Mariapia Veladiano, Video-Intervista ‘La vita accanto’

Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino

Il 23 ottobre alle 12:30 Mariapia Veladiano, autrice di La vita accanto, Einaudi Stile Libero, 2010 (euro 16,00)  sarà in onda su Rainews in un’intervista di Luigia Sorrentino.

Maripia Veladiano vicentina, laureata in Filosofia e Teologia, ha insegnato Lettere per ventisette anni in un istituto professionale a Bassano. Attualmente è Preside a Rovereto, in Trentino. “L’ idea è stata quella di coltivare l’orto più in grande – racconta la Veladiano. – E’ capitato che nella scuola la legge sull’autonomia ha richiesto, per poter realizzare dei progetti belli per i bambini e per i ragazzi, anche una grande intraprendenza a livello di dirigenza, e allora ho pensato che potevo lavorare per il sogno di una scuola dell’equità e dell’accoglienza. Una scuola in cui i bambini e i ragazzi fossero veramente protagonisti – cosa a cui ho sempre mirato nell’insegnamento  – e quindi ho pensato che potevo fare il corso per dirigente in Trentino dove vi è una bella legislazione scolastica che permette, forse un pochino meglio che altrove, di realizzare il mio sogno.”
La vita accanto, opera prima di Mariapia Veladiano, (ha vinto il premio Calvino nel 2010 e si è classificato al secondo posto al Premio Strega 2011), presto diventerà un film. Il regista Marco Bellocchio molto colpito dalle tematiche del romanzo, ne ha infatti acquistato i diritti cinematografici.

[flv]http://www.rainews24.it/ran24/clips/2011/10/veladiano-poesia.mp4[/flv]

 

Intervista a Mariapia Veladiano
di Luigia Sorrentino
Roma, 24 settembre 2011

La vita accanto racconta la storia di una ragazza che si sente brutta.
Perché ha scelto di raccontare proprio questa storia?
“Le storie ci arrivano. Non è proprio una scelta, quasi mai. E’ vero che i protagonisti delle storie che raccontiamo si impongono – in qualche modo – ci arrivano vicino e dicono: ‘adesso è l’ora di raccontare proprio la mia storia’.
Credo che la storia di Rebecca sia venuta da molti anni di insegnamento a contatto con le ragazze e i ragazzi della scuola, anche nella difficoltà di vedere come loro, pur essendo molto più curati e più belli di come eravamo noi – basta pensare quanto sono belle le foto di scuola oggi e quanto erano meno belle le nostre – eppure, questi ragazzi, percepiscono se stessi con grande insicurezza. Persone bellissime che si vedono brutte, con un corpo che deve essere sempre migliorato. Credo che volendo raccontare una storia di marginalità, sia venuta fuori una storia legata alla marginalità legata all’aspetto fisico, che e una marginalità particolarmente crudele oggi. Perché colpisce quasi tutti, perché c’è un canone molto rigido di Bellezza, nel quale pochissimi rientrano, davvero pochissimi.”

Quanto tempo ha impiegato a scrivere La vita accanto?
“E’ un libro piccolo, 170 pagine, ma ho impiegato quasi quattro anni a scriverlo. C’è una ragione precisa. Io credo che le storie che si raccontano devono avere una storia e una narrazione e non è facile trovare il suono. Il suono e qualcosa di antico. A noi le storie arrivano sempre attraverso un suono, anzitutto. I bambini hanno storie raccontate prima che storie lette. Imparano a leggere molto dopo che qualcuno ha raccontato, se va tutto bene, a loro delle storie. Le storie sono sempre legate a un suono, a una voce che racconta. La voce che racconta è spesso la voce della mamma, di una zia, di una nonna, di una sorella maggiore, di un fratello maggiore o di un papà… e, credo, che ogni storia debba accompagnare alla narrazione sempre anche un suono che le sta bene e che è il suo suono esatto, che è fatto di parole che non stonano. Io lo chiamo suono di culla e non perché sia un suono che induce il sonno. Ma perché è un suono d’infanzia che è quella cosa meravigliosa che è la narrazione, narrata e non letta.”


Vi è qualcosa di autobiografico nel suo libro? La storia di Rebecca potrebbe essere considerata la sua storia?
“In senso lato ogni storia è la propria storia. In senso stretto, no. Non nel senso di come viene raccontata da lei. Io ero figlia di contadini, lei è figlia di borghesi. Io abitavo in campagna, lei abita in città, quindi non si sta parlando di una storia autobiografica in senso stretto. Sono un po’ diffidente verso la narrazione che si appoggia in modo molto rigido all’autobiografia. Io credo che una narrazione – pur salvando sempre l’elemento dell’autobiografia, del passaggio attraverso di sé – debba diventare una ‘vera storia’ e lo diventa solo quando si libera dall’esigenza autobiografica. Allora dico – un po’ semplificando – che la storia di Rebecca è una storia in cui tutti i sentimenti, gli affetti, sono miei, ma le vicende no.”

C’è un aspetto che mi ha colpito di questo libro… la storia di Rebecca è la storia di una bambina che ‘si salva’ perché intorno a lei vi è l’alleanza di diverse persone che la aiutano a trasformare la sua marginalità nella passione per la musica . E’ come se Rebecca ci dicesse: ‘Gli ultimi saranno i primi’.
“Gli ultimi saranno i primi se chi sta loro intorno li vede.
C’è un’espressione bellissima, di Ilario di Poiters (n.d.r. teologo, filosofo e scrittore venerato come santo dalla chiesa cattolica, visse a Poiters tra il 315 e il 367 d.c.) che non sempre viene interpretata correttamente. Ilario di Poiters diceva: ‘Prima di conoscere te non esistevo’, e si riferiva a Dio. Spesso questa frase è stata interpretata come un’espressione ‘devota’. Ma non è neanche vagamente un’espressione devota. E’ una legge della vita… Nessuno di noi prima di essere riconosciuto e di riconoscere un altro esiste. Non abbiamo l’immagine di noi se qualcuno non ce la restituisce. E Rebecca all’inizio deve proprio fare un’operazione di questo tipo. Per metà del libro si chiede: ‘Ma chi sono io?’ e nell’altra metà scopre di essere qualcosa, perché il mondo le dice: ‘Stai attenta Rebecca… Tu sei: A, la mia amica (glielo dice l’amica Lucilla), B una mia allieva (glielo dice la maestra Albertina – C, sei una donna che vale (glielo dice la tata Maddalena). C’è un mondo intorno a Rebecca che la riconosce. Soltanto così possiamo trovare veramente la nostra vita. Non si trova nessuna vita nella solitudine assoluta.”

Crede che il mondo di oggi manchi di fede e in questo senso pensa che il suo romanzo possa essere rassicurante perché offre una visione confortante all’umanità?
“Confortante in senso strettissimo no. Perché non è un romanzo che da un ” happy end”, non è sfolgorante il finale del libro. E’ un romanzo che dice ‘possiamo farcela tutti insieme se tutti insieme ci si vede’. In realtà Rebecca che si ritiene emarginata trova il suo sguardo – che e lo sguardo degli altri – . Credo che questa sia la strada esatta: la possibilità di vivere attraverso lo sguardo degli altri. Questo grande mistico del quattrocento che è Ilario di Poiters diceva: ‘Prima di conoscere te non esistevo’ ed è un’affermazione che ha a che vedere con l’umanità tutta. Ciascuno di noi esiste nello sguardo degli altri. Se ci vediamo, gli uni e gli altri, se ci vediamo tutti – ma proprio tutti – possiamo avere un valore e salvarci. Prima non esistiamo”.


La vita accanto non è forse la vita parallela, ‘la strada degli affetti’ come la definisce lei , che aiutano Rebecca a trovare il proprio posto nel mondo?
La vita accanto è quella a cui può, da un lato, essere condannato chi fingiamo di non vedere . Credo che nella nostra vita fingiamo di ‘non vedere’ parecchie persone. La nostra vita è una vita ‘strana’ in cui sembra che abbiamo delle mete molto precise davanti. Quando poi ci si interroga su quali siano queste mete, non è poi così chiaro quali esse siano. Perché non può essere, evidentemente, una meta realista quella di essere sempre in corsa verso un successo che spesso è qualcosa che dura poco, è effimero, ma soprattutto che riguarda pochissimi. Allora che senso ha una vita spesa – io dico consumata – a cercare qualcosa che non avremo mai?
La vita accanto è una specie di avvertimento: abbiamo tante vite davanti a noi che dobbiamo vedere, ma noi stessi siamo ‘vite accanto’ se non sappiamo metterci nel flusso giusto della vita.
Il flusso giusto della vita è semplicemente quello della vita che vede tutto… che vede tutti… Vede il bene, vede il male, lo accetta e si fa carico di ogni cosa e non chiude gli occhi. E non chiude gli occhi.”


Mi sembra di capire che le persone che stanno intorno a Rebecca la aiutino a vedersi… ma, alla fine, anche loro stessi ‘si vedono’ insieme a lei…
“Rebecca non si salva con un atto di eroismo.
Ai ragazzi piace molto quest’idea dell’atto di eroismo. Quando vado nelle scuole – spessissimo vado a parlare del romanzo nelle scuole perché lo leggono, nelle quarte nelle quinte perché mi invitano gli insegnanti – capita che mi chiedano: ‘Ma lei ha voluto scrivere un romanzo per aiutarci a resistere alle avversità del mondo, essere eroici di fronte al mondo…’ Dico, a parte che non si scrivono romanzi per ‘uno scopo militante’…. Però, se caso mai il mio romanzo avesse avuto uno ‘scopo militante’, è al contrario: è un romanzo che invita il mondo a vedere la marginalità, perché l’idea della lotta dell’uno contro tutti è speculare all’idea perdente di seguire il successo a tutti i costi… Vuol dire: ‘ti perderai in un desiderio che riguarda poche persone’. Invece la vita vale sempre ed è tanto più bella quando tutti noi possiamo costruirla insieme.”


Questo però è un romanzo che dà una forma di speranza…
“Sì, assolutamente sì. Io credo che un’operazione fondamentale che si deve fare è quella di resistere al male. Resistere al male è un’operazione che compie Rebecca. Lei riceve un grande male che è l’indifferenza, il non essere amata, e impara a resistere… Però, allo stesso tempo, è un invito a tutto il mondo a stare attenti. Attenti: perché non si può ignorare chi è emarginato, chi è nel dolore, che è qualcosa che riguarda tutti, o che può riguardare tutti.. Io dico sempre che ci vuole un attimo a scivolare nell’ isolamento… è un attimo… Oggi basta niente per finire nella marginalità… basta perdere il lavoro, e si è marginali, ammalarsi e si è marginali immediatamente, perché non si sta più al ritmo… Quindi la marginalità è un rischio di tutti e guai a rassegnarsi al fatto che metà del mondo è marginale.”


La vita accanto dà ai lettori la possibilità di scoprire il senso di inferiorità che avverte chi è marginale … o chi si sente marginale…
“E anche il nostro senso di responsabilità. Perché è necessario capire che siamo responsabili, corresponsabili di tutto, non si può far finta di niente. Quando si fa finta di niente si fa un’operazione che mortifica noi stessi. In qualche modo dico sempre che ‘la zattera del nostro egoismo è una morte anticipata’. L’egoismo è sempre una morte anticipata perché implica una specie di ottusità… Il non vedere… E come si fa a non vedere? Bisogna stordirsi, correre, lavorare, fare tutta un’operazione di tipo personale e di falsità che ci prende, che ci aggancia e che alla fine ci corrode e ci consuma.”


Le risposte che arrivano dalle persone che stanno intorno a Rebecca ci fanno pensare proprio quello che diceva lei, che la mancanza d’amore può essere devastante e può avviarci a condurre un esistenza ammalata. Ora, trovando qualcosa di buono intorno a lei, Rebecca invece, riesce a dare un nome alla propria diversità. Qual è il nome che trova Rebecca?
“Io credo che un poco alla volta Rebecca scopra che la diversità è del mondo e non e la sua. In realtà, la domanda che dobbiamo porci è questa: chi è brutto tra il mondo e Rebecca? Rebecca è ‘un pochino brutta’, brutta nel senso banale di non essere proprio allineata al canone di oggi della bellezza, di quelli che son convinti che la vita è tutta lì … Essere sfavillanti, luccicanti, eccetera.
In realtà quello che Rebecca scopre è che il mondo esterno è brutto e il riconoscimento di questo mondo esterno, – ‘l’errore’ sta fuori di lei e non dentro di lei – Rebecca lo scopre grazie a persone che glielo sanno dire e che le restituiscono la possibilità di esistere”.


A un certo punto Rebecca scopre la verità di sua madre. Una realtà inimmaginabile e oscura. Il male estremo viene a un certo punto illuminato da una luce buona, positiva…
“E’ il lato oscuro dell’amore. L’amore non è sempre luce. Qualche volta c’è questa idea consolatoria che l’amore sia sempre una forma di luce, non perché l’amore in sé sia oscuro… Ma perché così come è declinato nell’umano può essere oscuro. E allora sicuramente la mamma di Rebecca adora la figlia, però la madre vive qualcosa che appartiene a tanti di noi ed è il fatto di non essere nata ‘da se stessa’, ma di essere nata ‘da una storia’… Allora lei incarna una storia… Modernamente un termine che viene usato è il ‘transgenerazionale’ ma ci sono termini più antichi che potrebbero essere una specie di ‘ereditarietà della stirpe’ che agisce in lei. Quindi, quando nasce Rebecca, nasce prima sognata (come ogni bambino) e poi come bambina reale. Rebecca incarna nella sua nascita il sogno della madre che è il sogno di chiudere una storia di dolore familiare. E questo per Rebecca è un compito immenso. Talvolta i bambini hanno questo compito immenso, ma è improprio: è doloroso avere il compito di ‘chiudere una storia di dolore’. Quanti bambini portano il nome di parenti morti. Pensiamoci. E’ bene questo? Non è bene. Non è mai bene. Però i bambini, qualche volta, hanno questo ruolo, e quando nasce Rebecca delude il sogno della madre… Ovviamente ogni vita che nasce deve fare l’esperienza bellissima del sogno dei genitori ‘che arretra’ per far parlare il sogno dei figli. Qualche volta questo non capita e nella scuola noi lo vediamo… Quanti genitori ci arrivano a scuola e ci dicono: ‘E pensare che io speravo… che suo nonno sarebbe notaio… E pensare che il papà sarebbe medico… mio figlio potrebbe…’ E allora lì vuol dire che il sogno dei genitori non è arretrato, non c’è spazio per la vita dei figli. A Rebecca questo capita ‘al quadrato’ perché lei deve chiudere una storia di dolore e di colpe. Lei nasce brutta e non chiude questa storia di dolori e di colpe. E la madre non è in grado di fare l’operazione, di fare ‘arretrare’ il suo sogno e di mettersi al servizio di questa nuova bambina, di questa nuova vita. Questa non è una colpa. Può essere proprio un’incapacità. Qualche volta i dolori nascono dall’incapacità, non sempre dalle colpe.”


Il tema dell’acqua è molto presente nel romanzo. Così come è presente la bellezza dei luoghi che poi sono la città di Vicenza. Spesso le emozioni arrivano dalla descrizione di ciò che è ‘oggettivamente bello’ e che sta intorno ai personaggi.
Che cosa rappresenta per lei l’acqua?
“Il romanzo è un po’ un romanzo di elementi. Perché c’è l’aria, c’è Rebecca che apre la finestra (n.d.r. in copertina vi è l’immagine di una finestra aperta) e fa entrare l’aria, cioè la vita. La finestra aperta poi, è vita e morte, perché noi non lo sappiamo… Ma alla fine del romanzo, può essere anche morte.
L’acqua, quindi, rappresenta esattamente quello che rappresenta in quanto elemento primordiale. E cioè è vita e morte, è un simbolo doppio. Da un lato è vita perché senz’acqua non c’è vita, e, dall’altro, è morte, perché nell’antichità l’acqua era anche pericolo perché si soccombeva per cercare di attraversare i mari, il mare era misterioso, profondo, si poteva morire, ‘erano i naufragi’… Quindi l’acqua ha in sé tutte due le cose.
Nella città di Vicenza poi, nella realtà, c’è un Bacchiglione che esonda, ogni tanto combina delle cose tremende… Però c’è anche la città che è viva e si muove… E c’è il Retrone, che è il quartiere dove abita Rebecca, che rappresenta un’acqua stagnante, chiusa, ma che è anche l’acqua che protegge i segreti e li custodisce… è l’acqua nella quale si può morire se non si affronta la verità. Si diventa pietra sul fondo.”


Quindi è molto importante che Rebecca riesca anche a vedere quell’altro tipo di acqua, l’acqua che scorre e ripulisce, e che sana. La signora De Lellis – uno dei personaggi del libro – svela a Rebecca “ti hanno nascosta e ti hanno nascosto tua madre… In una città come la nostra, dice, questo voleva dire colpa e vergogna…”
E allora le chiedo: quanto ha contato la sua città d’origine, quindi la provincia, nella stesura del romanzo? Che città è Vicenza?
“Vicenza è una città bellissima per alcuni aspetti, perché come è raccontata nel libro, è una città di palazzi storici meravigliosi, di fiumi, di incanti, di fughe notturne è una città anche ricca di spiritualità. Quindi è una città di mistero, sono tanti poeti e anche gli scrittori vicentini, cito uno per tutti, Scapenna. Grandi scrittori che hanno raccontato come Vicenza sa essere tremenda. E sa essere tremenda perché spesso la provincia ha questa dimensione un po’ della chiacchiera, del pettegolezzo, del pensare veramente che la vita è tutta lì – è tutta lì – in una superficialità esibita a tutti costi. Ed è una superficie, veramente, solo una superficie che luccica, ma che dietro può nascondere anche la morte. Quindi ha in effetti una doppia faccia Vicenza.”


E’ come se il romanzo fosse arrivato un po’ a rompere gli argini della ‘provincialità’ tra virgolette… Però lei lo fa in un modo straordinario. Perché la lingua di questo libro sembra appunto provenire ‘dal canto di una culla’, come lei ha detto… Se invece questa storia fosse stata raccontata da un giornalista di cronaca non avrebbe avuto la stessa lingua…
“Sulla lingua ho come insegnante ho sempre fatto un grandissimo investimento. Dico sempre ai ragazzi che la lingua custodisce la capacita di intendersi, di parlarsi, di capirsi. La lingua preserva dalle guerre. Quante guerre sono nate per un equivoco linguistico… Quando si conosce poco lessico, poche parole, quando le parole sono povere, quando la lingua del mercato è ‘Si-si, no-no…’ oppure ‘voglio-non voglio, compro, bello-brutto, destra-sinistra, basso-alto, amico-nemico’ è una lingua che prepara alla guerra per cui bisogna scavare le trincee poi. Invece, la lingua delle sfumature, delle tantissime parole – diciamo, ‘utilizzate’ – è la vera lingua. Perché è la lingua che ci permette di capirci… Perché se no accade ciò che avviene quando si conosce pochissimo di una lingua straniera… non si dice quello che si vuole, ma si dice ‘quello che si riesce a dire’, e qualche volta ‘quel che si riesce a dire’ è impreciso o è buffo nella migliore delle ipotesi, o è drammatico, in altre, può portare a equivoci tremendi. La stessa cosa è la lingua nostra… Se abbiamo poche parole, poche possibilità di espressione o di sfumature, rischiamo di fraintenderci, ed è una tragedia. E veramente una tragedia, quindi sì, c’è tutto un lavoro sulla lingua perché la lingua deve dire esattamente il sentimento, l’espressione, e non è facile, ancora adesso alcune parole che sono nel libro io non le utilizzerei.”

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Questo libro è anche un po’ poetico. C’è stato il desiderio di trovare il linguaggio della poesia, la sintesi della poesia. E’ così?
“Negli ultimi anni tutti mi chiedono: ‘Ma lei cosa legge’?
Io ho letto tantissimo in alcuni anni narrativa alcuni autori che adoro sono: Francesco Biamonti, Maria Bellonci, Marguerite Yourcenar. E negli ultimi anni, invece, leggo molta più poesia benché io non scriva poesia, per nessuna ragione, però molta più poesia perché la poesia è più capace di custodire la lingua, il segreto della linguaggio”.


Io credo che oggi la lingua dei romanzi sia spesso, troppo scadente… Talvolta è troppo legata alla realtà del parlato e forse in questo senso la lingua della poesia è più attenta alla lingua…
“La poesia custodisce la ricchezza delle parole. Invece il romanzo, oggi, talvolta, insegue troppo il parlato. E’ un po’ un gioco tra il parlato e la scrittura, è un gioco perché il parlato sul lungo periodo prevarrà, però la scrittura preserva ciò che è prezioso, e può arrestare il parlato.”

(Si ringrazia per la gentile ospitalità l’Hotel Locarno di Roma).

6 pensieri su “Mariapia Veladiano, Video-Intervista ‘La vita accanto’

  1. Pingback: 10 libri del 2011 | Bartleby Café

  2. Ritratti dolci e amari di questa nostra umanità che si ritrova solo quanto si sente vicino a qualcuno.
    Grazie per il bellissimo libro.
    Un caloroso saluto
    Wanda

  3. Si è proprio vero!ti ci fanno sentire brutto col tempo,la società ti impone un canone che in molti casi è inraggiungibile!ti spacchi la schiena una vita per raggiungere qualcosa che non può essere tuo!mi consiglio e vi consiglio di essere noi stessi e di amarci!punto e basta!sono rimasto piacevolmente colpito da questa intervista a mariapia e mi prometto di leggere il libro!ciao

  4. siamo rimaste incantate da questa intervista e dalla bravura e sensibilità della giornalista che ha saputo cogliere l intimo sentimento della scrittrice.

  5. Cara Luigia,mamma e papà sono rimasti emozionati nel sentire le tue domande del cuore e le risposte della scrittrice Veladiano in sintonia con te!
    baci

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