Roberta Borsani, “La danza della vita”

Nello scaffale, Roberta Borsani
a cura di Luigia Sorrentino

Conversazione con Roberta Borsani su “La danza della vita“.

di Nadia Agustoni

Un libro sul significato delle fiabe in rapporto al femminile è quello scritto da Roberta Borsani, saggista, scrittrice e insegnante, che dedica a questo tema un’interessante riflessione rileggendo per noi alcune celebri storie, Biancaneve, Rosaspina, La piccola fata e Hansel e Gretel; in quest’ultimo caso operando una riscrittura per evidenziare come la trama della fiaba, toccando la questione del cibo e della fame, a livello psicologico/simbolico incontri la complessa questione dell’anoressia/bulimia. Borsani in “La danza della vita” Lindau 2012, compie quasi un percorso iniziatico e porta noi lettori, tramite i personaggi delle favole, in zone d’ombra interiori affinché possiamo vedere da cosa siamo influenzati inconsciamente e come gli archetipi agiscano attraverso di noi. L’autrice, ricordandoci cosa significa avere un destino, parla di fate sagge e streghe cattive come di due estremi necessari per aiutarci a comprendere quale sia il nostro cammino e a realizzarlo. …….. Importante, e non ultimo, ricorda che nelle fiabe anche le nozze di maschile e femminile “celebrano simbolicamente la riconciliazione degli opposti” ed è solo “sposando” dentro di noi tutti gli elementi costitutivi di una personalità che potremo avere una vita più armoniosa e creativa.
Seguendo il filo di altri autori ( Marie Louise Von Franz, Paola Santagostino, James G. Frazer tra gli altri) Roberta Borsani racconta perché le fiabe sono necessarie e fortificano, soprattutto aiutandoci nel quotidiano e nello svolgimento di quei compiti, che spesso mal compresi, ci mettono in conflitto con parti di noi che poi finiamo per ignorare fino a che diventano ferite troppo profonde.
La fiaba non rende il mondo semplice; ricorda a chi legge che la vita è pericolo e non tutti, non sempre, ce la fanno. La fiaba conduce dove è difficile pensare e nella fiaba, la portatrice di destino, non può non avere coraggio.
A Roberta Borsani ho posto alcune domande sul libro.

Nel libro lei accompagna la rilettura di ogni fiaba con un saggio dove spiega quale tipo umano corrisponda a una Biancaneve o a una Rosaspina. Parla a uomini e a donne, ma trattando del femminile nelle fiabe c’è una particolare attenzione ad ogni risvolto che riguardi queste ultime. Un esempio è in Biancaneve dove, tra l’altro, c’è un intero paragrafo su guerriere e guaritrici. Può dirci qualcosa su questo?

Da ragazza ero affascinata dalle eroine celebrate dall’epica, corrispondenti all’archetipo della greca Artemide. Poi mi sono resa conto che quel modello di eroismo era tutto di derivazione maschile e finiva per confermare l’idea che la donna potesse sì splendere, ma solo di una luce riflessa, secondaria e opaca rispetto al maschile. Invece gli stessi miti, riletti in controluce, rivelano tutta una sfera di virtù eroiche meno abbaglianti di una corazza da guerra, ma più tenaci ed estreme.
Nelle fiabe sono i personaggi femminili a confrontarsi con gli aspetti più oscuri della morte, con il macabro ad esempio, da cui il maschile tende a fuggire inorridito. L’eroismo femminile fa generalmente la sua comparsa quando la battaglia è finita, in mezzo ai corpi maciullati che hanno bisogno di essere ricuciti. Oppure nella stanza dell’orco, dove c’è da reggere il gioco estenuante dell’orrore e vince chi è più strategico: Mariuzza, della fiaba calabrese Le tre raccoglitrici di cicoria, ad esempio.
La guaritrice rappresenta una delle forme in cui si manifesta l’archetipo della Grande madre: Circe era chiamata Signora dei farmaci. I santuari mariani sono luoghi magici, dove si portano tuttora gli ammalati gravi per ottenere la guarigione, e ci vanno anche i non credenti. Ma si potrebbero fare mille esempi.
Nel suo ragionare su “La piccola fata” lei invita le donne a riconoscere “la nostra ferita di non amate” e ci ricorda che molte non vogliono nemmeno pensarci per non ritrovarsi poi arrabbiate e quindi cattive. Ma senza la forza di essere “cattive” cosa succede?

Senza la forza di essere “cattive” (senza la forza di portare a livello della coscienza la propria rabbia) si rinuncia ad essere persone in senso pieno. Si abdica alla propria interiore regalità, sprofondando dentro un destino che è come scritto sull’acqua. Lo stereotipo del femminile idealizzato, disponibile e tollerante, rassicura gli uomini – che infatti lo celebrano ampiamente – ma annulla le donne disincarnandole. Purtroppo spesso sono le stesse donne, divenute madri, ad educare le figlie in tal senso, insegnando loro a disconoscere il negativo che portano in sé – il seme della propria ombra.
Peggio ancora, in certi contesti familiari e sociali, la donna è spinta ad avvertire la sua appartenenza al genere femminile come una menomazione, una colpa da farsi perdonare, rinunciando ad esempio alla sua vitalità e al suo desiderio di autoaffermazione. In questi casi l’ombra si ritira semplicemente più in fondo e trova vie più difficili e contorte di manifestarsi. Di certo non scompare.
Nella mia analisi della fiaba di Rosaspina ho insistito su questo punto: la fata tredicesima e Rosaspina non sono semplicemente antagoniste (come vorrebbe far credere il padre di Rosaspina). La principessa, senza la Tredicesima, non saprebbe elevarsi all’altezza della storia e la sua vita resterebbe scritta sull’acqua. Meglio sanguinare pungendosi con il fuso che abbarbicarsi intorno a un’immagine falsa e convenzionale di innocenza e mitezza. La fata Tredicesima è l’ombra di Rosaspina. Un elemento sgradevole ma ineliminabile.
Streghe e sorellastre, matrigne e padri sbadati sono in ogni destino femminile, e in fondo anche maschile, ma il trauma del pregiudizio colpisce bambine e donne in misura maggiore. Oggi assistiamo al genocidio delle bambine, a stupri etnici e di massa. A uccisioni ormai quotidiane nell’ambito della violenza domestica. Cose che bruciano, e però non trovano risposta adeguata come se le riflessioni del passato si fossero perdute. Come ci aiutano le fiabe contro la violenza?

Le fiabe insegnano che la violenza è dentro e fuori di noi e che possiamo combatterla e vincerla. Per vincere però non dobbiamo essere sole e infatti nella fiabe è fondamentale la figura dell’aiutante. A questo proposito serve ricordare che ciascuna di noi può essere sia la protagonista di una fiaba perseguitata e aggredita, sia una buona fata chiamata a dare il suo aiuto. Io, grazie a dio, qualche fata l’ho incontrata e spero di essere stata in alcune occasioni e con tutti i miei limiti, la fata di qualcun’altra.
C’è il personaggio di un romanzo un po’ strano di Ray Bradbury – L’estate incantata – che a me piace molto. Si chiama Lavinia Nebbs. Una notte uccide a forbiciate il Solitario, un pericoloso serial killer responsabile dello strangolamento di molte giovani. Poche ore prima di ucciderlo dichiara alle amiche terrorizzate di non avere affatto paura di lui. E’ solo un uomo, dice, solo un uomo.
I mass media ammantano i maschi violenti di uno splendore nefasto che li fa più potenti di quanto siano. Sono solo uomini, li possiamo vincere.
Ovviamente il discorso non vale per gli stupri etnici o di massa. Ma queste sono cose che vanno al di là della fiaba.
La fame è il tema di Hansel e Gretel. Tutti abbiamo fame, fame di qualcosa. Cos’è questa nera fame che devasta i corpi e l’anima?

La fame non è necessariamente nera e cattiva. La fame è Eros, ci apre al mondo e lo rende desiderabile. Vero che ogni fame presuppone una mancanza, fa soffrire. Se ciò che manca si fa troppo aspettare o si sottrae, magari con disprezzo, allora la fame può diventare intollerabile e generare risentimento, disistima di sé, vendetta e rivendicazione anche violenta (come nel caso della fata tredicesima, non invitata al banchetto). Ma anche quando l’oggetto desiderato non si fa indietro e la sua presenza ossessiva impedisce, prevenendola, l’esperienza della mancanza, l’effetto sarà emotivamente disastroso: insensibilità, ottusità e freddezza (come accade allo sposo della piccola fata).
L’equilibrio tra desiderio e disponibilità dell’oggetto è la base della stima di sé e dell’amore del mondo. E’ un equilibrio molto difficile però, anche perché, come spiega Peter Schellenbaum in La ferita dei non amati, in alcune persone la fame è così lacerante e irrimediabile da non poter del tutto essere spiegata con i traumi affettivi che l’infanzia porta con sé. Noi siamo abitati da una fame infinita, che niente può spegnere. E’ desiderio infinito di felicità, dice Leopardi. Io preferisco dire che è desiderio di essere amati
Il cibo e l’atto del nutrimento hanno un grande valore simbolico. Non parlano solo del piacere che spegne momentaneamente il desiderio. Dentro si mescolano molte cose: la tenerezza, la cura, l’accettazione, la conoscenza, e perfino il grado di civiltà di una comunità. Ho letto che negli Stati Uniti 6 milioni di bambini presentano i segni di una steatosi epatica (l’anticamera della cirrosi) per cause alimentari. In casa loro il più delle volte non esiste una cucina, solo un forno a microonde dove si scaldano schifezze precotte. Ecco, questi bambini sono come Hansel e Gretel. Una società matrigna che non accudisce, lo stato cinico e mal strutturato, infine i parenti carenzianti, li hanno abbandonati nel bosco. Prima del digiuno o del cibo avvelenato, c’è la mancanza di amore e di accudimento
Lei dedica questo bellissimo libro a sua figlia Alice, ma vi ho letto un amore profondo per quello che sono le donne così come sono. “Quello delle donne è il lavoro eroico”, mi disse una volta un amico, ma oggi più che mai c’è un disconoscimento profondo, quasi rancoroso che non risparmia nessun ambiente sociale. Eppure il lavoro delle donne è ancora doppio lavoro, pagato meno o nulla. Nelle fiabe cos’è il rancore?

Il rancore nasce dall’incapacità di riconoscere la propria ombra, proiettandola invece su altri, i quali, proprio a causa di questa proiezione dalla natura un po’ medusea, vengono “cosificati”: cadono in un sonno mortale, si pietrificano.
Ciò che spinge molti maschi più o meno coscientemente a squalificare le donne e il loro lavoro, può essere inteso come una forma di rancore. Ma il rancore a sua volta nasce dalla paura di vederle così “capaci”, così piene di risorse. L’arretratezza di certe culture patriarcali ha trasformato la donna in una risorsa a disposizione del maschio, come un pezzo di terra, ma sotto sotto scorre la rabbiosa consapevolezza che la “risorsa” sfugge al possesso e alla conquista. E’ sempre un po’ più in là. Come quegli uccellini magici delle fiabe, che il protagonista insegue senza mai poterli catturare, finché si trova perduto in un bosco.
La donna, poi, è più complessa dell’uomo, emozionalmente più ricca e capace di fare da sé. Forse l’esperienza della maternità, che l’ha obbligata a confrontarsi con funzioni e modalità di relazione diverse, oppure l’esclusione forzata dalla partecipazione alla vita pubblica e il conseguente sviluppo della sfera interiore, sono all’origine della sua maggiore complessità.
Di sicuro è in atto da quasi un secolo il tentativo sistematico di annullare questa ricchezza del sapere e del vissuto femminile che è d’ostacolo a chi vuole un mondo di individui totalmente inetti, immaturi e dipendenti dal sistema. Noi donne dobbiamo resistere e le fiabe, il folclore, ci aiutano. Ci danno forza e magia.
Roberta Borsani, La danza della vita. Comprendere il femminile attraverso le fiabe , Lindau 2012. Euro 16.

L’intervista è apparsa nel numero 14 novembre dicembre 2012 di QuiLibri.

3 pensieri su “Roberta Borsani, “La danza della vita”

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