Arte Classica, Moderna e Contemporanea

Come cambia il senso estetico nell’arte dalle origini ai giorni nostri, e un’ipotesi per il futuro.

L’arte visiva è qui colta dalle origini ai giorni nostri nei suoi sviluppi essenziali, da una tradizione espressiva alla emancipazione che caratterizza la modernità. Pur in questo evidente cambiamento Nicola Vitale riassume, con semplicità e chiarezza, i cicli epocali in cui l’arte sembra ripetere analoghe strutture profonde. La fase nascente (arte greca arcaica, bizantina e moderna) ha caratteristiche reintegrative che riportano a una pienezza originaria. Ma nelle fasi successive l’arte occidentale decade, diventando celebrazione mondana, quindi lacerazione e, recentemente, provocazione. Questo ciclo per cui l’arte ricomincia costantemente da capo, mette in evidenza come oggi gli strumenti e le modalità con cui si realizza e interpreta l’arte contemporanea siano inadatti a comprendere il cambio di paradigma in atto. L’estenuata forma analitica in cui siamo immersi non è infatti commensurabile alle nuove esigenze spontanee di ritrovare una pienezza esistenziale che nell’arte visiva si esprime con lo splendore delle immagini. Bellezza profonda che prelude, in una forma già compiuta, a una trasformazione radicale della cultura. Nella seconda parte l’autore mette in evidenza quali sono i principali impedimenti ideologici per comprendere tale passaggio, avvenuto da tempo nella scienza, in un sorprendente riavvicinamento tra materie scientifiche e umanistiche, evidente nell’ormai consueto utilizzo da parte di matematici e fisici di criteri estetici per la formalizzazione di teoremi e leggi della natura.

PREMESSA

Per cogliere le differenze tra arte classica1, arte moderna e arte contemporanea, non si può fare a meno di considerare queste differenze come fasi di un processo, per cui potremmo riconoscere che l’arte è una e i suoi volti sono molti.

L’uomo sin dalle origini si differenzia dall’animale per una intelligenza analitica che lo allontana dalla natura, generando l’inquietudine della separazione, il sentimento insopportabile della finitezza. Una certa tradizione antropologica vede nascere l’arte come rimedio all’angoscia originaria, assumendo funzione liturgica di rituali. Ad esempio le sculture africane, vicine a quell’origine ancestrale, che vediamo ancora oggi nei mercatini, sono prevalentemente maschere destinate a danze rituali apotropaiche o propiziatore, figure simboliche volte a presenziare gli ambienti purificandoli dagli spiriti maligni, preservare la fertilità dei semi, testimoniare la presenza protettiva degli antenati. Nella Grecia antica la Tragedia, secondo Aristotele, aveva il ruolo di “medicina sociale”, in quanto doveva produrre negli spettatori che si immedesimavano nel dramma, la katharsis, cioè la purificazione dalle passioni, in modo da non doverle sfogare nella vita e mantenersi nel dominio della ragione2.

L’arte nella sua forma originaria ha dunque un carattere compensatorio e reintegrativo, da cui nasce la particolare fascinazione che chiamiamo “bello”. Ma oggi come può essere interpretata questa concezione dell’arte? Il rimedio non è certo riferibile all’arte-terapia, impiegata impropriamente per sbloccare l’immaginazione, calmare gli animi, armonizzare. È piuttosto il rimedio alla malattia in cui viviamo immersi, che i filosofi chiamano nichilismo, dove l’alienazione originaria arriva alle sue estreme conseguenze. Nietzsche, alla fine del suo percorso, sostiene: «l’arte è il contromovimento per eccellenza che si oppone al nichilismo»3.

Il nichilismo si manifesta col venir meno della possibilità di una vita vissuta per se stessa. Cadiamo così prigionieri di tutte le sovrastrutture che nelle loro recrudescenze diventano ansia di potere, di possesso, di piaceri edulcorati che non bastano mai; ed è questa l’anima di ogni conflitto. Kant scriveva nella Critica del Giudizio: «il bello è ciò che piace senza interesse»4. Dunque quel “senza interesse” è dal punto di vista reintegrativo l’aspetto più rilevante: un senso della vita “disinteressato”.

Emanuele Severino scrive in questi anni: «L’arte è il rimedio perché il “canto”, dice Leopardi, è l’ultimo rifugio della natura. […] l’arte e la bellezza (sono sinonimi perché un’arte non bella è un’arte non riuscita, una nonarte) sono rimedi. […] è tutto ciò che resta quando la stessa civiltà della tecnica avrà fallito»5. Severino interpreta infatti il nichilismo come causa estrema del declino della nostra civiltà e vede nell’arte, intesa nel suo senso originario, una delle strade per il rinnovamento.

Ma in che modo l’arte, questo genere di arte “bella” (come dice Severino), può essere il rimedio originario? Non si tratta di fare un’analisi filosofica o storica dell’arte, piuttosto se ne cercano le sottili implicazioni con le facoltà umane: cosa succede all’uomo praticando l’arte? Più che affrontare l’argomento in termini psicologici, penserei piuttosto (su suggerimento di Nietzsche) a una “fisiologia dell’arte”. Si tratta

dunque di uscire da una pura dissertazione teorica per avvicinarsi alla pratica: comprendere la pratica nella sua essenza.

Ma come funziona questa arte tradizionale? Perché le è stata attribuita in certe fasi la funzione di rimedio?

1 Per arte classica intendiamo l’arte della tradizione occidentale (antica, medievale e moderna) dalla Grecia antica, all’arte europea fino a metà dell’ottocento. L’arte moderna (modernismo) nasce con Cézanne verso il 1870, seguito da Van Gogh e Gauguin, quindi dalle avanguardie storiche come Cubismo, Astrattismo, Surrealismo ecc. L’arte contemporanea inizia verso la fine degli anni cinquanta, seguendo le orme del dadaismo di Marcel Duchamp, con Noveux realism, Pop art, assemblaggio, performance, ed è vigente.

2 Aristotele, Poetica, tr. it. D. Lanza, Rizzoli BUR, Milano 1987-2009, pp. 163 sgg.

3 M. Heidegger, Nietzsche, Bd. 2, Neske, Pfullingen 1961; trad. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 8

4 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, de Gruyter, Berlin 1968; trad. it. di L. Amoroso, Critica del Giudizio, vol. I, Rizzoli, Milano 1995, p. 151.

5 E. Severino, Il bello, Mimesis, Milano-Udine 2011, pg. 22

Nicola Vitale (Milano, 1956) è poeta, pittore e saggista. Dal 1987 espone i suoi dipinti in mostre personali e collettive, in gallerie private e in spazi pubblici, in Italia e all’estero. Presente alla 54° edizione della Biennale di Venezia (Padiglione Italia). Raccolte di poesia: La città interna, Primo quaderno Italiano, Poesia contemporanea, 1991; Progresso nelle nostre voci, 1998; La forma innocente, 2001; Condominio delle sorprese, 2008 (Premio Rhegium Julii, Premio Laurentum), Chilometri da casa, 2017. È presente nell’antologia Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, 1996-2004. È tradotto in albanese e in spagnolo. Narrativa: Il dodicesimo mese, 2016 (finalista Premio Il Giovane Holden, 2016). Saggi: Figura Solare. Un rinnovamento radicale dell’arte, inizio di un’epoca dell’essere, 2011; Arte come rimedio. L’armonizzazione delle facoltà umane nei processi espressivi, 2013. La “solarità” nella pittura, da Hopper alle nuove generazioni, 2016 (Secondo classificato, Premio Nazionale Scriviamo insieme, Roma 2016).

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