Rossella Frollà, “Eleanor”

Nota dell’autrice

Eleanor è una reporter e raccoglie in prima persona tutta la conoscenza che il male, la guerra e il terrorismo possono rivelare. La storia va dal conflitto armato in Bosnia (1992/95) agli sbarchi sull’isola di Lampedusa, sulle isole greche, al terrore degli ultimi fatti di Parigi. Eleanor indossa e smette i panni delle vittime e dei carnefici, del bene e del male, dell’Amore e della violenza in un distacco dal sé che la priva di ogni individualità e lascia parlare solo la sua ambizione più alta di portare il bene nel mondo, nel mentre si racconta il male. Quattro storie raccontano la frammentarietà di questo nostro mondo, oggi estremamente agitato e vulnerabile, che pare abbia perso la pace.

Entrano in un gioco virtuoso nelle diverse storie l’Anima e la Verità e trasportano la fragilità che è in noi con tutti i suoi detriti. Vertiginose sono le ascese nei cieli immaturi delle aurore e le discese negli abissi dell’angoscia, della morte e dell’indifferenza che protegge ogni male. Eppure la fragilità nasconde il valore della sensibilità e di quelle intuizioni invisibili che consentono di decodificare emozioni forti e deboli, virtù e nefandezze, aspetti luminosi e oscuri della condizione umana. Fragilità è ciò che spezza, esplode in boato che sposta il baricentro nella proiezione precisa della parola che cura e non ferisce. Il Coro puntualizza i fatti e l’Io della reporter imbocca le stanze delle domande e vive autenticamente le contraddizioni del mondo inuna realtà immaginifica, visionaria, mai destituita di senso, nella coincidenza delle cose, tra Verità e Bellezza, in quell’andare oltre il male.


Quattro storie raccontano la frammentarietà di questo nostro mondo dove muta il significato di padre, muta l’esempio, e il valore di ogni cosa non è più riconoscibile. Ameena e Aral dentro gli occhi scuri dei conflitti sono la prima storia di luce. Un cratere di nubi squarcia l’11 settembre. Nessuno o quasi è come prima tranne il quieto tondo delle montagne. Farida si salva dai flutti con suo figlio, approda a Istanbul. E poi ancora vi è un tu per tu incalzante di Eleanor con l’Anima sugli attentati di Parigi e di Bruxelles. Ci si interroga sulla innocenza indifferente dei molti che subiscono la violenza dei pochi. L’unico baluardo è lo slancio, la parola dello Spirito alla sua Principessa tra le pieghe della primavera araba. Più il male ci colpisce, più intenso e pieno è il grado di conoscenza che ci fa risalire il limite.

Perché un libro così progondamente Epico?

Con questo libro ho compreso che non sempre è necessario essere sul fatto. Quel che conta è quanto il fatto sia importante dentro di noi, quale boato o deflagrazione provochi nel nostro assetto emotivo, nel nostro sentire umano. Io ho solo lasciato che le rêveries uscissero libere e il sé ha risalito l’io con tutta la sua forza. Un flusso potente mi ha sopraffatta e Eleanor è comparsa con la sua parola epica, forte e senza artificio.

ESTRATTI
Eleanor.
Non fummo mai innocenti: dalla Bosnia alla Siria
Interlinea, pp. 136, euro 16
“Edizioni di poesia a tiratura limitata”

L’11 settembre

Coro

– Molte nubi portarono il fuoco
quel giorno l’11 Settembre
risuonò nel mondo.
Riconoscemmo le nostre campane,
immaginammo i colpi di bronzo
nel cielo d’Oriente, l’eco greve,
rintocchi in risonanza.
Un istante ai margini della vita,
i sentimenti delicati dell’infanzia.
Roma era ancora calda d’estate,
New York persa tra le sue mille cose,
Nuova Dely divisa tra geniali ingegneri
e poveri per strada. Elsinki, Singapore,
Manatthan erano in cima alle nubi come
parafulmini di chiese
che avvertono vicini i temporali.
Nella noia del mondo
le chiavi dei grattacieli a rivelare
le stanze enormi degli uffici,
i luoghi in cerca dell’umano.
Trasversale il bagliore tocca
i cristalli degli edifici,
gli echi delle strade.
La mente di Lorel non trova
una sola parola sgarbata
per quel giorno limpido
che schiaccia l’ansia di sempre.
Quella città che era nel quadro
l’avveneristica riluttanza all’antico
era stata un giorno
deliziosa cortina di case sul fiume.
Era lei nella tela
dietro le guerre e le rovine,
era lei di nuovo in pace
coi suoi nuovi cristalli
giganti a sollevare le torri,
le nuove grucce del mondo.
Non c’erano facce tristi
né un inizio e una fine,
c’era un fluttuare veloce di passi.

Nessuno si angosciava per l’amore terrestre
né si scorgevano le colpevolezze.
L’affanno senz’ardore a mezz’aria
scagliato dall’ambizione.
Nel petto di ognuno
il segreto dolore
precipitato così in basso
da perdere quota,
ricacciato nel nido.
Il sole si librava lucente
ad aprire i pianeti,
le palpebre delle alte sfere.
L’avvoltoio sollevò il suo petto in cielo
lanciò la caccia
e fu breve l’occhio del sole
sull’orizzonte lo spasimo fatale
si vide nudo il cielo,
l’orgoglio autunnale delle ore lente
non emetteva suono
e una cara immagine
lasciò le sue due briglie.
Morfeo passò
per l’incantesimo buio
fin che le porte del cielo
parvero chiuse ad ogni volo.
Le anime disegnavano intorno
le ali bruciate del sonno.
Il sole si fece più grande
per dischiudere la nube.
Le tavole imbandite
sempre pronte a preservare la pace
si fecero nere come la pece.
I gabbiani spiegarono rapide ali
a cercare l’Olimpo,
la nube gonfiò la sua stola
di mille e mille
occhi senz’ombra.
New York era sulle strade
col suo sangue.
Il cielo aspettò l’alba,
viaggiò per altre notti
col suo scudo.
Non ci fu posto
in cui non si sentisse
l’aspro vento d’Oriente.
Fuoco e paglia
bruciarono d’amore o d’odio.
Una ruga nera sul mondo,
un passo di danza,
un piccolo rumore
col suo vestito nero sul bel volto.

Cantico d’Istanbul

Aral
[ … ]
Alzati, i peschi in fiore e le strade
e le fessure delle rocce
non sono più immacolati.
il fico sulla collina è dentro la nube.
Gridano e uccidono sui dirupi
mostrano il loro volto. Nero
come la pece sanguina
non di uva dolce la terra
fa sentire la sua distanza.

Ameena
– Mostrami le tue zampe di lupo
temo per te,
chi devasta le vigne
uccide le colombe.
Ti prego mio diletto
corri sui monti,
lascia le strade.
Le rive non sono più
il desiderio del mare
dove lasciare le onde.

La  primavera araba , Siria 15 marzo 2011

Quando marzo teneva gli steli
la rosa di Siria fu corolla,
il falcone aprì l’aria con l’ali,
entrò la primavera.
Soffiò a Damasco, a Homs, a Deraa.
Furono abusi e terra bruciata,
omicidi di massa.
Fu guerra civile. Spezzò.
A nord di Latakia, il castagno
sentì le gemme nascondere il buio.
Strani malintesi, la sinfonia
dei pini con gli assurdi desideri
delle ottave sopra le domande
del vento.
Sentì il pino d’Aleppo
il tremore improvviso,
la chioma portargli via il canto.
Nello spigolo acuto d’un ramo
lo scoiattolo brunito perse il riso.
La morte non concesse un letto
marmo rosato e nudo fu il corpo
il tempo tradì la luce.
Sulla pelle il rosso quieto
d’un corallo, riposa.
Muto il dubbio salì
fino all’ultimo segreto,
al calore frantumato delle bombe.
Inquiete forme incorniciano la notte
che rifiuta silenzi.
Profughi, sfollati, rifugiati di Dio,
sparsi.
La parola, primogenita del mondo,
anela sempre più in là,
lascia indietro la vera realtà
La lotta strada per strada,
Aleppo distrutta,
nuove cellule di formiche nere
coi suicidi più violenti,
stragi senza quartiere.
Si separano i due cieli in Medio Oriente.
Fu d’estate il selvaggio tremore
di rifiorire tra pieghe di pietre.
Le torri desolate, Aleppo,
madre di tutte le battaglie,
corona dei ribelli,
fragile chiusura dell’inferno,
obliqua libertà d’intenti.
Lo sciamare sospeso e scuro
colse Damasco
i ribelli si divisero.
Un pulviscolo informe
lese le coltri umane.
Occhi rapaci, grida, torture.
Il sangue non riuscì a decifrare.
Già il ricordo parla
di vesti perse senz’ossa.
Già il fiorire delle ciglia
sarà il cunicolo dove sopravvivere.

La Principessa

Coro

Fattala sedere,
la fiamma dei suoi occhi
risvegliò la gioia dell’amore
la sostanza di luce
del fiore di Damasco,
stilla di rugiada l’universo
e il cuore della rosa.
Sulle sue ginocchia
l’acqua e il tremore
in quella dolce vasca
che attraversava la sala,
ai bordi i tessuti porpora.
Ma lei sentiva l’odore di se stessa,
nel suo cuore non c’era la bonaccia,
l’ardente amore dimentico di sé,
l’eterno vento che tende il tuono
a sorvegliare l’abisso.
C’era il temibile verdetto
di aver scambiato per Amore
l’ombra di se stessa.

[ … ]

Principessa

– Oh tempio del misterioso emblema
che sorge dal tuo narrare,
vieni a me!
Sostanza di luce e di calore
modella la mia pallida mente
e il mio corpo al corpo della croce,
a quel vuoto dove puri si rimane,
si obbedisce alla Gioia Immortale.
Vieni a me mare che dai sconcerto,
sposo dell’ignoto.
Vibra in silenzio
la mia estrema parola di croce.-

E fu il cuore
la rosa di Siria
che volò via nel chiaro.

Parigi 13 novembre
Bruxelles 22 marzo 2016

Eleanor

Perché non sentono le bombe
l’allegria del mondo,
il confine di un sorriso
poco prima di esplodere?
I capelli spaiati dal vento
i tavolini di un bistrot.
I sorrisi sono i vicini
muro a muro,
al secondo piano,
per strada, dove la gente
passa e ripassa a mente
vie e musei, palazzi e giardini,
dove la città finisce e arrivano i fiori.
Perché si accelerano i passi
nella città che non smette di patire?
L’angoscia per chi oggi non c’è
è davanti a tutti.
Parigi porta in barella il sonno
nuvolaglia alle ore libere.
Non cambia l’aria se il chiaro
non ha un’ora di partenza,
non sa dov’è diretto il giorno.
Marzo finisce coi vagoni sventrati,
gli odori acri sui marciapiedi,
le pentole chiuse a bollire in casa,
le tendine a guardare per strada.
Così suonano le case
degli odori di pentole scoperchiate,
davanti ai muri dove
si smette di patire
solo d’estate.
Poi suonano le bande
e i cortei davanti ai muri bianchi,
i camini soli come ieri fumano silenzi.
Ascoltai il pianto dei migranti,
come i fianchi del mare,
sui sedili della Metro
con la luce bianca.
Ascoltai quei mesi
le risonanze poco umane,
Chi ha frammentato i silenzi e le rare gioie?
Chi ha reso doppio il passo e il peso?
Le note cadono a domani,
dirette oltre oceano
dove sul foglio si incontrano
le lettere tonde e certe.
La mano che tocca la carta
sul primo rigo si mette in cammino
il senno non tace.

Cosa ci separa in Europa?
Il molto che la mente omette
e scansa come il poco.
Si vaga, si cerca nell’aria
e si rimane senza fiato
pur di trattenerla.
Qui a terra ci sono scarpe, giacche,
sui video le fughe.
Si dribla di notte coi fatti.
Il getto d’acqua cancella l’orrore,
i morti a posto loro.
L’alba e i suoi bagliori tornano nuovi
gli spazi lungo le vie,
l’innominabile bene.
Ci si ama di un’inguaribile angoscia,
dell’altro io riflesso.
Ci si ama come le genziane
bronzee azzurrine
e i girasoli che attendono l’ultimo giro.
Ci si ama di paura
a Parigi, a Bruxelles nel mondo intero,
ci si ama.
Il mare perso a vagare,
come coppi nei paesaggi rurali,
disegna l’arco della primavera in questa
mancanza che ci fa sospesi iris viola.

L’erba s’abbandona al fiore del campo
come l’ultima stella che non sa per chi brilla.
Uno strano colore riflette
la schiuma dei borghi che vuole
sostare sulle città, nei secoli
che attraversammo:
dai filari argento d’ulivi
ai rondoni sui fili delle stazioni.

Noi fummo il nostro volare ogni giorno,
lo strano colore dei nostri passi.

Noi fummo l’aspra risonanza,
l’abitudine delle nubi
a disegnare gli spazi.

Noi fummo ciliegi rosati
sospesi nel chiaro,
bianche corolle prima di cadere.
L’ultimo volo è una farfalla in fiore.

Lampedusa in Paradiso

Eleanor

S’intuisce un relitto nell’acqua,
un fazzoletto nero e un cappotto,
mai potrei meditare più a lungo
su un frutto più triste
se non fosse l’ombra di un sonno
tra le fessure muschiose dello scoglio
a farmi dubitare di un sogno.
E io con le ali d’avvoltoio proseguii
senza sfiorarli quei corpi.
Come se una nuova gioia
spazzasse via l’angoscia
e tornasse la tortura
di una vita nuova.
Ogni ghigno da caccia,
ogni esule confinato,
ogni giorno esiliato,
ogni sasso
che rotola nell’alveo prova
la dolce pena del distacco.
E mentre gli occhi rimasero umidi
per la pietà dei giovani frutti
il mare si allargava luminoso,
il bianco bagnava i sassi tondi e levigati,
gli ultimi rametti vischiosi.
Ovunque intorno stupiva
la vuota follia che sussurrava miele.
I nostri nomi lasciarono
una scia sull’acqua chiara
lungo una sorta di confine
con l’alta marea.
Ovunque io guardassi vedevo
quel paradiso morire ai suoi piedi
e generarsi nuovo. E labbra e occhi
che giungevano rabbiosi, oppressi,
pur se avessero giustamente maledetto,
mutavano innamorati.
Caldi, di un bacio lungo,
appartati giochi con l’aria.
Dapprima poggiavano le anime convulse,
a poco, a poco cingevano
la fronte ondosa delle brezze.
Da ogni lato corsero
a stringere i piccoli pugni:
le more dai cespugli,
allodole e occhi assonnati,
l’acanto e le menti pigre.
Presto furono tutti svegli.
Dalle pergole chiamarono a gran voce,
erano i nostri nomi.
Il fitto fogliame,
il prato dei trifogli fin sulla sabbia,
le alghe a chiamare i nostri nomi,
un volo sulle piazze aprì l’aria.

  • Rossella Frollà nasce nelle Marche e vive in riva al mare. Si è laureata all’Università Carlo Bo di Urbino. Animata da grande curiosità intellettuale, vive molteplici esperienze lavorative giovanili nel settore della ricerca sociale e della comunicazione prima di approdare alla critica letteraria e alla poesia. Nel 2012 pubblica con Interlinea Il segno della parola. Poeti italiani contemporanei e si afferma come nome nuovo nel panorama della critica letteraria. Sempre nello stesso anno ha ricevuto il primo premio poesia inedita al premio nazionale Alpi Apuane. Oggi fa della poesia la sua nuova frontiera di impegno umano e culturale. Scrive per “Pelagos” e altre riviste on line. Per Interlinea ha già pubblicato la raccolta poetica Violaine nel 2015.

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