La materia povera di Mario Benedetti

 

Venerdì Santo

 

Il cielo sta su nel pensiero di piangere.

Sulla strada
gli uomini sono andati metà muro, metà fiume.
Sto qui molto lontano dai templi,
dalle processioni tra i lumini,
molto lontano dai romanzi
dove c’era la luce dei visi.

Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,
vorrei perdonargli di morire, cosa fare.
A sapere bene forse potrei dire:
anche per noi una visione intera
con uno specchio sopra, con un cielo.
Mi tengo al suo sguardo perduto
così particolare, così solo,
senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

Non so andare avanti.

Ogni tanto
i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch.
Ogni tanto sogno bambini bellissimi
nell’acqua effervescente di una strada.
E io li vedo di schiena,
qualcuno ci vede,
io sono di schiena nei colori.

Mario Benedetti, Venerdì Santo, in Umana gloria, Mondadori 2004

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Questa poesia appartiene alla silloge forse più significativa di Mario Benedetti, Umana gloria, incentrata sul valore e sul senso di una morandiana «materia povera», capace di riportare la civiltà — mitizzata nei riti agresti e in un’inquieta ricerca interiore — a un’essenzialità del vivere che, per il generale tono carsico, accomuna il poeta friulano a Pier Paolo Pasolini e, anche, Scipio Slataper.

La struttura strofica appare abbastanza disomogenea (due versi isolati a carattere sentenzioso, una sestina slabbrata, un’ottava e una strofa eptastica), come del resto lo è la lunghezza del verso (il più breve è un quadrisillabo, il più lungo è un quindicisillabo). C’è però un ordine diverso, un ritmo interno, al quale potremmo applicare la definizione montaliana di «classicismo paradossale», che è segnalato dalla martellante, litanica presenza di numerosi segmenti anaforici ed epiforici variati e dislocati («… metà muro, metà fiume… Sto qui molto lontano… molto lontano… Sto con gli ultimi anni… con uno specchio sopra, con un cielo… così particolare, così solo… Ogni tanto… Ogni tanto») che conferiscono alla lirica una velocità ridotta, un timbro altamente meditativo, come se il poeta stesse pensando e ripensando al décor che gli si palesa dinanzi agli occhi nella sua fase reale e onirica. Il «cielo» del Venerdì Santo è evangelicamente rabbuiato. L’io lirico è in un «campo che non è un mondo», lontano dalle celebrazioni cittadine e dal potere della letteratura, assediato dal pensiero della morte e dall’invecchiare di un amico, ma anche dal vigore delle immagini che delineano una linea di difficile demarcazione tra il soggetto e l’alterità, provocando uno scacco psicologico («Non so andare avanti»): sono distanti i contadini di Tolstoj — colpo di coda dei «romanzi» lontani — che simboleggiano, appunto, un esistere privo di inutili orpelli, e l’innocenza dei bambini colta con un’intensa visione «di schiena nei colori». Raggiungere il colore, la purezza, l’essenzialità: è questa la distanza che la poesia deve colmare.

Alberto Fraccacreta

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