Pasolini e Zanzotto, poeti della contemporaneità

Pier Paolo Pasolini

Andrea Zanzotto

UN SECOLO, E IL FUTUROCON PASOLINI E ZANZOTTO

di Giovanna Frene

 

Dopo i recenti volumi Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Franco Cesati Editore 2018) e Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire (Mimesis Edizioni 2019) – nei quali da un lato veniva ricostruita la concezione zanzottiana di destinatario mediante le traiettorie delle prose di poetica e dei paratesti nella poesia, dall’altro veniva tracciata la poliedricità dell’influsso lacaniano nell’opera del poeta –, lo studioso e critico Alberto Russo Previtali con questo suo nuovo lavoro si afferma ormai come uno dei più sicuri esperti dell’opera poetica di Andrea Zanzotto, avendo curato quest’anno anche il volume Le estreme tracce del sublime. Studi sull’ultimo Zanzotto (Mimesis Edizioni 2021), parimenti edito in concomitanza con le celebrazioni per il Centenario della nascita del poeta di Pieve di Soligo.

 

Come scrive l’autore nell’introduzione, a legare Pasolini (di cui ricorre il centenario della nascita il prossimo anno) e Zanzotto non è solo il fatto di essere praticamente coetanei, ma di condividere, oltre alla solida centralità nella poesia del Secondo Novecento, la fedeltà ai valori più intrinseci e sorgivi della poesia, fattore che ha permesso loro di misurare con la parola poetica, in anticipo sui tempi, tutti gli scalini del degrado etico-ecologico che ha portato all’attuale crisi italiana e globale. Tutti ricorderanno la celebre poesia in dialetto di Zanzotto, inserita in Idioma (1986), dove egli ricorda la sua infanzia, parallela a quella di Pasolini, ma lontana, seppur non distante geograficamente: i due poeti da adulti avranno invece molte occasioni per confrontarsi sui cambiamenti in atto nel nostro paese a partire dagli anni Sessanta, vissuti da entrambi come cambiamenti traumatici che si riflettono nella loro opera. È su questo terreno comune che Russo Previtali va a rilevare i punti di similitudine (d’altro canto già definiti da Zanzotto nella citata poesia con il verso “di ciò che vale avevamo la stessa idea”) e le diversità tra i due autori, oltretutto avvallati dalla reciproca attenzione critica durata praticamente fino all’ultimo.

Sulla falsariga di questa testimonianza autoriale parallela e intrecciata, dunque, lo studioso formula e dimostra la sua ipotesi critica, ossia che i due si possano guardare oggi come altissimi e precoci testimoni, se non profeti, di quella che viene definita la “Grande accelerazione” dell’Antropocene. Iniziando con il grattare sotto la patina dorata delle dinamiche del “miracolo economico” italiano, da Pasolini e Zanzotto descritte e decostruite, i due poeti hanno saputo leggere sotto le insidie di un falso progresso i guasti che ne sarebbero conseguiti, fino al terribile oltraggio etico e fisico perpetrato ai danni all’ecosistema. Questa parabola discendente che porta alle degenerazioni del mondo (globale) contemporaneo assume però anche connotazioni diverse nei due poeti: “Pasolini ha insistito sulla dimensione totalitaria della società dei consumi, sulla sua capacità di produrre una “mutazione antropologica” irreversibile, di trasformare i corpi e le mentalità degli individui dell’Italia rurale in quelli di consumatori globalizzati, votati a un edonismo artificiale e coatto. Zanzotto invece si è focalizzato piuttosto sugli effetti che le nuove forme di dominio producono sulla natura e sul paesaggio, sostenendo a più riprese l’impossibilità di rimanere nella visione storica classica (la “storia mediterranea”) e affermando la necessità di confrontarsi con un nuovo tipo di temporalità, una temporalità geologica che sconvolge la prospettiva antropocentrica”.

È dunque nel nodo della definizione complessa, e non riduttiva, di “Antropocene” – quindi nella piena coscienza che l’attività umana ha modificato forse irreversibilmente la vita sull’intero pianeta, come le sua superficie –, che Pasolini e Zanzotto hanno proiettato (forse Zanzotto, per motivi biografici, in maniera più lancinante) le loro profezie che ben oltrepassano la semplice idea di distruzione dell’ambiente, legata ancora a una visione rassicurante e idealizzante. Ed è su questa base, la complessità dei fatti e la conseguente complessità delle interpretazioni, che Russo imposta la seconda parte del suo lavoro: “condurre una lettura incrociata delle opere di Pasolini e Zanzotto per cercare di capire meglio il loro rapporto con la radice profonda dei mutamenti epocali a cui hanno risposto, in modo da contribuire alla costruzione di un’interpretazione più penetrante e complessa delle cause e degli effetti di quella galassia di fenomeni sconvolgenti che si è imposta con il nome ambiguo, ma irrefutabile, di Antropocene. Questa lettura sarà condotta a partire da una profonda fiducia nel valore conoscitivo della parola di questi poeti, quindi con la viva e ferma convinzione che la critica letteraria, come disciplina di frontiera tra arte, scienze umane e filosofia possa giocare un ruolo di primo piano nella crescita, oggi più che mai necessaria, delle «nuove scienze umanistiche ambientali»”.

*

Il brano che segue è tratto dal Capitolo 2 (Zanzotto: la consapevolezza geologica e lo sterminio dei campi) della Prima parte del libro:

“Il confronto con la temporalità geologica come dimensione di verità umanamente insostenibile è rinvenibile con tagliente chiarezza già in alcuni passi premonitori di Vocativo:

E se intorno la terra è tempestosa,
se premono laggiù le rupi acerbe,
oltre i secoli amica a te la rosa
pende il lembo d’Arcadia pingue d’erbe.
[…]
Quel nimbo ci dissanguerà, quel furto
molle che tarpa con la rosa il mostro
fossile e il marmo piega: stasi ed urto
dove in un altro vero affonda il nostro.

In questi versi di Bucolica, che Zanzotto stesso cita e commenta nella conversazione con Breda, vediamo come la «rosa» e l’«Arcadia», topoi che rimandano a una dimensione altamente idealizzata e letteraria della natura, vengano alterati nel contrasto con le rupi che, seppure «acerbe», appartengono a una temporalità che va «oltre i secoli» nei quali l’uomo scandisce la storia. Così, nell’ultima quartina del componimento, ecco la «rosa» essere assorbita dal «mostro / fossile», con l’enjambement come unica soluzione di continuità. In questi passi, nei quali Zanzotto dice di guardare oltre il tempo storico «occhieggiando alla paleoantropologia», emergono chiaramente le condizioni della crisi dell’idea dell’umano, che viene appunto verbalizzata in Fuisse, il componimento successivo che chiude la raccolta: «non-uomo mi depongo / ad attenderti senza nulla attendere». La temporalità che si estende «oltre i secoli» della storia nega l’immagine umanamente pensabile dell’uomo, che si presenta dunque come un «non-uomo» che vive una «vicenda non-umana» attraversata dal nulla in cui si confondono il passato e il futuro: il «fuisse umano», il tempo dell’essere stato. È uno sguardo che cerca di cogliere la vita «al livello della pietra», come si legge già nel saggio L’inno nel fango (del 1953), in cui Zanzotto dà un’interpretazione della poesia di Montale come approdo di una «discesa verso la “cosa”», nel quale la temporalità umana si vede ridotta all’inerzia dello scarto, del «presente come regno delle scorze e dei gusci vuoti». Questo spazio tematico zanzottiano trova certamente nell’opera di Leopardi la sua sorgente, ma si nutre anche di altre presenze (come quella dell’abate Zanella e della sua «conchiglia fossile») crescendo progressivamente nel corso dei decenni, fino a diventare un punto fisso della riflessione del poeta, come attesta il titolo dell’exit opus del suo itinerario: Conglomerati.

Negli interventi di inizio millennio, l’idea di un’irruzione del tempo geologico si presenta da un lato come un effetto importante della “malattia” della contemporaneità, e dall’altro, invece, come una delle sue cause, e quindi come un possibile orizzonte di azione culturale. Zanzotto parla della «consapevolezza geologica» come «del trauma forse più forte che l’uomo abbia dovuto soffrire: passare dalla storia alla geologia e tentare di armonizzare il tempo storico con il tempo biologico e, appunto, con quello geologico e cosmologico». Questo colpo poderoso inferto all’immagine dell’uomo collettivamente condivisa ha reso necessario «un brusco aggiornamento», che Zanzotto data «a partire dal XIX secolo». La visione storica dell’affermazione della «consapevolezza geologica» può dunque essere letta come un tentativo di raccontare «l’evento Antropocene», o almeno di metterne in evidenza un aspetto essenziale. Tuttavia, quando Zanzotto parla di «vero grande trauma, che non è stato ancora digerito, anche socialmente», sembra mettere l’accento sulla sfida etica, culturale e civile che questo trauma comporta.”

Alberto Russo Previtali, Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *