Giacomo Sandron, “Cossa Vustu che te diga”

 

sandron[1]Dalla prefazione di Fabio Franzin

“Te mancarà e man de me nona / i so grossi dei come gropi e duri / che te li ficava drento in senocioni / su la cuiera, col soriso tai oci” (Ti mancheranno le mani di mia nonna / le sue dita grosse come nodi e dure / che ti affondava dentro in ginocchio / nell’orto, col sorriso negli occhi). Sono fra i primi versi che accolgono il lettore di questa intensa raccolta poetica, in un testo, quello che si propone come una sorta di intro musicale, una dichiarazione d’amore e al contempo di odio rivolti al proprio paese, leitmotiv che percorrerà, come una crepa lunga, l’intero percorso che vede, passi e parola, snodarsi al suo interno. Poi, verso la fine della stessa, in una delle ultime sezioni, l’autore riprende humus ed enunciato, innestandovi però un senso di smarrimento, di lontanìa, per dirla alla Marin: “La rotta si perde anche coi piedi calcati per terra”. Nel testo successivo, l’autore aggiunge ancora, come per giustificare tale “stornità”: “Sarà che qua la terra sta / allo stesso livello dell’acqua”. Basterebbero questi tre brevi estratti per riassumere il background, il substrato in cui affondano le parole di Giacomo Sandron, e in virtù di una qualche loro misteriosa proprietà, risalgono poi a galleggiare. Un autore che giunge, finalmente, a consegnare alle stampe una raccolta organica che riassume oltre un decennio di ottime apparizioni sparse su plaquette, libretti artistici e artigianali, riviste cartacee e su web, e una costante presenza in readings e letture, performance e partecipazioni a poetry slam (di cui è uno degli interpreti più apprezzati).

Ma a chi scrive, i versi succitati, non possono non far tornare in mente le parole di Egidio Davanzo, attore suo malgrado e testimone del film-documentario “Tera Pustota” di Valeria Davanzo, uscito per Dario De Bastiani Editore nel 2013, cui ho collaborato. Nella scena in oggetto, Egidio è inginocchiato, il candore dei capelli che spicca, in un volto nascosto che si specchia nella propria esistenza, forse sorridente anch’esso, rimesta e sminuzza con le sue mani di vecchio contadino zolle di terra nelle aiuole di un orto e dice: “questo lavoro si fa così perché la terra è bassa”; contrappunto ai suoi gesti, alla sua banale ma profonda affermazione che è anche un valore e un attaccamento religioso e atavico, nella scena finale del film, i nuovi “imprenditori agricoli” di una civiltà ormai mutata nei lembi sopravvissuti alla furia cieca del progresso, sospesi a oltre due metri d’altezza alla guida di moderni trattori monsters, arano la terra senza più nessun contatto con essa. Ecco che la rotta del solco, pur dritta e profonda, porta l’uomo a perdere il contatto con la terra, e con ciò che nella stessa vive e recita. Tutto ciò non servo di una insulsa e inutile nostalgia, sia chiaro (Egidio ha cocciutamente continuato a fare il contadino anche quando il profitto era scarso o il modus vivendi del nordest imponeva nuovi modelli, e continua a farlo ancora, quando ormai è un gesto legato più che altro a una propria sopravvivenza interiore), ma come una ovvia, nella sua portata più straziante, constatazione. Così, la rotta del nostro percorso umano è ora segnata dai cartelli indicatori, dalle linee di vernice stesa sull’asfalto, dai prezzi contrassegnati nei cartellini appesi alle merci. Non è più nei gesti o nel sentiero che si apre fra gli arbusti. Non è più segnato nella terra.

Ma a volte lo è nelle parole che alla terra, e all’acqua, debbono il loro divino impasto, a volte la rotta riporta all’origine, e la parola è il lasciapassare per non sviarsi e perdere la bussola, per stare aderenti alla verità più ontologica, alle radici che sono le vene che dalla terra portano all’aria, dal buio dove i semi si aprono, alla luce che accoglie il germoglio, e il fiore.

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La poetica di Sandron, espressa prevalentemente nel dialetto di quella propaggine veneziana a incunearsi nel basso Friuli che è la parlata di Portogruaro – ma con testi che nascono anche in italiano, a certificare un arduo bilinguismo che è un po’ la cifra dei poeti neodialettali –, sembra trovare i suoi illustri predecessori nella vulgata bassa (come lo è la terra), discorsiva e affabulatoria di Raffaello Baldini (non a caso posto in epigrafe a un testo), anche per l’ampiezza del dettato, la prosodia incessante, da basso continuo, la tematica casalinga e, non da ultima, per la tenuta del verso, che sa stare sospeso, in tensione, per tutta la lunghezza del testo; altro poeta che echeggia nei versi più ebbri, stralunati di Sandron, è il compianto Amedeo Giacomini, dove il vino è il passaporto per poter stare coi piedi calcati per terra dentro un malessere da scontare all’interno, o nell’inferno, della propria terra, un habitat oppressivo che sembra soffocare respiro e aspirazioni, e che si esprime, come per voce di un medium stonato, in una sorta di maledettismo predestinato, un’angoscia da mitigare all’ombra delle frasche, nella penombra delle osterie. Così come sento Sandron apparentarsi, per le stesse tematiche, a Federico Tavan, dove malessere e maledettismo avevano, per il poeta di Andreis, però radici più profonde e cliniche, dove la frattura fra uomo e luogo era più ampia, perché era, prima di tutto, lacerazione dell’anima.

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Cossa vustu che te diga, Portogruaro

tera marsa, mi te amo

che vol dir che te me fa morir

che a forsa de dai e dai sul liston

me son frugà i pie, ‘l cuor e ‘l sarvel

a spetar che vignisse su

‘na robuta quaunque da ti

tera marsa, desmentagada

che no la serve se no par pianser.

Te mancarà e man de me nona

i so grossi dei come gropi e duri

che te li ficava drento in senocioni

su la cuiera, col soriso tai oci,

te mancarà i so fondi de cafè

e le scorse dei ovi che te mis-ciava

tuto ‘l pastrocio che a faseva

par farte pì grassa e pì bea.

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Cosa vuoi che ti dica, Portogruaro / terra marcia, io ti amo / che vuol dire che mi fai morire / che a forza di andare su e giù per la piazza / ho consumato i piedi, il cuore e il cervello / aspettando che germogliasse / una piccola cosa qualunque da te / terra marcia, dimenticata / che non serve a nulla se non a piangere. / Ti mancheranno le mani di mia nonna / le sue dite grosse come nodi e dure / che ti affondava dentro in ginocchio / nell’orto, col sorriso negli occhi, / ti mancheranno i suoi fondi di caffé / e i gusci delle uova con cui ti impastava / tutto il pastrocchio che combinava / per farti più grassa e più bella

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Co’ torno casa in tren

ghe passo sempre da drio casa mia

da l’altra banda xe i campi

dove se ‘ndava de scondiòn a far i furbi

a magnar bàmpoi

a ciavarghe pomi e panoce

i fossi ‘ndo che ‘ndevimo pescar.

Pescavimo ‘ndò che stava ‘l zio Ciccio

che iera un de quei mati che va in bicicleta, su e so

co la so musa de tera brusada, sempre un baret in testa

e quel che saveva dir iera sol che “Bon”

co che l’andava, “Bon” co che ‘l tornava.

E ierimo lì, un dì, a cavar fora bissi da la tera

davanti casa sua, e lu se ga messo a pissarne in fronte

e no son sta bon, chea volta,

a no vardarlo che se menava l’osel

a sintirlo che ne domandava

se lo gavevimo longo come ‘l suo.


Quando torno a casa in treno / passo sempre dietro casa mia / dall’altra parte ci sono i campi / dove si andava di nascosto a fare i furbi / a mangiare bàmpoi /a rubare mele e pannocchie / i fossi dove andavamo a pescare. / Pescavamo dove stava lo zio Ciccio / che era uno di quei matti che vanno in bicicletta, su e giù / col suo muso di terra bruciata, sempre un berretto in testa / e quello che sapeva dire era solo “Bon” / quando andava, “Bon” quando tornava. / Ed eravamo lì, un giorno, a tirare fuori lombrichi dalla terra / davanti a casa sua, e lui si è messo a pisciare di fronte a noi / e non sono stato capace, quella volta, / a non guardarlo mentre si menava l’uccello / a sentirlo che ci domandava / se l’avevamo lungo come il suo.

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Cascasse i omini come casca e foie

picai ta la punta de un luni de vento

‘l caìgo vien so come ninte

quante robe ghe sta drio ‘l tempo

che passa sensa far ‘na mossa

quante robe impirae che vansa

ae oto de matina o anca prima

ta ‘na scovassa de oci strachi e

pasarà na bora o ‘na trebbia a tirar su.

Cadessero gli uomini come cadono le foglie / appesi alla punta di un lunedì di vento / la nebbia scende come niente / quante cose stanno dietro il tempo / che passa senza muoversi / quante cose impilate che avanzano / alle otto di mattina o anche prima / in una pattumiera di occhi stanchi e / passerà una bora o una trebbia a raccogliere.

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Meio e bestie

Pensa mi e a Maria, là via, quanti ani semo stae amiche

ea restàa incinta, lu ‘l xe andà via, più visto

no ga savuo se a fia, se xe nata o cossa,

i sui stava, no me ricordo dove, no par Concordia,

pa’ ‘ndar par Venessia ma su paeseti là, i xe andai in Francia

so pare ga tanto fato che a vada via, ea ga dito me dispiase,

son vignua qua, go trovà ‘l posto, mi stago qua,

quindese ani e brava far de magnar, far dolsi,

ricamar e stirar, far robe, e so fia invesse che rincurarla

la manda in casa de riposo, varda che roba,

tirarghe su i fioi, andar a ‘l mar co’ tre fioi,

finalmente a più vecia se ga sposà, la ga un fiol

quealtra ancora a Padova no ga nissùn, ‘l fiol xe strambo,

sempre a fia de a Maria, do fie e un fiol, una studiava a Padova

una a Udine, so pare e so mare iera a lavorar, no, ea fea ‘l magnar

a ghe preparava de chee robe ai fioi a magnar a mesogiorno,

lori i magnava, no se pensava che iera anca so nona

intanto che a tirava via e pignate, a roba, i magnava tuto

adesso i xe lori do soi co’ quel fiol strambo là

con do genitori seri e ‘na nona più seria ancora

e lu fa ‘l paiasso, mama mia, xe proprio vero,

i omini, più che i ga e manco i dà adesso,

quando che te ga bisogno, no se ricorda più

par carità, ‘scolta qua, te digo mi, meio e bestie.

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Meglio le bestie

Pensa io e la Maria, là via, quanti anni siamo state amiche / lei rimasta incinta, lui andato via, più visto / non ha saputo se la figlia, se è nata o cosa, / i suoi stavano, non mi ricordo dove, non verso Concordia, / sulla strada per Venezia, nei paesini, sono andati in Francia / suo padre ha fatto tanto perché andasse via, lei ha detto mi dispiace, / sono venuta qua, ho trovato lavoro, io sto qua, / quindici anni e brava a fare da mangiare, fare dolci, / ricamare e stirare, fare robe, e sua figlia invece di prendersi cura di lei / la manda in casa di riposo, guarda che roba, / allevarle i figli, andare al mare con i tre figli, / finalmente la più vecchia si è sposata, ha un figlio / quell’altra ancora a Padova non ha nessuno, il figlio è strambo, / sempre la figlia della Maria, due figlie e un figlio, una studiava a Padova / una a Udine, suo padre e sua madre al lavoro, no, lei cucinava / preparava di quelle cose ai ragazzi da mangiare a mezzogiorno, / loro mangiavano, non pensavano che c’era anche la nonna / mentre portava via le pentole, le cose, mangiavano tutto / adesso sono loro due da soli con quel figlio strambo là / con due genitori seri e una nonna più seria ancora / e lui fa il pagliaccio, mamma mia, è proprio vero, / gli uomini, più hanno e meno danno adesso, / quando hai bisogno, non si ricordano più / per carità, ascolta, te lo dico io, meglio le bestie.
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“Cossa Vustu che te diga”, di Giacomo Sandron, Samuele Editore 2014, collana Scilla n.39, prefazione di Fabio Franzin

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