Alberto Rollo, “L’ultimo turno di guardia”

Alberto Rollo nella foto di Adolfo Frediani

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Un uomo anziano serrato in una torre, infermo, soltanto una guardia a sua custodia. È questa la condizione alternativamente reale e simbolica, beckettiana, che rispecchia la fine della storia, il crollo delle ideologie e l’inizio di un’èra nuova e indefinibile. Nel poemetto di Alberto Rollo, L’ultimo turno di guardia, una sequenza lirica che consta di sessantasei frammenti divisi in cinque parti, la degenza fisica e allegorica del paziente-vegliardo sembra penetrare nel tessuto dei versi fino a squarciare il velo della presunta temporalità. L’io lirico è «malato di tempo» e, posto su una cupola che guarda verso una fantomatica «torre gemella», riflette, monologa, salmodia sul presente e sul passato, osservato a stretto giro da un infermiere che è anche spia e carceriere, nel cui silenzio sommesso si cela tutta l’incomprensibilità e l’incomunicabilità con l’altro da sé, a metà tra l’inferno del sartriano A porte chiuse e l’innocente di Turgenev («tanto è poco l’io di cui son io/ che il poco del tuo tu fiammeggia appena»).

La storia narra, infatti, per bocca del vegliardo le insidie della solitudine e dell’assenza di una vera comunicazione, lo sfogo psicologico e il tenue apparire del tu in un orizzonte mai del tutto agguantato, sempre lontano e inaccessibile. È una fotografia della nostra età contemporanea, nella quale l’atteggiamento interno, solipsistico (aggravato dal virus e dai suoi derivati) è l’unica maniera per proteggersi da un esterno invadente e selvaggio.

In un ritmo corrusco, balenante, che ricorda il graffio di Sereni e lo scatto fortiniano, i versi di Rollo – romanziere, finalista al Premio Strega con Un’educazione milanese (Manni 2016) ed editor di Mondadori – tentano di rintracciare un senso alle variabili esistenziali messe in scena dal protagonista, rimembrando e accusando, ricusando e difendendosi dall’asciutta quiete del misterioso inquisitore («vi cercherete ciechi sopra il muro,/ come timidi gechi pattugliando/ il giorno e i suoi improvvisi/ nidi di ombre»).

Scolpito da endecasillabi e settenari che si chiudono spesso, soprattutto nelle clausole finali, in enjambement – ricreando così la possibilità frantumata del doppio settenario –, il poemetto, lontano parente di Parini e Testori, dunque pienamente ancorato alla tradizione lombarda, si muove lungo una scala valoriale (e linguistica) richiamante la corporeità, anche nei suoi aspetti più bruti e infimi, per indagare l’oltre, ossia per centrare l’esperienza del celeste nella dura scorza del terrestre, come attesta il frammento trentadue: «E di là il vento./ Vento d’inverno,/ sii più forte di me che ti resisto/ in questa sgangherata/ torre-lazzaretto;/ inchiodami a quella neve rossa/ di piscio, a quella nera/ di tutti gli escrementi,/ o tienimi con gli argani del gelo/ alto sopra le strade, spingi me/ e il mio peso verso aeroporti, scali,/ stazioni, moli. Alzami in volo/ come plastica, indifesa contro il cielo,/ odiosa e inerme, finché posi/ dentro immense, sconfinate sale/ d’attesa». L’alto e il basso, il lucente e l’oscuro.

È un chiaro esempio di scatologia ed escatologia, analisi di deiezione e tensione alle finalità ultime dell’essere umano, in una compresenza di mondi (ironica, spaesante) molto vicina all’ultimo Montale. L’evoluzione “drammaturgica” del racconto (non si dimentichi che Rollo nasce come autore di testi teatrali con Tempi morti Gli ultimi giorni di Lorenzo Mantovani), come per la Fortezza Bastiani abitata dal tenente Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati, è avvolta in un grigiore di senso, in un logorio di spente accensioni, mentre si fa sempre più essenziale la richiesta di eludere le catene del tempo («E poi salimmo – in quale compagnia/ il tempo sfuoca – per tornanti/ agganciati alla festosa, folle/ grazia di foglie e di ramaglia/ di farnie, carpini e castagni/ su per la sgretolata cieca vena/ del calcare, e il rovinio di acque/ timide, e di tremanti specchi»). Il gesto del “salire” racchiude in sé, quasi in forma archetipica, la speranza di una liberazione per l’uomo di oggi, soffocato nella prigione delle sue ansie.

Scritte sin dal 1994 e tenute a lungo nella bolla della memoria, le poesie di L’ultimo turno di guardia ci invitano a riconoscere e a schivare gli spigoli del mondo contemporaneo (il pensiero debole e l’«alterità debole» della modernità liquida), ma anche ad affermare con maggiore decisione l’illusorietà di ogni schermo soggettivo, di ogni sguardo – foss’anche penetrante – che non sia venato di pietà e di apertura: «Di’ che ci sono e che non finirò».

Alberto Rollo, L’ultimo turno di guardia, Manni, 2020

ESTRATTI

 

 

Li vedo i carnefici, la mole
 diabolica del Male che li veste.
 Di molti studieranno l’ovvio
 dolore che va insieme
 all’esilio, alla tortura. Hanno
 fiducia, come te, nel compito assegnato.
 Non c’è voce registrata che li annunci,
 lasciano qualche
 testimonianza nei processi
 quando echeggia nelle aule soltanto
 l’umido straccio floscio che va e viene.
 Sanno il mestiere della distruzione,
 e della fine ignorano il finire.

*

Fanno i popoli il suono che i parenti
 fanno intorno al morto.
 A disperderli, a zittirli basta una luce.
 Per pochi cruzeiros si consumano
 acrobatici le mani sull’asfalto
 a un tuo comando. Vanno
 dove l’oblio li porta dei tuoi scatti.

*

Chi lo sa se patrigni sono i gesti
 che disegno, o paterni, mentre ancora
 ho te, mio scerpa?
 Di mondi, di parole,
 di cieli – prendi nota –
 questo è il cadere, l’occidente.
 E io sono il bel niente che ricanta
 il motivo circense che accompagna
 il suo maldestro entrare in pista.

*

Tu hai concluso sì, padre, questo giro
 terreno; di più, tu ti allontani
 e finendo come questo
 colore d’alba, insegni la tua assenza.
 La mattina s’impasta di nubi,
 pigola pioggia, squarcia, si rinfosca,
 di nuovo s’apre e pare
 dimenticar tutte le notti, trascinare
 quella povera razza in un eterno
 sciamare.
 Son finiti
 i figli – tutti – come a un chiosco
 si esaurivano i giornali.

*

Tutto il padre si perde e si disfà.
 Io sono la sua traccia.
 Ma è solo un cenno, un ciao, ché poi ritorna
 questa livida lente, questo stare
 nella distanza, questo veder la fine
 e non morire. Idiota,
 perdonarti vorrei, vorrei il perdono,
 vorrei il conforto e quel suo dolce suono,
 le trombette stonate di un giudizio,
 una piccola storia che si chiuda,
 una vicenda, lettore, che ti scolli
 dal tuo servizio, da tutto il tuo servire.

___

Alberto Rollo è nato a Milano nel 1951. Direttore letterario in Feltrinelli, direttore editoriale di Baldini+Castoldi, è ora consulente per la narrativa italiana in Mondadori. Collabora con le pagine culturali di riviste e quotidiani nazionali. Ha tradotto romanzi di autori inglesi e americani tra cui La famiglia Winshaw di Jonathan Coe (Feltrinelli 1995) e A sangue freddo di Truman Capote (Garzanti 2019). Ha scritto per il teatro (Tempi morti nel 1992) e per la televisione. Ha curato l’antologia Che cosa ho in testa (Baldini+Castoldi 2017). Nel 2016 ha esordito nella narrativa con Un’educazione milanese per Manni: cinquina del Premio Strega, finalista al Premio Stresa e al Premio Chianti, vincitore del Premio Alvaro-Bigiaretti e del Premio Pisa.

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