La poesia del britannico Jacob Polley

Jacob Polley photo Mai Lin Li

Proponiamo per la prima volta nella traduzione di Bernardino Nera cinque poesie inedite in Italia del poeta e scrittore britannico Jacob Polley (1975).

Jacob nel 2016 ha vinto il T.S Eliot il premio di poesia più prestigioso della Gran Bretagna. Le sue poesie si traducono in opere che sono, allo stesso tempo, impegnative e emotivamente impegnate. In una intervista, la giornalista Aida Edemariam ha descritto la voce di Polley come “di volta in volta maliziosa, demotica, diretta e divertente”. (The Guardian, 2017). Questa è sicuramente una delle voci dei personaggi che Polley porta nelle sue poesie. C’è poi, nei suoi versi, una qualità oscura, nordica, che in qualche modo ricorda Ted Hughes, con una poesia che attinge a scene di vite rurali o marginali.

La poesia The Ruin (The Havocs, 2012), che qui viene proposta nell’inedita versione tradotta in italiano, è ispirata all’omonimo componimento poetico in Old English del VII secolo, contenuto nel manoscritto Exeter Book, risalente al periodo storico inglese della dominazione anglo-sassone del paese. Le altre poesie, sempre inedite in italiano, sono incluse nelle raccolte The Brink del 2003 Little Gods del 2006 e The Havocs del 2012.

Snow (The Brink, 2003)

It survives in quiet places
like a rare species
whose haitat is silence
and closed roads. It upholsters
the empty park bench
with long creaking bolsters
and lags the fields like draughty lofts.
Look up – the night’s in pieces
or the moon’s sieving
its desiccated seas;
there’s a glamour about the roofs
and even the old car
on bricks in the yard seem natural,
tucked up to the axles
in this delicate impasse.
Bridle path and motorway unite
under the wastes of space
each gale force renovates,
and only the cat and the blackbird
betray themselves so neatly
in the lawn’s flawless enamouring
that we’ll forgive their few footnotes
at dawn, when we open our doors
and the hard-packed white light
leant against them falls in.

Neve

Sopravvive in luoghi quieti
come una specie rara
il cui habitat è il silenzio
e le strade chiuse. Imbottisce
le panche vuote dei parchi
con lunghi cuscini a rullo cigolanti
e riveste i campi come solai pieni di refoli.
Sguardo in su – la notte è a pezzi
o la luna setaccia
i suoi mari prosciugati;
c’è un bagliore intorno ai tetti
e anche la vecchia auto
nel cortile senza più le ruote sembra normale,
rimboccata fino ai semiassi
in questo delicato impasse.
Un sentiero e l’autostrada si uniscono
sotto i deserti dello spazio
ogni bufera rinnova vigore,
e soltanto il gatto e il merlo
si tradiscono così bene
nell’incanto immacolato del prato
che perdoneremo le loro poche postille
all’alba, quando apriremo le porte
e la luce bianca compatta
posatasi addosso, cadrà dentro.

October (Little Goods, 2006)

Although a tide turns in the trees
the moon doesn’t turn the leaves,
though chimneys smoke and blue concedes
to bluer home-time dark.

Though restless leaves submerge the park
in yellow shallows, ankle-deep,
and through each tree the moon shows, halved
or quartered or complete,

the moon’s no fruit and has no seed,
and turns no tide of leaves on paths
that still persist but do not lead
where they did before dark.

Although the moonstruck pond stares hard
the moon looks elsewhere. Manholes breathe.
Each mind’s a different, distant world
this same moon will not leave.

Ottobre

Anche se una corrente turbina tra gli alberi
la luna non agita le foglie,
sebbene i camini fumino e il blu ceda
al blu più scuro del buio del rientro a casa.

Sebbene le foglie inondino senza posa il parco
di distese gialle, fino alle caviglie,
e la luna si mostri attraverso ogni albero, mezza
o un quarto o piena,

la luna non ha frutti, né semi,
e non fa agitare la marea di foglie sui sentieri
che ancora resistono ma che non portano
dove conducevano prima del buio.

Anche se lo stagno stregato dalla luna guarda fisso
essa volge lo sguardo altrove. I tombini sfiatano.
Ogni mente è un mondo diverso, distante
che questa stessa luna non lascerà.

Mattino

I lampioni si dilungano. Gli alberi si infrangono
come onde: soltanto tu e gli uccelli siete svegli.

Gli altri giacciono immobili. Il loro respiro va e viene.
Sotto le coperte, a faccia in giù sui cuscini,
lontani dal tempo e dalle menti, in pace,
altrove ma immobili, dormono.

E coloro che hanno lottato per ore con la notte,
uomini condannati a letto, che camminavano o confessavano,
irretiti e a dibattersi nel sonno come una rete –
anche loro si sono arresi adesso, e riposano.

Ma presto le vie cominceranno a fumigare:
le donne sono in piedi, a lamentarsi del sole,
e i giornalai alzano le imposte delle loro edicole.
Questa è l’ora del freddo che raggela le ossa,
freddo nell’intimo, specchi freddi, vecchi lamenti,
cucine come chiese, panche fredde e pietre fredde.

Giù nella banchina, l’acqua nera annaspa
verso il muro cieco del porto, e i sogni
le code dei pesci e le foglie di cavolo sgorgano
e si dissolvono, vicino alla spiaggia. Una pozza esala vapore
come un crogiolo, e una barca bianca sospesa
lontana e nitida.

Mirror (Little Goods, 2006)

I’m the mirror, half a moon above the hearth
where your faces surface then disappear:
rearrange the room and you rearrange me.
But I’m tired of looking, from wherever I’m hung
or stood, tired of never closing, tired of never turning off.
I abide by whatever’s before me:
whatever’s before me, I become.
Drape me in a sheet: under it I’m working.
Turn me to the wall: I pay it the closest attention.
Break me and every piece of me is full.

Specchio

Sono lo specchio, mezza luna sopra il focolare
dove le tue facce affiorano e poi scompaiono:
risistemano la stanza e tu risistemi me.
Ma mi sono stancato di guardare, da dove sono appeso
o sto, stanco di non chiudere mai, stanco di non spegnermi mai.
Mi adeguo a qualunque cosa davanti a me:
qualunque cosa davanti a me, divento.
Coprimi con un lenzuolo: funzionerò sotto.
Girami verso il muro: gli presterò la massima attenzione.
Spezzami e ogni parte di me sarà intera.

The Ruin (The Havocs, 2012)
after the Anglo-Saxon

What walls and gables, wonders still of workmanship.
Whoever’s stronghold this was, havoc’s jumbled it
beyond all mending, uprooting towers, rusting together tools.
What was built by strange smiths, skilled in stone,
is burst, underdug, eaten down by age: weird bricks
litter this wasteground. And what of the wrights
and hammer-men, the mortar-mixers and heavers
of slab? A long time laid off, fast in the earth,
while their sons passed, and the sons of their sons
knew no like work. But these walls withstood
mosses and snows, the fall of kings, peace’s
indifferent wear by rain and rubbing kine.
Magogs raised them. Their wit matched their might.
Their great halls gawped. Their tile floors gleamed
with muscle girls and monster fish. Here
springs were housed, and happiness found haven
among men making merry, their shadows merging,
nimble as a change of mind, massive on the inner walls.
What happened? Ruin already had root. Plague came, within
and without. No one, however high, whatever wit,
was spared. Here, wide open to the wind, is where
breath was fought for, where men raved. Now birdsong
embroiders space among the rubble of what stood.
And the builders are broken down, bone by bone,
mindless and muddled together in the bottomless muck.
Half-recalled by these grim, rain-collecting courts,
by this unshattered span of arch, this blush of broken slate,
are those who twisted gold, empearled pins and gazed
on heaps of gems that beat and sparked. Houses were here.
Hot water sprang from wells and the walls held
vaults of steam and banked beds of embers, like precious stones.
Frost could get no grip. But all such days are gone.

La rovina
nello stile degli Anglo-sassoni

Che mura e che frontoni, tuttora meraviglie della maestria dell’uomo.
A chiunque fosse appartenuta questa fortezza, la distruzione ne ha fatto scempio
malgrado tutti i rattoppi, torri divelte, attrezzi arrugginiti.
Quel che fu costruito da insoliti fabbri, abili con la pietra,
è distrutto, sprofondato, eroso dal tempo: strani mattoni
disseminati su questo terreno desolato. E che dire dei costruttori
e fabbri ferrai, gli impastatori di malta e i sollevatori
di lastroni? Un lungo tempo cessato, lesto sulla terra,
intanto i loro figli perivano, e i figli dei loro figli
non sapevano lavorare così. Ma queste mura hanno sopportato
muschio e neve, la caduta di re, il logorio pacifico
indifferente dalla pioggia e lo strofinio dei bovini.
I Magog le eressero. Il loro ingegno pari alla loro potenza.
Le grandi sale sbalordivano. I pavimenti di mattonelle luccicavano
con ragazze muscolose e pesci giganteschi. Qui
le sorgenti venivano incanalate e la felicità toccava il cielo
tra gli uomini in festa, le loro ombre sfumavano
repentine come un cambiare idea, imponenti sui muri interni.

Cosa è successo? La rovina aveva già messo le radici. Arrivò il flagello,
dentro e fuori. Nessuno, quantunque elevato, comunque arguto,
fu risparmiato. Qui, esposto ai venti, è dove
si è combattuto allo stremo, dove gli uomini si scatenavano. Ora il canto degli uccelli
adorna lo spazio tra le macerie di ciò che è stato.
E gli artefici sono scomposti, osso per osso,
immemori e mischiati insieme nella melma senza fondo.
Ricordati a metà per questi cupi cortili per la raccolta d’acqua,
per questa campata d’arco intatta, per questo bagliore dell’ardesia sfaldata,
sono quelli che intrecciavano l’oro, incastonavano spille e contemplavano
mucchi di gemme che colpivano e scintillavano. Qui sorgevano case.
Acqua calda sgorgava sorgiva e i muri trattenevano
volute di vapore e custodivano cumuli di brace, come pietre preziose.
Il gelo non attecchiva. Ormai quei giorni sono passati.

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Jacob Polley nasce nel 1975 a Carlisle, città situata nella contea di Cumbria, a nord-ovest dell’Inghilterra, ai confini con la Scozia e non lontana dalla regione Lake District molto cara ai poeti romantici inglesi Wordsworth e Coleridge. Finora ha pubblicato quattro raccolte di poesie per la casa editrice Picador: The Brink (2003), Little Gods (2006), The Havocs (2012) e l’ultima Jackself (2016), che gli è valso il prestigioso T. S. Eliot Prize 2016, conferitogli all’inizio di quell’anno. Nel 2004 è stato nominato uno tra i migliori venti poeti della “Next Generation” del Regno Unito e dell’Irlanda. Nel 2009 ha ricevuto il Somerset Maugham Award per il romanzo The talk of the town. Attualmente insegna all’università della città di Newcastle.

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