La terra devastata di T.S. Eliot

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

La terra desolata? No, devastata. Quando Thomas Stearns Eliot nel 1922 pubblica il celebre poemetto, l’Europa è in effetti un luogo terribilmente solcato da macerie e distruzione, da dissesti materiali e finanziari, una terre gaste a misura dei poemi medievali, quelli del ciclo del Graal, del Re Pescatore e di Percival. Il richiamo non è dunque casuale. L’interessante proposta di una versione meno letteraria e più letterale del titolo è di Carmen Gallo che confeziona con testo introduttivo, traduzione e note d’apparato una nuova edizione per il Saggiatore.

La storia è nota: Eliot è a Losanna con la moglie, in cura per un lancinante esaurimento nervoso. Tra il dicembre del ’21 e il gennaio del ’22 compone The Waste Land e manda il plico con i fogli a Ezra Pound che opera praticamente una «Caesarean operation»: filtra, taglia, sintetizza. È lui il miglior fabbro a cui Eliot dedica i cinque ‘canti’ (La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il Sermone del Fuoco, Morte per acqua, Ciò che disse il Tuono) con cui è divisa La terra devastata. Cinque canti che sono composti secondo un preciso disegno artistico: il cosiddetto metodo mitico, ravvisato dallo stesso poeta americano nella recensione all’Ulisse di Joyce del 1923. In cosa consiste? Commenta Gallo: «Eliot chiama in causa il ‘classicismo’, che definisce come fare ciò che si può ‘con il materiale a disposizione’, secondo le possibilità di tempo e di luogo. E sostiene il ‘metodo mitico’ joyciano, inteso non come rifugio nella ‘materia mummificata’ del passato, ma come continuo parallelo tra contemporaneità e antichità: l’uso di un paradigma archetipico per controllare, dare ordine e forma ‘all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea’».

Il modernismo è tutto qui. In questa svolta del ‘classicismo paradossale’ (ampiamente utilizzato anche da Montale nella triade Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera e altro) che mutua dall’antico, dal mondo classico segmenti poetici, interstizi narrativi e situazioni psicologiche capaci di ristabilire un ordine, ancorché fittivo, nell’epoca del caos della modernità. Ecco allora che la succitata tecnica espressiva possiede un deciso connotato ideologico con intenzioni euristiche: quel verso di Dante, quella menzione a Baudelaire, quel richiamo al Vangelo e alle Confessioni di Sant’Agostino che allargano a dismisura il bacino dell’intertestualità fino a far fluttuare il tessuto nel macrotesto di un ‘iperautore’, non sono soltanto opportunità per lo sfoggio di cultura di Eliot. Non si tratta di mera erudizione, insomma. Né vale la (debole) accusa di plagio che costrinse il poeta a redigere le famose note per l’edizione in volume del poemetto.

La forza tonale del metodo mitico — utilizzato ancora in tempi recenti da poeti come Heaney, Jaccottet e Zagajewski — consiste nel rutilante mettere insieme ciò che è stato e ciò che è, perché dal primo possiamo imparare il discernimento del secondo. Ri-vivere, nel senso della Ripetizione kierkegaardiana. But attention please: non certo eterno ritorno dell’identico (à la Nietzsche), bensì reminiscenza, re-cordare, meditare il tesoro del passato.

Come sottolinea puntualmente Gallo su imbeccata di Eliot, La terra devastata ha un grande debito verso From Ritual to Romance (1919) di Jessie Weston, studiosa di Wagner. «In quel volume, Weston si soffermava sulla leggenda del Graal che, con molte varianti, narra di una waste land, una terra sterile o devastata dalle guerre a causa di una ferita che provoca l’impotenza del suo re, il Re Pescatore. Per restituire la salute al re e al suo regno, è necessario che un cavaliere puro si metta in cerca (quest) del Graal, spesso identificato con la coppa dell’Ultima cena, che contiene il sangue di Cristo morente raccolto da Giuseppe di Arimatea». La quest è ovviamente all’origine del romanzo ma anche della lirica moderna: il viaggio di Dante nell’oltretomba si configura come una ricerca, tale è il carattere della poesia cosiddetta metafisica, da John Donne a Browning, Baudelaire e Valéry. Lo conferma Eliot in un commento ai Poeti metafisici (1921): «L’esperienza dell’uomo comune è caotica, irregolare, frammentaria. Che si innamori o legga Spinoza, queste due esperienze non hanno niente a che vedere l’una con l’altra o con il rumore di una macchina da scrivere o l’odore del cibo; nella mente del poeta queste esperienze formano sempre nuovi interi». Se il disordine deve essere misurato, la poesia è un’ottima entropia. Il senso di una tale visione della letteratura risiede proprio nel mantrico finale della Terra devastata (Ciò che disse il Tuono, vv. 426-433):

 

Il London Bridge viene giù viene giù viene giù

Poi s’ascose nel foco che gli affina

Quando fiam uti chelidon — O rondine rondine

Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie

Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine

Bene allora vi farò vedere io. Hieronymo è pazzo di nuovo.

Datta. Dayadhvam. Damyata

 

Shantih        shantih      shantih

 

Il linguaggio diventa plurimo (italiano dantesco, latino, francese da Nerval, l’invocazione di pace delle Upanishad), l’eco extratestuale supera qui l’energia polisemica dei versi. Ma tutto questo non importa. Sono i frammenti a puntellare le proprie rovine. Il poeta di guerra, che ha raccontato la devastazione della guerra, invoca la pace attraverso un’ubriacatura di suoni, una pioggia fonematica (e benefica) di lingue che s’incontrano e si confondono nel puzzle della poesia. Si incidono sulla pelle a sanare la ferita. La quest è riuscita. Il Re Pescatore (forse) è salvo.

 

T.S. Eliot, La terra devastata, a cura di Carmen Gallo, il Saggiatore, pp. 176, € 19

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