La poesia è la migliore via per risolvere le tensioni

L’intervista a Tony Harrison di Tommaso Giartosio è presente nella sezione “Realtà migrante di Poesia del nostro tempo”, l’annuario di poesia 2016 della rivista Argo.

Confini è un libro a più voci, alcune delle quali migranti: Violeta Medina (Cile), Azam Bahrami (Iran), El Rass (Libano), Mohammed Amraoui (Marocco), Mario Bojorquez (Messico), Nataša Sardžoska (Macedonia), Christopher Whyte (Scozia), Lukman Derky (Siria), Selahattin Yolgiden (Turchia).

Intervista a Tony Harrison di Tommaso Giartosio

In occasione dell’undicesima edizione del festival “La punta della lingua”, la trasmissione di Radio 3 “Fahrenheit” ha ospitato, in collegamento telefonico dagli studi Rai di Ancona, il poeta inglese Tony Harrison, accompagnato dal suo traduttore, nonché scrittore e regista teatrale, Giovanni Greco, e dal codirettore artistico del festival, Valerio Cuccaroni.

Per gentile concessione dell’autore, del traduttore, di Rai Radio 3 e di Tommaso Giartosio, conduttore della trasmissione e scrittore, riproduciamo di seguito la conversazione andata in onda martedì 21 giugno scorso.

http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-0e4e8212-b77a-44e9-a9c6-08a9f100c7a6.html

Tommaso Giartosio (TG): Harrison è un autore, credo, non ancora abbastanza noto al pubblico italiano, ma di grande fama internazionale. Poeta e drammaturgo britannico, nato a Leeds nel 1937, proviene dallo Yorkshire, zona industriale e mineraria dell’Inghilterra, e ha contribuito a portare con la sua voce l’esperienza dei ceti bassi nell’atmosfera a volte asfittica della letteratura inglese. È un linguaggio misto quello che usa Harrison, spesso basso e gergale, ma accoppiato con forme poetiche della tradizione letteraria non solo inglese, con riferimenti colti. Spesso, anche parlando molto di frequente di temi legati ai drammi del mondo contemporaneo – la guerra in Iraq, i disastri ecologici, lotte sociali come quelle dei minatori inglesi negli anni Ottanta, la bomba atomica –, usa un linguaggio forte, che desta scandalo, ma al tempo stesso mantiene una grande attenzione alle forme della tradizione greca e latina, oltre che inglese.
Riguardo al rapporto con i classici, vorrei chiedere a Harrison se li considera un reagente che fa emergere per contrasto il grottesco contemporaneo oppure sono loro stessi un esempio di grottesco, come per esempio Plauto.

Tony Harrison (TH): Cerco di occupare le forme classiche, non mi faccio schiacciare: prendo le forme classiche e con queste leggo la contemporaneità.

TG: È interessante anche la scelta del termine occupare, perché Tony Harrison è stato molto deciso nel condannare ogni forma di occupazione occidentale di altri paesi ed è stato un attento testimone, per esempio, della guerra del Golfo o della guerra in Bosnia. Da questo punto di vista, crede che l’Occidente abbia imparato qualcosa dall’esperienza dell’ultimo quindicennio?

TH: Ho usato l’espressione occupare nel senso che all’inizio, quando ero a scuola, quando ero giovane, non potevo utilizzare la mia lingua, il mio accento, che era quello del Nord, dello Yorkshire, e quindi a un certo punto ho deciso che avrei assunto la voce dei classici. Più tardi, quando venni mandato in Bosnia come reporter di guerra, fu anche perché avevo appreso dai classici a scrivere senza indugio.

TG: A proposito di lingue, di rapporto con la lingua in cui uno cresce, con la lingua e i linguaggi che si apprendono nel corso della propria vita, anche attraverso gli studi universitari, lei è sempre stato lodato per la sua capacità di arricchire lo strumentario della lingua inglese, di moltiplicare i linguaggi che si utilizzano, in particolare in poesia. Oggi in Italia a volte sembra che ci sia una tendenza a proporre (anche recuperandole a distanza di tempo) opere scritte in un inglese linguisticamente omogeneo – anche opere di grande valore ovviamente, come i romanzi di Elisabeth Strout o Stoner di John Williams –; vorrei chiederle di parlarci della sua esperienza di scrittura polilinguistica, per così dire, e anche della sua esperienza di lettura di opere più monolinguistiche.

TH: Sul mio rapporto con il linguaggio ho una breve poesia che ho scritto e che si intitola Eredità.

TG: Forse Tony Harrison preferisce che si legga prima in italiano poi in inglese, giusto, Giovanni Greco?

Giovanni Greco: esattamente, lui dice sempre first the meaning then the music, prima il significato poi la musica. Quindi leggerò prima io.

da V. e altre poesie (op. cit.)


Traduzione dall’inglese di Massimo Bagicalupo

Eredità

Come sei diventato poeta è un mistero
Dove cavolo hai preso il tuo talento?
Dico: Avevo due zii, Jack e Harry –
uno era muto, l’altro balbuziente.

Heredity

How you became a poet’s a mistery!
Wherever did you get your talent from?
I say: I had two uncles, Joe and Harry –
one was a stammerer, the other dumb.

TH: Sono cresciuto circondato da persone che non articolavano, quindi il più grande dono che potevo acquisire era quello dell’articolazione e la più articolata forma di linguaggio è proprio la poesia.

TG: Che cosa ha trovato, tornando ancora ai greci e ai latini, in lingue così lontane nel tempo dalla sua e dalla nostra esperienza?

TH: Ho cominciato a studiare latino e greco quando avevo undici anni e all’inizio ero solo molto contento di acquisire una nuova forma di espressione, invece più tardi la forma della tragedia greca è diventata la forma fondamentale della mia ispirazione. Nella tragedia non viene mai mostrato il sangue, l’esecuzione, la morte; è il messaggero che arriva in scena e racconta tutto quello che è successo fuori di scena. Ho voluto essere il messaggero che porta sulla scena questi contenuti.

TG: È ciò che accade per esempio in una poesia come A Cold Coming in cui viene messo in scena, nella guerra del Golfo, un soldato iracheno morto carbonizzato che parla al poeta stesso: questo potrebbe essere un esempio della strategia di cui ci parlava?

TH: Sì, proprio così: nella poesia immagino questo soldato totalmente carbonizzato in un carro armato, impossibilitato in realtà a parlare, a cui do la voce, ma nella poesia parlo di registrare la voce e alla fine premo il tasto “play” e non c’è niente: è una mia invenzione. Quando ho inviato questa poesia al «Guardian», ho chiesto che venisse pubblicata nella pagina della cronaca e non della letteratura. Ho scritto anche altre poesie su quella stessa guerra, pubblicate sul «Guardian», e siccome hanno avuto un buon riscontro, un giorno il direttore del quotidiano mi chiama e mi dice: «La prossima volta che c’è una guerra, mandiamo te». Mi trovavo in Grecia, dove stavo facendo le prove di uno spettacolo: il direttore del «Guardian» mi chiama per farmi tornare in Inghilterra. Arrivato nel suo ufficio, mi dice: «Prendi l’elmetto, il giubbotto antiproiettile e vai a Sarajevo»; era scoppiata la guerra. Così ho preso il mio elmetto, il giubbotto antiproiettile, sono andato a Sarajevo e ho scritto poesie proprio da lì.

[Per i lettori trascriviamo A cold coming, che non è stata letta durante l’intervista per ragioni di tempo, tratta sempre dal libro di Tony Harrison V. e altre poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi, Torino 1992].

A Cold Coming

A cold coming we had of it.
T. S. Eliot, Journey of the Magi

I saw the charred Iraqi lean
towards me from bomb-blasted screen,

his windscreen wiper like a pen
ready to write down thoughts for men,

his windscreen wiper like a quill
he’s reaching for to make his will.

I saw the charred Iraqi lean
like someone made of Plasticine

as though he’d stopped to ask the way
and this is what I heard him say:

«Don’t be afraid I’ve picked on you
for this exclusive interview.

Isn’t it your sort of poet’s task
to find words for this frightening mask?

If that gadget that you’ve got records
words from such scorched vocal chords,

press RECORD before some dog
devours me mid-monologue» .

So I held the shaking microphone
closer to the crumbling bone:

«I read the news of three wise men
who left their sperm in nitrogen,

three foes of ours, three wise Marines
with sample flasks and magazines,

three wise soldiers from Seattle
who banked their sperm before the battle.

Did No. 1 say: God be thanked
I’ve got my precious semen banked.

And No. 2: O praise the Lord
my last best shot is safely stored.

And No. 3: Praise be to God
I left my wife my frozen wad?

So if their fate was to be gassed
at least they thought their name would last,

and though cold corpses in Kuwait
they could by proxy procreate.

Excuse a skull half roast, half bone
for using such a scornful tone.

It may seem out of all proportion
but I wish I’d taken their precaution.

They seemed the masters of their fate
with wisely jarred ejaculate.

Was it a propaganda coup
to make us think they’d cracked death too,

disinformation to defeat us
with no post-mortem millilitres?

Symbolic billions in reserve
made me, for one, lose heart and nerve.

On Saddam’s pay we can’t afford
to go and get our semen stored.

Sad to say that such high tech’s
uncommon here. We’re stuck with sex.

If you can conjure up and stretch
your imagination (and not retch)

the image of me beside my wife
closely clasped creating life…»

(I let the unfleshed skull unfold
a story I’d been already told,

and idly tried to calculate
the content of ejaculate:

the sperm in one ejaculation
equals the whole Iraqi nation

times, roughly, let’s say, 12.5
though that. 5’s not now alive.

Let’s say the sperms were an amount
so many times the body count,

2,500 times at least
(but let’s wait till the toll’s released!)

Whichever way Death seems outflanked
by one tube of cold bloblings banked.

Poor bloblings, maybe you’ve been blessed
with, of all fates possible, the best

according to Sophocles i.e.
«the best of fates is not to be»

a philosophy that’s maybe bleak
for any but an ancient Greek

but difficult these days to escape
when spoken to by such a shape.

When you see men brought to such states
who wouldn’t want that «best of fates»

or in the world of Cruise and Scud
not go kryonic if he could,

spared the normal human doom
of having made it through the womb?)

He heard my thoughts and stopped the spool
«I never thought life futile, fool!

Though all Hell began to drop
I never wanted life to stop.

I was filled with such a yearning
to stay in life as I was burning,

such a longing to be beside
my wife in bed before I died,

and, most, to have engendered there
a child untouched by war’s despair.

So press RECORD! I want to reach
the warring nations with my speech.

Don’t look away! I know it’s hard
to keep regarding one so charred,

so disfigured by unfriendly fire
and think it once burned with desire.

Though fire has flayed off half my features
they once were like my fellow creatures»,

till some screen-gazing crop-haired boy
from Iowa or Illinois,

equipped by ingenious technophile
put paid to my paternal smile

and made the face you see today
an armature half-patched with clay,

an icon framed, a looking glass
for devotees of “kicking ass”,

a mirror that returns the gaze
of victors on their victory days

and in the end stares out the watcher
who ducks behind his headline: GOTCHA!

or behind the flag-bedecked page I
of the true to bold-type-setting «SUN»!

I doubt victorious Greeks let Hector
join their feast as spoiling spectre,

and who’d want to sour the children’s joy
in Iowa or Illinois

or ageing mothers overjoyed
to find their babies weren’t destroyed ?

But cabs beflagged with « SUN» front pages
don’t help peace in future ages.

Stars and Stripes in sticky paws
may sow the seeds for future wars.

Each Union Jack the kids now wave
may lead them later to the grave.

But praise the Lord and raise the banner
(excuse a skull’s sarcastic manner!)

Desert Rat and Desert Stormer
without scars and (maybe) trauma,

the semen-bankers are all back
to sire their children in their sack.

With seed sown straight from the sower
dump second-hand spermatozoa!

Lie that you saw me and I smiled
to see the soldier hug his child.

Lie and pretend that I excuse
my bombing by B52S,

pretend I pardon and forgive
that they still do and I don’t live,

pretend they have the burnt man’s blessing
and then, maybe. I’m spared confessing

that only fire burnt out the shame
of things I’d done in Saddam’s name,

the deaths, the torture and the plunder
the black clouds all of us are under.

Say that I’m smiling and excuse
the Scuds we launched against the Jews.

Pretend I’ve got the imagination
to see the world beyond one nation.

That’s your job, poet, to pretend
I want my foe to be my friend.

It’s easier to find such words
for this dumb mask like baked dogturds.

So lie and say the charred man smiled
to see the soldier hug his child.

This gaping rictus once made glad
a few old hearts back in Baghdad,

hearts growing older by the minute
as each truck comes without me in it.

I’ve met you though, and had my say
which you’ve got taped. Now go away».

I gazed at him and he gazed back
staring right through me to Iraq.

Facing the way the charred man faced
I saw the frozen phial of waste,

a test-tube frozen in the dark,
crib and Kaaba, sacred Ark,

a pilgrimage of Cross and Crescent
the chilled suspension of the Present.

Rainbows seven shades of black
curved from Kuwait back to Iraq,

and instead of gold the frozen crock’s
crammed with Mankind on the rocks,

the congealed geni who won’t thaw
until the World renounces War,

cold spunk meticulously jarred
never to be charrer or the charred,

a bottled Bethlehem of this come –
curdling Cruise/Scud-cursed millennium.

I went. I pressed REWIND and PLAY
and I heard the charred man say:

Un freddo venire

Fu un freddo venire il nostro
T.S. Eliot, Viaggio dei Magi

Ho visto piegarsi un iracheno carbonizzato
verso me attraverso il parabrezza schiantato,

col tergicristallo che pare una penna
pronta a scrivere pensieri per la Terra,

col tergicristallo che pare uno strumento
che egli afferra per fare testamento.

Ho visto piegarsi l’iracheno carbonizzato
come un uomo fatto di plastilina

fermo a chiedere la direzione
e queste furono le sue parole:

«Non aver paura se ho scelto te
per questa intervista irripetibile.

Non è forse compito di un poeta della tua scuola
trovare parole per questa maschera paurosa?

Se il tuo apparecchio può registrare
le parole di corde vocali bruciate,

schiaccia RECORD prima che un cane
mi sbrani a metà del mio monologare».

Spinsi il microfono traballante
più vicino alle ossa sgretolate:

«Ho letto sul giornale che tre uomini assennati
hanno lasciato campioni di sperma congelati,

tre nostri nemici, tre assennati marò
muniti di fialette e foto porno,

tre assennati marines di Seattle
che depositarono lo sperma prima di battersi.

Disse il numero 1: Dio sia ringraziato
il mio seme prezioso l’ho depositato;

e il numero 2: Oh grazie Maria
la mia ultima cartuccia è messa via;

e il numero 3: Se Dio vuole
ho lasciato a mia moglie il mio schizzo migliore.

Così se gli toccava di essere gassati
almeno i loro nomi sarebbero restati,

e pur cadaveri freddi nel Kuwait
si sarebbero indirettamente moltiplicati.

Perdona un teschio mezz’arrosto e mezz’osso
se usa un tono così poco ortodosso.

Sarà un eccesso di presunzione
ma vorrei aver preso la loro precauzione.

Sembravano maestri del loro fato
a mettere sotto vetro il loro eiaculato.

È stata una trovata propagandistica –
avevano debellato anche la morte fisica! –

disinformazione per confonderci,
noi senza milligrammi postumi?

Quei simbolici milioni di riserva
a me almeno hanno fatto saltare i nervi.

Con la paga di Saddam non è roba da noi
far conservare i nostri spermatozoi.

Triste a dirsi, una tecnologia di tale livello
qui manca. Dobbiamo accontentarci del sesso.

Se sforzando (senza vomitare)
la fantasia puoi evocare

l’immagine di me che tengo avvinta
mia moglie per generare la vita…»

(Lasciai che il teschio si diffondesse
su quella faccenda senza sorprese

e a tempo perso feci il calcolo
del contenuto di un orgasmo:

gli spermatozoi di una eiaculazione
sono pari a tutta la popolazione

dell’Iraq per 12,5, suppergiù,anche se un 0,5 non c’è più.

Diciamo che gli spermatozoi erano un bel po’
di volte il numero dei morti,

2.500 per lo meno
(ma la cifra precisa chissà se la sapremo!)

Comunque sia la Morte sembra soverchiata
dalle gocce in vetro di una singola scopata.

Povere gocce, forse vi è toccata
di tutte la sorte più fortunata

secondo Sofocle, e cioè
«la miglior sorte è non essere»,

un filosofema magari tetro
per chiunque non sia un antico greco,

ma difficile da giudicare eccessivo
se si intervista un tale divo.

Quando si vede un uomo ridotto in quello stato
chi non vorrebbe per sé quel «migliore fato»,

o nel mondo degli Scud e Cruise
non essere se possibile refrigerato,

evitando il destino umano solito
di doverla spuntare per arrivare all’utero?)

Intercettò i miei pensieri e fermò la cassetta:
«La vita non mi è parsa mai futile, fesso!

Anche se tutto l’inferno veniva giù
non ho mai desiderato non vivere più.

Ero pieno di un tale desiderio
di restare in vita mentre ardevo,

un tale anelito di essere vicino
a mia moglie a letto mentre morivo,

e soprattutto di aver lì generato
un figlio che per la guerra non fosse disperato.

Perciò schiaccia RECORD! Voglio raggiungere
le nazioni belligeranti con le mie parole.

Non guardare da un’altra parte! Lo so che è duro
continuare a fissare un coso scuro,

così sfigurato dal fuoco aereo
e pensare che una volta arse di desiderio.

Il fuoco ha portato via metà dei miei tratti
ma una volta erano come quelli dei miei fratelli,

finché qualche ragazzo dai capelli corti al video
dell’Iowa o dell’Idaho,

equipaggiato dal tecnocrate ingegnoso
prese di mira il mio paterno sorriso

e fece la faccia che oggi vedi,
un’armatura per metà coperta di creta,

un’icona in cornice, uno specchio
per i devoti del “calcio in culo”,

una sfera che restituisce lo sguardo
ai vincitori nel loro giorno gagliardo

e alla fine ha la meglio sull’osservatore
che si nasconde dietro al tronfio titolone

o dietro alla bandiera in prima pagina
del «SUN» coi suoi soliti titoli cubitali.

I Greci vittoriosi non invitarono Ettore
a unirsi, spettro incomodo, al loro banchetto,

e chi vorrebbe rovinare la gioia ai boys
dell’Iowa o dell’Illinois

alle madri anziane in festa
perché i loro bambocci si sono salvati?

Ma i tassì imbandierati di copertine del « SUN»
non giovano alla pace futura.

Le stelle e strisce in grinfie appiccicose
possono gettare i semi di guerre prossime.

Ogni bandiera inglese che i ragazzini sventolano
può più tardi condurli alla loro tomba.

Ma Dio sia lodato e la bandiera garrisca
(scusa il sarcasmo di un povero teschio!),

Topi del Deserto e Tempestatori del Deserto,
senza cicatrici e (forse) senza traumi,

i depositatori di sperma sono tutti tornati
a fare figli come hanno sempre fatto.

Con seme direttamente seminato dal seminatore
buttate via gli spermatozoi nel refrigeratore!

Menti pure, di’ che mi hai visto sorridere
vedendo il soldato abbracciare il figlio.

Menti pure, di’ che perdono
di essere stato annientato dai B52,

fingi che perdono e mando assolto
chi ancora fa mentre io son morto,

fingi che ha la benedizione dell’uomo bruciato,
e allora forse mi sarà risparmiato

confessare che il fuoco bruciò la vergogna
delle cose fatte in nome di Saddam,

le morti, torture e deportazioni,
le nubi nere sotto cui stiamo tutti.

Di’ che sorrido e che trovo scuse
per gli Scud lanciati su Israele.

Fingi che ho l’immaginazione
di vedere il mondo oltre una sola nazione.

Sta a te, poeta, illudere
che voglio che il nemico sia con me.

È più facile trovare parole accomodanti
per questa maschera muta come stronzi secchi.

Perciò menti, di’ che l’uomo di carbone ha riso
a vedere il soldato abbracciare suo figlio.

Questo rictus spalancato una volta rallegrò
qualche vecchio cuore lassù a Baghdad,

cuori che invecchiano di minuto in minuto
mentre i camion rientrano e io non ci sono.

Ti ho incontrato però, e detto quel che mi pare,
che tu hai registrato. Ora va’ pure».

Lo fissai e lui mi rese lo sguardo
vedendomi attraverso fino all’Iraq.

Guardando dalla parte che guardava lui
vidi la fiala ghiacciata della distruzione,

una provetta gelata nell’oscurità,
culla e Kaaba, Arca dell’Alleanza,

un pellegrinaggio di Croce e Crescente,
la sospensione fredda del Presente.

Arcobaleni con sette tonalità di nero
dal Kuwait all’Iraq coprivano il cielo,

e la pentola ghiacciata era stracolma
non di oro ma di uomini on the rocks,

i geni congelati che non si scioglieranno
finché il mondo non rinuncerà alla guerra,

sperma freddo meticolosamente inscatolato
per non essere mai carbonizzatore o carbonizzato,

Betlemme in fiala di un millennio maledetto
da Cruise e da Scud, che raggela ogni venire.

Proseguii. Schiacciai REWIND e PLAY
e udii l’uomo carbonizzato dire:

TG: Prima lei accennava alla scelta di far pubblicare poesia nella pagina della cronaca del giornale, ma lei ha collaborato anche con la televisione e dire collaborazione è dire poco, perché ha sceneggiato e diretto veri e propri poemi-film televisivi, fra cui quel Prometheus che sarà possibile vedere stasera ad Ancona alle ore 21.30. Questa scelta del medium televisivo corrisponde alla volontà di riuscire a intercettare un pubblico più vasto e, soprattutto, le ha permesso di catturare lettori che altrimenti sarebbero stati scettici, forse, di fronte a un testo poetico?

TH: Mi è successo in molte occasioni di fare film per la televisione, su argomenti complessi, difficili, davanti ai quali molte volte il pubblico si è trovato in difficoltà, si è trovato a non capire.

TG: Mi scusi se la interrompo, ma in Inghilterra è cosa comune che i poeti, gli scrittori facciano film per la televisione oppure il suo è un caso raro?

TH: Sono un caso unico.

TG: Prego, stava dicendo?

TH: Uno dei miei primissimi poemi-film è stato girato in Italia, a Napoli, s’intitolava Mimmo Perella Non È Più (BBC Bristol, 1987): era un poema-film, cioè poesia in forma di film, sulla morte. Poi ho fatto un film che si chiamava Black Daisies for the Bride [Giovanni Greco nota che il titolo in italiano, se il film fosse tradotto, sarebbe Margherite nere per la sposa], che ha vinto il Prix Italia nel 1994. Ho girato film per la ricorrenza della bomba di Hiroshima e altri poemi-film su argomenti altrettanto difficili, ma io credo che l’intreccio tra versi e film, quindi immagine, sia un modo per aiutare il pubblico, i lettori, gli spettatori a concentrarsi meglio, in realtà.

TG: Noi oggi parleremo, nello spazio del libro, di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare. È una strana opera teatrale, che ha qualche cosa di greco: forse l’avvicinamento le sembrerà indebito, ma mi fa pensare ai drammi satireschi di cui lei ha fornito una rielaborazione in una sua bellissima opera teatrale, The Trackers of Oxyrhynchus (I Segugi di Ossirinco, trad. it. Giovanni Greco, Ponte Sisto, 2014). Un suo punto di vista su Sogno di una notte di mezza estate arricchirebbe tantissimo questa puntata dedicata al midsummer, perché siamo appunto nel giorno del solstizio d’estate.

TH: Il dramma satiresco, in realtà, è stato per molto tempo ignorato dai filologi, dagli studiosi, forse perché volevano che la tragedia greca avesse le sembianze di una tragedia cristiana, invece bisogna ricordare che ogni tragediografo ha scritto tre tragedie, ma poi alla fine ha sempre concluso con un dramma satiresco, in cui i satiri uscivano con il fallo, danzando, ubriachi, per riportare l’energia, per riportare tutto a un livello più basso rispetto a quello a cui si era saliti durante le tragedie. Esiste un solo dramma satiresco completo, che è il Ciclope – io invece ho lavorato sui frammenti di un altro… Shelley ha realizzato una versione del Ciclope di Euripide, per l’appunto, ma quello che ho scelto io è un dramma satiresco di cui abbiamo solo frammenti: si tratta di un’opera perduta di Sofocle, I cercatori di tracce, incentrata su dei satiri che vanno in cerca della mandria di Apollo, rubata da Hermes. Da questa mandria rubata, in realtà, Hermes ricava la prima lira, che tornerà poi ad Apollo, e questi diventa il dio della musica e della poesia. Tuttavia scaccia via i satiri che lo hanno aiutato a recuperare la mandria trasformata in lira: i satiri che sono mezzi uomini e mezzi animali vengono esclusi dalla poesia e dalla musica. E io sono un satiro che vuole suonare la lira.

TG: In questo forse c’è qualcosa di Nick Bottom e degli attori dilettanti del Sogno di una notte di mezza estate.

TH: Sì, benedetto Bottom che si è trasformato («traslated» nell’originale).

TG: Nella sua poesia è molto presente questo elemento fisico, carnale, generativo: fin dall’inizio lei ha parlato dei rapporti familiari come elemento molto importante di cui raccontare, però in poesie come quella a cui abbiamo accennato, A Cold Coming, si arriva a parlare invece delle biotecnologie, di nuove forme di riproduzione. È come essere a cavallo tra due secoli, tra due millenni: questo passaggio, come lo vive?

TH: In questa opposizione in realtà si crea una tensione che forse è il modo migliore perché si crei la poesia. La poesia è la migliore via per risolvere queste tensioni.

TG: Harrison è anche poeta fortemente politico, come dicevo. Tra l’altro, proprio in questi giorni si è espresso una volta di più sul tema della Brexit, il referendum per la permanenza o meno della Gran Bretagna nell’Unione europea: ha parlato di isolazionismo, un patetico retaggio culturale dell’imperialismo britannico. Da persona che ha viaggiato moltissimo nella sua vita – sin da giovane ha vissuto in Africa, in Sud America, in molti paesi – pensa che sia una mancanza di esperienza internazionale a spiegare l’isolazionismo? Non è paradossale in un paese che ha rapporti strettissimi con il suo ex impero coloniale?

TH: È piuttosto patetica questa nostalgia per l’impero. Quando ero giovane ho passato quattro anni nell’Africa occidentale, in Nigeria, e la Nigeria è diventata indipendente nel frattempo: la cosa mi ha fatto capire non solo come il colonialismo aveva funzionato in Africa, India, ma anche in Inghilterra, perché, per la mia condizione, io avevo sofferto di un colonialismo interno, riferito a me stesso, in realtà.

TG: Vorrei chiudere con un’altra poesia che faccia da cornice a questa conversazione. Può sceglierne una?

TH: È una poesia che leggo sempre alla fine perché alla fine di un reading la gente dice sempre che vuole bere del vino. È una traduzione da Anfide, poeta greco del IV secolo avanti Cristo.

[Giovanni Greco legge per prima la sua traduzione, effettuata domenica 19 giugno, in occasione del reading di Tony Harrison nella chiesa di S. Maria di Portonovo per l’inaugurazione del poesia festival “La punta della lingua”.]

Un bicchiere e nulla più
la vita dell’uomo è questa.
Così continua a buttar giù
finché la morte dice basta.

One glass and no refill
is life for men,
so keep on pouring till
Death says when.

(da Collected poems, Penguin, 2016)

__________

Tony Harrison (Leeds, 1937), è autore di numerosi libri di poesia, testi teatrali, film-poems per il cinema e per la televisione. Ha collaborato con il quotidiano britannico «The Guardian» con editoriali in versi, come corrispondente dal fronte in Iraq e in Bosnia. In traduzione italiana sono uscite le raccolte: V. e altre poesie (Einaudi, 1996), In coda per Caronte (Einaudi, 2003), Vuoti (Einaudi, 2008), Afrodite del mar Nero e altre nuove poesie (Interlinea, 2014), Poligoni (2015, Liberodiscrivere). Nel novembre del 2004 il mensile «Poesia» gli ha dedicato un fascicolo. Nell’ottobre del 2005 «Il Caffè Illustrato» ha pubblicato integralmente I Segugi di Ossirinco, testo teatrale in versi messo in scena per la prima volta nel 1988 al teatro di Delfi, e pubblicato nel 2013 per Ponte Sisto. Nel 2015 per le edizioni EDUCatt Università Cattolica è uscito Prometheus, a cura di M. P. Pattoni.

__________

Giovanni Greco (Roma 1970), dottore di ricerca in Filologia e Storia del Mondo antico presso la Sapienza, specializzato in regia presso la Guildhall School of Music and Drama di Londra, è attore, regista, traduttore (di T. Harrison ha pubblicato, tra l’altro, Vuoti, Einaudi, 2008). Con il suo romanzo d’esordio, Malacrianza (Nutrimenti, 2012), ha vinto il Premio Calvino ed è stato finalista al Premio Strega e al Premio Viareggio. Ha pubblicato inoltre Teatri di pace in Palestina (manifestolibri, 2005) e ha curato, con A.M. Belardinelli, il volume Antigone e le Antigoni. Storia, forme, fortuna di un mito (Mondadori, 2010). Per “Feltrinelli Indies” ha pubblicato L’ultima madre (Nutrimenti, 2014) e per i “Classici” ha tradotto e curato Antigone di Sofocle (2013) e Lisistrata di Aristofane (2016). Autore di numerosi testi e regie teatrali in Italia e all’estero, insegna Recitazione in versi presso l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.

_________

Tommaso Giartosio (Roma, 1963) è scrittore e saggista. Ha pubblicato: “Doppio ritratto” (Fazi, 1998), la guida “L’O di Roma” (Feltrinelli, 2012), “I racconti del capanno” (DeriveApprodi, 2006), i saggi “Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo” (2004) e “La città e l’isola” (con Gianfranco Goretti, 2006). Ha curato opere di Christopher Isherwood, William Makepeace Thackeray e Nathaniel Hawthorne. È uno dei conduttori del programma “Fahrenheit” di Rai Radio 3.

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