dell’incubo o musica della notte; con questo lavoro, infatti, Bartók indagò le possibilità ‘kafkiane’ del linguaggio musicale, ideando una macchina dell’incubo perfetta (l’orchestra) che, per dipingere l’evento onirico, si riempie fino a un apice di saturazione cromatica di disperazione, in cui tutti gli strumenti – compresa l’inquietantissima celesta – partecipano forsennatamente, e piano piano poi si svuota fino a far risuonare nell’aria pochissime note, come in un’uscita dal sogno. Continua a leggere