De Chirico, “Dall’astrattismo alla metafisica”

Riletture
a cura di Luigia Sorrentino


“De Chirico, la Metafisica del Mediterraneo” (ed. Rizzoli, 1998)

Dall’astrattismo alla metafisica
di Silvano Trevisani

De Chirico si colloca, per Belli e gli astrattisti, in un momento di svolta nel processo di destrutturazione della realtà fenomenica, così come individuata dal classicismo.
In particolare, l’importanza fondamentale di de Chirico per Carlo Belli, teorico dell’astrattismo italiano, che fece capo alla galleria milanese “Il Milione” e ai suoi artisti, sta in due momenti precisi: 1) Egli rappresenta, come ampiamente descritto in “Kn”, un elemento fondamentale per il recupero della classicità nella sua più giusta (cioè più moderna) dimensione, scevra dalla retorica e ricondotta all’essenzialità; 2) Egli è la chiave di volta per il passaggio all’astrattismo geometrico, attraverso l’impero della geometria che individua come conquista principale di de Chirico.
Il tutto avviene attraverso il procedimento della rarefazione che è processo inverso rispetto a quello della civilizzazione, è ritorno alla purezza originaria, in cui la classicità è vuotata dalla retorica della frequentazione umana e dalla fenomenologia della ripetitività (quindi fissità retorica) delle forme abituali. De Chirico (ma anche Carrà) attraverso la sua metafisica è, per gli astrattisti, il passaggio obbligato per giungere, per il tramite di queste rarefazioni, all’arcano e alla serie algebrica delle sue leggi.

Il tutto ricondotto in un alveo di emancipazione della modernità che rappresenterà per Belli una costante essenziale. Anche se proprio sul principio di modernità si registrerà una controversia tra Belli e de Chirico, quando quest’ultimo, con uno dei suoi singolari interventi pubblici, rivolgerà un duro atto di accusa nei confronti del modernismo e dei suoi fautori, tra i quali “il signor Belli”.(1)

Riteniamo fondamentale, per comprendere questo passaggio, il breve canovaccio contenente “elementi per un film metafisico” che Belli pubblicò nel 1935 sulla rivista stampata a Rimini “Il Rubicone” (Sindacato Belle arti) (2) la quale lo propose col titolo “Elementi per un passo ridotto – Avanspettacolo”. Il brano è stato riproposto, nel 1975, da Mario Verdone, nel volume “Poemi e scenari cinematografici d’avanguardia” (Edizioni Officina, Roma), col titolo “Elementi per un film metafisico”. (3)

In esso Belli spiega con termini molto chiari che, se l’obiettivo perseguito dagli astrattisti, già a partirte dagli anni de “Il Milione”, è “collocare l’arte entro i limiti precisi dell’arte” il che “porta come conseguenza logica ed estrema all’abolizione di un’espressione figurativa destinata a offendere comunque un’idea di purezza integrale”, la metafisica “è forse il più affascinante dei compromessi”, e quindi lo scenario più vicino all’ideale preconizzato.

E proprio intorno a questo concetto ruotava l’individuazione fatta in “Kn” (4) della centralità del ruolo svolto dalla pittura di de Chirico e Carrà, già a partire dal 1915, nell'”instaurare in Europa una nuova classicità i cui attributi fossero ordine e modernità”. Un punto di partenza per una rivoluzione costruttiva, che avesse connotati ben diversi dal processo di disfacimento che aveva caratterizzato gli anni del dopoguerra.

“Il bisogno di porre ordine nelle cose della pittura, il presentimento di un assoluto universale lontano dalle esperienza contingenti intraprese dal 1850 in avanti, il desiderio di riprendere una classicità spirituale ben delineata nelle forme senza abdicare tuttavia ai diritti della fantasia che nell’uomo moderno sono sentiti, – tutto questo ha portato de Chirico e Carrà, anzitutto ad uno studio diligente e approfondito sopra un passato particolarmente aderente ai gusti di oggi e avente con essi contatti manifesti (…)”. Belli si sforza di mostrare la conseguenzialità della nascita della metafisica con il rinato interesse verso i pittori “primitivi italiani”. “…Ce n’era anche troppo per far nascere la pittura metafisica. Incomincia de Chirico; prende questa ordinata e limpida natura raffaellesca e la rende strana. A poco a poco l’essere vivente scompare dalle figurazioni dei suoi “ricordi d’Italia”: una statua addormentata in mezzo alle piazze italiane illuminate da una sinistra luce di eclissi (…) sotto il segno di una irrealtà magica e medianica, nasce una nuova realtà figurativa – per se stessa convenzionale, ma anticonvenzionale – colma di interesse rappresentativo perché è come la fantasia ordinata dall’intervento della intelligenza. (…) La natura – ridotta a cumulo di oggetti e di piani scomposti col cubismo – ritorna qui composta nel suo ordine normale. Ma quale stranissimo aspetto hanno ora i suoi elementi! E’ un nuovo mondo su cui splende, grande motore, la sola intelligenza. E’ una spettrale visione della realtà fenomenica, colma di fascino e di mistero: solitudini pesanti e sospese come un incubo fatale su oggetti morti, i quali sembrano palesare una loro vita al riflesso di luci lunari o artificiali. Nella fredda grandezza di queste scene, l’uomo è scomparso e la natura ha lasciato soltanto il suo scheletro”.

“Solitudini pesanti e sospese come un incubo fatale su soggetti morti. Pesci di rame dormono nei mari delle carte geografiche e manichini decapitati sono fissati in atteggiamenti estatici su grandi piazze pavimentate di legno. Castelli incantati fanno da sfondo a scene terrificanti nella loro immanenza. Sul nostro pianeta non sono rimasti che alcuni biscotti e qualche ombra stagliata sulla luce del pavimento. Il ricordo dell’uomo è stato affidato a forme di manichini fissi, in un silenzio spettrale mentre contemplano tavole nere coperte di calcoli di geometria descrittiva. Una luce cruda, secca, inesorabile illumina queste scene di desolazione. L’uomo se n’è andato ma ha lasciato tutto in ordine: la geometria ha trovato il suo impero”.

Quest’ultimo brano ritorna identico nel breve soggetto del Film Metafisico nella descrizione di uno scenario tipicamente cinematografico, in cui collocare “L’indovino” e “Le muse inquietanti”, che così si completa: “Sul mondo splende, grande motore, l’intelligenza e illumina un’atmosfera in cui tutto è silenzio, ordine e morte… Non credete di poter rendere col cinematografo questa visione fantastica?”.
Il suo ragionamento sul ruolo della metafisica è quasi completato. “Oggi ancora infatti – aggiunge in “Kn” – noi sentiamo che l’arte metafisica soddisfa a certe nostre aspirazioni intellettive come un mezzo di penetrazione verso i misteri di un ordine soprannaturale. Diciamo bene sopra-naturale. Bergson arriva fin qui: la realtà convenzionale uccisa per giungere più presto alla rivelazione della realtà”. Ma più avanti precisa: “A questo punto, vi sarete accorti che di tutto qui si parla, tranne che della pittura. Proprio così. In questo l’arte metafisica si appartiene del tutto al futurismo: in un quadro di Gris c’è pur sempre della pittura, ma nelle tele metafisiche, l’arte come invenzione manca. Il fatto è che la metafisica ha rivalutato al massimo il soggetto attribuendogli per di più uno specialissimo significato. L’uomo, la pittura è messa in sospetto, è vero; ma per creare un nuovo mondo fenomenico supernaturalistico, o naturalistico sui generis. Non dunque un mondo di pittura”.

Si può essere tentati dal giudicare quello di Belli, nella sua rivalutazione della classicità, un espediente per dare alla sua tesi pittorica, che conduce all’astrattismo, una sostanza in linea con l’attualizzazione dei valori più autentici della tradizione. Egli è troppo acuto e troppo dotato culturalmente per non rendersi conto che la voglia di modernità invade l’Europa, ma teme che questa voglia irrefrenabile possa essere causa di caos e dissolutezza, perpetuando i pericoli evidenziati dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale. Sostanzialmente, però, egli tenta di vestire tale impulso irrefrenabile di progresso e cambiamento con i panni sereni e immutabili della classicità ellenistica, della mediterraneità più adamantina, del cristianesimo.

Nel primato di Belli filosofo, nel suo tentativo di avviare la costruzione razionale attorno al suo disegno di arte totale, come primato dello spirito, elevazione della cultura come immanenza della purezza nel processo di percezione e di reinvenzione della realtà secondo il puro pensiero razionale, la metafisica rimane sempre passaggio obbligato, attraverso il quale realizzare il processo di destrutturazione della realtà.

Un Belli neopitagorico, che attorno al potere trascendente dell’esattezza numerica, al geometrismo, come massima espressione di sintesi di valori imperituri, tenta di ordire un disegno politico-culturale, che rimetta la cultura e le arti al centro dell’aspirazione dell’uomo. Il suo sentirsi “mediterraneo”, sta in questa convinzione. Se da un lato la Sarfatti preconizzava il ritorno alla classicità come recupero del passato da contrapporre alla rivoluzione delle avanguardie, Belli va oltre e tenta di dare fondamento classico alla rivoluzione antiformale. Nega la ripetitività della realtà come mera esercitazione retorica e si spinge, secondo la sua naturale tensione, verso il nuovo, ma dandogli un fondamento “classico”: la sua astrazione geometrica è l’esaltazione del numero di pitagorica origine e della naturalità e purezza dei colori.

In questo suo processo teorico e artistico (di destrutturazione della realtà e di riconduzione al primato della geometria) un punto obbligato è rappresentato dalla metafisica, che egli valuta, però, come un punto di partenza, per un oltre, che tiene già fisso in mente. E questo “attraversamento”, come accennavamo in apertura, è spiegato in maniera esemplare nel soggetto del “Film metafisico”.
In esso, la scomparsa “ordinata” dell’uomo equivale all’epurazione dei sentimenti che inquinano il processo di riduzione all’essenzialità. La visione onirica, l’immanenza sono sinonimi di purezza spirituale. Anche in questo senso metafisica e astrattismo geometrico si pongono in continuità.
Belli, con la sua genialità intuitiva, coglie l’importanza che la lettura cinematografica dell’opera d’arte può avere nel dimostrare praticamente come avviene la scomposizione della realtà e nel divulgare la tesi della “riduzione alla purezza originaria”. Il concetto è semplice: poichè de Chirico “compone” le scene dei suoi quadri a prescindere dalla realtà, inventando una sua realtà fatta di concetti enucleati dalla loro vita, e quindi componendo una irrealtà fantasmagorica, basterà mostrare come i singoli oggetti che compongono la scena non sono altro che pretesti, facilmente scomponibili e riducibili alla loro essenza più pura, e cioè alla loro radice geometrica, e il passo è fatto: basta seguire la descrizione che egli fa delle sequenze cinematografiche proposte per rendersi conto di come la scelta di de Chirico sia la scelta di un sistema di riferimento già pronto al passaggio decisivo, in quanto privo di ogni funzione realistica e figurativa e teso alla rappresentazione di una irrealtà, pure costruita con componenti residui di una frequentazione umana, ma ormai emancipati e autonomi rispetto ad essa.

“Un uomo esce per sempre da una porta. Si è visto quello che lascia dietro di sé. Portiamo sul quel tragico mondo anche lo spettatore.

Eccoci. Come navigante in un mare di tenebre, l’assito di una piazza riluce sinistramente: un castello incantato nel fondo; due manichini al proscenio, uno in piedi, l’altro seduto. Quello seduto ha deposto l’ovale delle propria testa in terra. Sulla prospettiva dell’assito, giace una statua. (Primo nastro).
Ecco dall’orizzonte buio e profondo scattano i nastri luminosi di alcuni riflettori. Si allungano, si ritirano, si tentano, s’incrociano: vengono da un altro pianeta. Nel silenzio, si ode un primo rumore: un bastone in terra, si raddrizza e si mette in piedi. E’ come il segnale di una nuova fase: il cielo si rischiara, ma come sinistra è la sua luce! Il Sole passa dietro a Saturno e come per un miraggio misterioso di chi sogna, si osserva il fenomeno ripetuto dieci volte in cielo (Tavola Z). – L’eclissi ingiallisce la scena con riflessi spettrali. Gli oggetti rabbrividiscono. Appaiono di contro a una finestra utensili altra volta veduti, in preda a una strana agitazione Laggiù, crolla una torre del castello incantato. Passa un vento sinistro, poi tutto ritorna in silenzio e in penombra (Tavola H). Nasce da questa penombra la testa dell’Apollo del Belvedere: bianca, enorme, poi meno grande. Un guanto da chirurgo e una biglia sono i suoi attributi, finché – ultima essenza – non rimane che la sfera. (Secondo nastro)”.

Fin qui la prima parte in cui il disfacimento della realtà è fin troppo ben esplicitato. Nella seconda parte vi è il complimento della meta-fisicità del racconto inteso proprio nel senso di extra terrestrità, egli infatti avvisa: “una rappresentazione metafisica deve giungere alle zone meno terrene dello spettatore e colpire la sua fantasia con una carezza profonda”.

Ecco la seconda parte del soggetto.
“Pausa. – Ritorna la prima scena. Il manichino seduto palesa inquietudine: nell’immobilità in cui si trova, con uno sforzo possente che gli fa gonfiare il seno, tende a esprimere un desiderio. la statua a mezza strada tra il proscenio e il castello, scende dal piedistallo, percorre al rallentatore la distanza che la separa dal manichino e, uscendo con faticosa angoscia dal proprio irrigidimento, riesce a chinarsi: prende l’ovale-testa che giace a terra e lo rimette sul collo del manichino seduto, che si alza e scompare.
Il manichino in piedi afferra il bastone e colpisce la statua, spezzandole l’avambraccio: dal moncherino esce sangue a fiotti. Il manichino si siede, si svita la testa e la depone dov’era prima quella del compagno. A un tratto la riprende con le mani e la rigira verso destra: da quella parte (dissolvenza) c’è un’altra piazza: scena della tavola nera (ultimo fotogramma del Primo nastro).

Segni algebrici e geometrici sono illuminati da un cielo in cui palpitano comete e nebulose. Strani cori sono nell’aria. La porta del tempietto in fondo si apre sopra una splendida aurora boreale. Il manichino si alza in volo e le va incontro perdutamente.

Passa, rotolando sullo schermo, il pianeta Mercurio”.
Belli si rende conto del rischio che un racconto del genere possa sconfinare da un lato nel futurismo e dall’altro nel surrealismo e cerca di evitarlo. Perché il futurismo non fa altro che attribuire una capacità di personificazione al movimento delle macchine, con la sorta di vitalismo alternativo ma sempre pretestuosamente legato alla narrazione della realtà, e il surrealismo attribuisce una vitalità sublimata e allegorica fine a se stessa e quindi inadatta alla rappresentazione che l’arte vuole fare della propria essenza.

Nell’insistenza sulla metafora fantascientifica c’è l’immanenza di prototipi (“il bastone che si mette in piedi”), che sembrano eretti a intuizioni trascendentali, in cui si compendiano anche citazioni e soggetti delle scenografie metafisiche tipicamente dechirichiane.
Insomma: de Chirico è per Belli il modo più visibile per illustrare lo sconvolgimento di ogni convenzione, un mondo in cui “il ricordo è affidato ad alcune forme che sembrano evocare lo scheletro di una natura un tempo già pulsante di azione, e ora ridotto alla pensante solitudine di un paesaggio rarefatto, nel quale i termini capitali di peso, di densità e di misura più non rimangono a regolare il corso delle linfe vitali”.

E il modo sensibile per fissare questo paesaggio è proprio il mezzo cinematografico, che è centrato sulla negazione del soggetto umano. Una sorta di rivoluzione per antonomasia, dal momento che proprio il cinema è totalmente incentrato sull’uomo e sulla complessità retorica delle sue emozioni.

Irrealtà e assenza dell’uomo sono conclusioni a cui giunge anche de Chirico, ma attraverso una strada tutta diversa e che tende a dare forza alle tesi metafisiche. Per de Chirico, però, il fatto che il cinema proponga solo visioni o immagini lo priva di ogni metafisica, a differenza del teatro, dove ci troviamo davanti ad un mondo magico e irreale ma, nel tempo stesso, evidente e concreto, insomma esistente materialmente e molto specificamente teatrale. “Al cinematografo invece noi ci troviamo davanti alle fotografie d’un mondo, davanti a delle immagini che si seguono sullo schermo. Quest’ammissione a priori della nostra ragione di aver a che fare in un film solo con delle visioni o immagini, toglie ogni metafisica al cinematografico”.(5)

Sostanzialmente però de Chirico insiste, nel suo scritto, sulle qualità narrative del cinema, del “film”, parla cioè di cinema d’arte o dell’arte “del” cinema, più che, come aveva fatto Carlo Belli sette anni prima, di arte “nel” cinema. Idea che, come vedremo, avrebbe solleticato anche Savinio, il quale vorrebbe “scrivere opere pittoriche per mezzo del cinema”.
“E’ interessante osservare – scrive ancora de Chirico – che mentre nel film l’emozione metafisica non esiste perché non agiscono gli attori vivi ma le loro immagini, in pittura, ove pure si tratta, non di persone in carne ed ossa, ma di visioni ed immagini, l’emozione metafisica esiste e come. Ciò dipende dal fatto che in pittura l’immagine e la visione sono create dal talento di un artista, mentre nel film sono create in modo assolutamente meccanico”.

Fissità e trascendenza sono i momenti che de Chirico privilegia nel considerare il teatro come lo strumento adeguato alla metafisica: realtà che si fa trascendere da se stessa nella rappresentazione, e quindi non realtà, della “realtà rappresentata”.

La mancanza di un concreto che rimandi al di fuori della realtà tangibile, fa dire a de Chirico che nel cinema manchi appunto la realtà da cui trascendere. “Vi sono certamente delle ragioni per cui il cinematografo sopprime l’emozione metafisica è il fatto che in un film agiscono non gli attori vivi ma le loro immagini che sono delle visioni o dei fantasmi degli attori vivi ma le loro immagini che sono delle visioni e dei fantasmi degli attori e non gli attori stessi, mentre sul teatro gli attori, agendo sulla scena, diventano, appunto per il fatto che si trovano sulla scena e sono completamente separati da noi, diventano dico, degli esseri irreali, pur essendo vivi”.

Le conclusioni dei due ragionamenti di Belli e de Chirico sono poi le conclusioni stesse alle quali i due portano le proprie teorie. Se De Chirico continua a esercitarsi sulla metafisica sempre più perseguendo un criterio di classicità (anche se poi andrebbe approfondito quanto realmente de Chirico crede egli stesso alle accuse pesantissime rivolte all’arte moderna e i suoi fautori – e qui torna il conflitto tra Belli e de Chirico che si scontreranno duramente, per riappacificarsi solo molti anni dopo), Belli ha già portato le sue conclusioni nell’astrattismo e quindi nel superamento di quella metafisica che egli aveva considerato quale strumento attraverso il quale giungere alla destrutturazione della realtà.

Se, infatti, la metafisica è la strada più immediata per raggiungere l’obiettivo di dimostrare la destrutturazione della realtà fenomenica, non può essere certamente considerata l’optimum. “Noi sentiamo tuttavia – scrive infatti Belli – che la “metafisica” può e deve essere negata come soggetto di pittura, in quanto l’arte va liberata dai vincoli di ogni pretesto; rimane dentro noi insopprimibile il ridicolo del suo mondo fantasioso, statico e colmo di magia”.

Per Belli, quindi, l’operazione cinema-metafisica è un passaggio apodittico dell’itinerario teso al superamento e alla negazione stessa della metafisica. Quest’ultima è rappresentata come passaggio finalizzato, quindi, e non come fine della rappresentazione (anzi, se vogliamo essere più precisi, come ulteriore dimostrazione che la fase conclusiva del percorso che restituisca all’arte il suo ruolo di autonomia sta solo nel superamento della metafisica, che è il gradino più prossimo all’astrattismo).
Quando de Chirico sostiene, quindi, che il cinema è strumento non metafisico, non adatto cioè a una rappresentazione metafisica, come lo è il teatro, finisce col dare ragione a Belli, il quale attraverso il cinema rappresenta il “movimento” dalla metafisica alla astrazione, quindi formalmente inadatto alla rappresentazione “della” metafisica.

E’ attraverso il movimento (ma de Chirico stesso indica nel movimento la peculiarità fondamentale del cinema), infatti, che le scene ideate da Belli si svuotano per diventare altro.

In più Belli, rispetto a de Chirico, fa un ragionamento sull’utilizzo dello strumento a disposizione dell’arte (“arte nel cinema”) e non sulla qualità artistica del contenuto cinematografico, precorrendo di qualche decennio l’utilizzo dello strumento audiovisivo nel processo di creazione artistica. Un utilizzo che non suggestiona per niente de Chirico, nonostante egli conosca le leggi dell’ottica. Quello a cui egli guarda è la assimilabilità, la assoggettabilità dei generi ai criteri teorici e pratici dell'”emozione metafisica”.
Anche Savinio sostiene, nel saggio “Pittura e cinematografo”, apparso il 7 maggio del 1948 sul “Corriere della Sera” (6), che pittura e cinema sono contrari, riecheggiando quanto scritto sei anni prima dal fratello. Ma le conclusioni a cui giunge circa la flessibilità dello strumento cinematografico sarà più prossima alle idee di Belli. “Il cinematografo, che noi oggi consideriamo come l’esempio dell’antipittura, forse diventerà esso stesso il mezzo della pittura, sostituendosi alla tela, all’imprimitura, alla pasta dei colori, ai diluenti, ecc… I segni sono già all’orizzonte”.

Sono passati 13 anni dall’articolo di Carlo Belli sul film metafisico e, come il poliedrico teorico dell’astrattismo, anche il grande artista pensa ora al cinema come mezzo “pittorico”.

“Se mi fossero forniti i mezzi, lo farei io stesso. Ma nessuno me li fornirà: ci vuol altro. Comporre delle sequenze di quadri, di figure, di paesaggi, di nature morte, il che darebbe inizio a una cosa novissima: la pittura in movimento”.

Ma Savinio, consapevole dell’impossibilità di fare arte “nel” cinema, si dedica all’arte del cinema, scrivendo una serie di soggetti cinematografici di intonazione classica.
Come abbiamo rimarcato, Belli, da grande sognatore, non solo ha già preconizzato un uso del cinema inteso a trasformarsi in opera d’arte, dall’intonazione artistico-didattica, ma ha tentato persino di procurarsi i mezzi, interpellando Ernesto Cauda, specialista di tecnica cinematografica, il quale pur apprezzando il soggetto di Belli, gli disse con grande semplicità che risolvere i problemi tecnici proposti sarebbe stato facile, ma che trovare i mezzi economici sarebbe stato molto difficile.
Il film metafisico resta così una provocazione, ma il soggetto chiarisce perfettamente lo scopo che la metafisica ha nella costruzione teorica di Belli, tutta tesa alla teorizzazione dell’astrattismo goemetrico.

Note

1) “Il mio borsellino era magro, la pittura cosiddetta metafisica, non si vendeva ancora, né vi erano in quel tempo dei mistici del modernismo, come oggi il signor Belli, per cantare quella pittura in termini lirici ed ermetici, che ottengono il solo risultato di assicurare al loro autore un gran successo di ilarità per il presente e per il futuro”, scrive de Chirico in “1918-1925 Ricordi di Roma”, edito nel 1945 dall’Editrice di cultura moderna di Roma (che noi citiamo dalla ristampa effettuatane dalle Edizioni della Cometa, Roma 1987).
Un giudizio aspro e severo quello di de Chirico che si può spiegare alla luce dei precedenti che avevano visto protagonisti i due personaggi, pochi anni prima, nel 1942. Era accaduto che, nel numero di gennaio della rivista “Lo stile”, era apparso un lungo saggio di de Chirico dal titolo “Considerazioni sulla pittura moderna”, una vera e propria messa in stato d’accusa nei confronti dell’arte moderna. Con una “Lettera a Giò Ponti sul caso De Chirico”, apparsa nel “Popolo di Brescia” il 27 marzo successivo, accompagnata da un commento redazionale (evidentemente dello stesso Ponti). Belli aveva stigmatizzato lo scritto di de Chirico con toni accesi. I due articoli sono stati ripresi, nel 1988, nell’Almanacco della Cometa, a cura di Giuseppe Appella e Paolo Mauri, con in premessa un contributo di Belli “Giorgio De Chirico”, in cui si racconta dell’episodio e della successiva riappacificazione, avvenuta solo molto tempo dopo.
2) Pagine 30-34.
3) Pagine 330-341.
4) Pag. 126 ss. Citiamo dalla terza edizione fatta da Scheiwiller nel 1988. “Kn” è stato pubblicato per la prima volta nel 1935, a cura de “Il Milione”. Mentre la prima riedizione, curata Scheiwiller è del 1972.
5) G. de Chirico “Cinema” Roma 15 maggio 1942, in “Il meccanismo del pensiero” a cura di M. Fagiolo, Einaudi Torino, 1985, pagg. 413-421.
6) Il saggio è stato riproposto dall’Editore Scheiwiller, Milano 1991, nel volume: A. Savinio, “Il sogno meccanico” con introduzione di Mario Verdone”, pagg. 83-89.

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