Nanni Cagnone: “La poesia è un’opera estranea”

Nanni Cagnone e Sandra Holt

I

Unico vanto, aver resistito lungamente a me stesso. Nel disadorno ovunque e nel fulgore che raramente, ne l’affamato strepito del giorno e notturno scivolare, io con quel lui ch’ognor m’impiglia.
Ogniqualvolta mi trovo a citare parole sue, devo convenire che il me che parla dorme cammina non è colui che scrive, e scrivendo sfugge agli scricchiolii del palcoscenico quotidiano. Siamo in due, e incerti i legami: storico io, metastorico lui. Miei i fastidi le fatiche i malanni, suo l’arrovellar parole. Benché spesso inquieta o rissosa, tale residenza lo pone altrove, in salvo dalle cattive notizie, dalla ripetizione e dai minimi orrori a cui la normalità non può sfuggire. Non so pensare in quel suo modo estraneo. Ha forma diversa la sua necessità.
Non sto alludendo a una scissione dell’Io, né all’esistenza d’un sosia, spettro o alterego che sia ispirato o e – letto. Sto dicendo che la prima persona, quella che non scrive, deve scomparire, e la storicità farsi da parte.
Dubito che lui sia un soggetto. In certo modo, sembra dipendere. In pratica, io posso parlare di lui, ma lui non può far altrettanto. Non sa cosa stia scrivendo, e ancor meno qual senso possa avere ciò che scrive. Secondo me, ogni volta non sa piú quel che credeva di sapere, e altro non impara. Quando fa ritorno, quando si ricongiunge, devo affrontare una perdita. La banalità di tale condizione sembra insuperabile.
Ero stato piú chiaro – o meno noioso – molti anni fa: «La poesia è un’opera estranea, cosa che il sonno insegnerebbe al risveglio».

II

Mancandosi,
vuoto nessuno, asola
che non coniuga bottoni
o su erbosità una melma.
Si contenta cosí
questa indocile età
che pondera ancora
fremiti, o perde
sua guarnigione.

Sorrisi del tempo
di guerra, scontornati.
Un freno a ceppi
in fondo al carro,
la stessa virtú
dei ricordi.

III

Su uno dei declivi, noi,
oltre la comune sommità
mai non sapendo
se amici o nemici,
se contrariate parole.
Noi al di qua,
vanamente schierati—
dopo aver cucito
scucito racconti,
danze di guerra
a preparare il lutto,
stolida certezza
di nostra
inerpicata conoscenza.

 

IV

Non si consumasse
già mai
nostra innocenza,
e non fosse il tempo
mietitor de l’ignaro,
non muoverebbe
su inasprite stoppie
la mente adulta,
giudiziosamente
smarrita, e intimo
sarebbe ancora
orientamento.

Mi avvedo
(non è la prima volta)
di compiangere.

V

Amor conduce
silenzioso dono,
che per riuscire
dev’essere paziente,
a capo scoperto
inoltrarsi nel tacito
nel folto e venerare
le lacrime,
devotamente figlio
d’ogni almanaccare,
finché non farà notte
su un popolo d’ombre.

VI

Familiarissimi mihi,
oltre separanti venture
sparsamente insieme,
fedeli a un paese
in cui non si è nati
ma vicendevole,
fondato dal pensare
sentir accanto,
in concordata nudità.

E tutto ciò
lo si dica avvenire.

VII

Quando
s’abbassa il giorno,
si può dirlo ancora tale
o in verità si tratta
d’un esonerante dolore,
non esser piú entro la cosa
ma decano oltreconfine,
in regioni smemorate
o nel rimpianto?

Diversità minima nel cielo
fu sempre turbamento—
ricordo una donna di Tebe
confusa da vicende di nuvole,
smarrito anche il suo nome.

VIII

Attesa concordanza,
a ramo opporsi di ramo,
ma interamente sbilenca
una vita, né puoi volerti
in altra—antica
la seminagione,
e precipitoso il séguito.

Non del tutto tuo,
questo divenire
nella sostanza immobile
del tempo, e senza scopo
la serietà dei giorni.

IX

Sovrano
come un digiuno,
vuoi scagionare il vero
quasi fosse infermità,
invece iperbole
dell’incompreso,
salvezza già stanca,
se per mari senz’approdo,
in onde che non sanno
sentimenti, vuoi scorgere
duvitanza o pensiero.

Lode al non sapere
ch’è piú in basso di te,
in contemplazione.

X

Indimenticati
torbidi addii,
quante volte sollievo
e quante mancamento.
Il guscio delle cose
desolato, vuoto,
dice revocabile
il progresso
verso cose ultime,
intendo necessarie.

Férmati
all’intatto sorriso
precedente, nel vuoto
ricambialo, se puoi.

XI

Cosa ne fu di lei,
grandezza d’animo?
Si può ancora citarla,
reperto archeologico
ma qualità ammirevole
se idealizzi gli Antichi.
Dovrei, con facile dignità,
lamentar grettezza
o congratulare antieroi,
cosí simili ai pigiami
dei vicini di casa?

Miseratio—
smarrisce luce in tenebra
lo sfigurato ognuno.

XII

Ho riguardato,
non te, bensí la luce
da cui attorniata,
quasi fossi un bosco
una radura
o un albero da solo,
ch’era bosco
prima che gli altri
morissero intorno,
ed ora teme
dedicato un folgore
e innata la pioggia,
sovrabbondante
per una donna sola.

XIII

Non descrivere,
osserva sulla tela
l’incantagione
della polvere,
l’imperterrita
memoria materiale
stirpe dei secoli,
togli il te stesso tuono
da studi estranei.
Sbriciola parole
fino a mormorare
anticamente,
neppure sillabe
ma insolenti vagiti
innanzi a figure
che vincono lo sguardo.

Non starai in quel museo
un intero giorno?
Guàrdati dal resistere.

Nanni Cagnone, da “Accoglimento”, La Finestra Editrice, LAVÍS MMXX

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