Daniele Piccini, “Inizio fine”

Daniele Piccini


NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Daniele Piccini è rivolta allo sgorgare primigenio della lingua, quasi al pieno raggiungimento del punto di confluenza tra logos e sorgente lirica. È dunque una poesia del culmine, al contempo deferente e dimessa, che considera gli hölderliniani «tempi di povertà» come occasione per affermare contra res l’assoluta centralità della parola nella vicenda umana. Il verso di Piccini nasce così da due snodi concettuali importanti: l’idea che la letteratura abbia nel suo DNA il desiderio, ossia l’irrinunciabile tensione indirizzata a un compimento massimo delle potenzialità (si veda il collected di saggi Letteratura come desiderio, Moretti & Vitali 2008); il proposito di rendere la poesia stessa come un luogo del santo — non del sacro — attraverso la glorificazione degli strumenti espressivi (qui il riferimento precipuo è La gloria della lingua, Morcelliana 2019): «Al posto del mito della gloria, l’assillo della testimonianza; in luogo della riprova sancita dal riconoscimento, la prova insuperabile, e in sé dotata di senso, del martirio-offerta».

Il compito del poeta è quello di testimoniare il proprio «martirio-offerta» nella considerazione agapica del suo magistero. Il poeta sembra quasi chiamato a vivere, in un momento storico così ostile, la prova della sua santità, asserendo senza sosta la parola che salva. Desiderio e martirio. Desiderio di martirio. I due tronchi teoretici della riflessione di Piccini non sono così distanti dall’Ungaretti del Dolore e dal Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: non sono così distanti, cioè, da un esercizio della lirica che, pur mantenendo vivo il nocciolo «metafisico» (si ricordi la jonction montaliana Baudelaire-Browning), possiede anche i crismi della poésie pure di Mallarmé.

In un libro come Inizio fine, uscito da Crocetti nel 2013 e ristampato dal medesimo editore in questi giorni, possiamo osservare queste due grandi linee carsiche (la purezza del dettame e lo sguardo per l’oltranza) sintetizzate in un décor asseverativo che assomma in sé la fraternità leopardiana nel dolore e il senso di creaturalità di Francesco d’Assisi. Diviso in sette sezioni, alla cui sommità vi è un proemio slegato a mo’ di incipit («non eravamo nati come parte/ della materia muta che obbedisce»), Inizio fine è il richiamo alla coincidenza dell’«ultimo avamposto/ dell’inverno» e dei «fiori dentro l’erba» in una dizione stentorea e nitida. Coincidenza tanto più stringente quanto più orientata a svelare il mistero delle cose, la «quiete» o il «fuoco» della «comunione», lì dove si conosce per ardore: come nell’intensa elegia dedicata a Leopardi, la «nuova Nerina» viene a cercare il poeta che arde «in tutte le cose che ragionano».

È nel cuore della contraddizione che Piccini invoca, «doppia e senza fiammella», «un’altra pace», un vero e proprio battesimo dello spirito (si tenga a mente ancora Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti) che riporti i «flussi» della metamorfosi all’Ursprung, all’origine del «fondamento». La dittologia sinonimica — più che nesso ossimorico — inizio-fine non coincide quindi con la «replicazione» di matrice nietzschiana-kierkegaardiana, ma con il segno grazie a cui il «mondo/ pullulante» (pullulare, assieme a tremolare, sono verbi chiave della silloge) è giocato su uno schermo di tracce, indizi, vie, rimandi pronti a evidenziare inderogabilmente la presenza dell’assoluto, dell’alfa e dell’omega, di un’arché e di un éschaton impossibili da disgiungere.

Nella sezione Dopo — titolo che rammenta un’omonima parte montaliana nella Bufera e altro — campeggia stilisticamente la persona loquens che apre la poesia al «dialogo pacato» (Zagajewski), alla dimensione dell’interlocuzione altrui. L’autore diviene una cassa di risonanza di quanto percepito nel continuo gorgogliare dell’esistenza, nei puntini sospensivi dei discorsi interrotti e ripresi, come fossero un unico, autentico sentire. Le parole-barbaglio à la Celan si illucano e il soggetto si insoggetta, perde umilmente lo status gerarchico del poetato, per entrare nella dimensione lévinasiana della pura accoglienza («Amore solo esiste — e fa la notte,/ perché tu possa pensare al suo volto/ liberato per sempre dalla morte»). Di qui la trasformazione del desiderio in una completezza più grande: la condizione della kekaritomène, colmata dalla grazia fino a esserne pervasa («Tu, di tutte le cose la più pura»), è il solco entro il quale il poeta può dichiarare l’inizio e la fine, il martirio e l’offerta, la gloria della santità e il compimento.

Daniele Piccini, Inizio fine, Crocetti, pp. 112, € 12

*

Sono colpevoli di desiderio,
una ferita centrale che sanguina
di tempo in tempo e che non si rimargina,
fonte d’acqua battesimale e fango.
Tu, di tutte le cose la più pura,
non riesci a compiere la loro ansia
stai inchiodata alla povera fattura
vulnerata dai fuochi, rivoltata.
E non rimane angolo del tempo
sottratto al divenire della mente
che riconcilia, ridipinge, immagina:
tutta la vita fatta e ricreata
dentro il buco della mancanza, il tondo
in cui respira, da cui ancora vieni.

*

Nei tempi di povertà si ricoprono
di cenere le sostanze, si spezza
in parti il pane della vita andata,
si fanno scorte per la strada vana.
Qualcuno tiene a mente una parola
la formula che dava forma al fiore,
si ha cura di ogni cosa e tutto manca,
anche quello che c’è ha polpa amara.
In questi tempi il deserto non ha
confini portuali, è un buio mare
compatto fino al cielo: gli animali
come sfingi che, interrogate, tacciono…
Tenére fede allora non è facile.
Quel che tu sia, o demone o re, sàppilo.

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Daniele Piccini è nato a Città di Castello il 15 aprile del 1972. Insegna Filologia della letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia e vive a Sansepolcro. Collabora con il Corriere della Sera. Ha pubblicato edizioni critiche di poeti trecenteschi, curato un’edizione commentata del Ninfale fiesolano di Boccaccio e un’antologia di poeti del secondo Novecento (La poesia italiana dal 1960 a oggi, 2005). Del 2008 è il libro di saggi Letteratura come desiderio. Nel 2019 ha pubblicato La gloria della lingua. Sulla sorte dei poeti e della poesia. La sua opera più recente è la monografia Luzi (2020). Prima di Inizio fine, la cui edizione originaria è del 2013, ha dato alle stampe questi libri di poesia: Terra dei voti (2003), Canzoniere scritto solo per amore (2005), Altra stagione (2006). In seguito è uscito Regni (2017).

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