Eleonora Rimolo, “Temeraria Gioia”

Eleonora Rimolo

Nota di Giovanni Ibello

Può una gioia insolente essere iconografia dell’autodistruzione? Questo è l’audace proposito di “Temeraria Gioia” (Ladolfi, 2017), il terzo lavoro in versi della poetessa salernitana, Eleonora Rimolo (classe 1991).
Contrariamente alle aspettative, la poesia della Rimolo è permeata da un forte senso dell’etica: penso al poeta-samurai che non scende a compromessi, che non teme l’harakiri, l’estremo sacrificio dei vinti.
Yukio Mishima che – secondo il parere di chi scrive, costituisce l’epigone di questi precisi canoni estetici – scriveva che il sapore della gloria è amaro, che in verità, pochissime sono le cose perdonabili. E difatti, qui, lo “strumento-parola” funge all’autrice da brando letale che – riecheggiando Amelia Rosselli – esclude il naturale, giacché indecifrabile e peregrino.
Gli angeli di cui scrive Eleonora, sono, dapprima, neri e privi di plasma, contrapposti all’incolpevole sollievo della gente, meschina della propria salvezza.
Tuttavia, nel dettato lirico dell’autrice, gli angeli – come le ali degli uccelli a occultare i tossici della provincia salernitana, diventano carta e ci premono la nuca, sul bordo tagliente della gioia.
Sono di carta anche le vedette, soldati del momento, intoccabili ed erti sopra la foglia. Nell’eluso coraggio del finire, neanche a un raggio possiamo aggrapparci – puntualizza solerte – Eleonora, sicché la carta è il proscenio del rogo, il perverso presagio della fine, del “solitario amore, del solitario equisèto che abbiamo nel cuore”, direbbe Beppe Salvia (altro poeta italiano ingiustamente finito in sordina).
Insomma, l’indagine della Rimolo appare come un manifesto di inanità che sottende la dimensione cinerina dell’umano.
Scrive Eleonora che forse è proprio questa la gioia, quell’infinita grazia del finire, le pieghe di un amore cieco e smisurato. Perché si parla d’amore in una lingua morta: il crepuscolo fraintende la lotta, non la dirime.
Non esiste, dunque, poesia taumaturgica: è questo un incontrovertibile assunto, che individua con ferocia lo spazio bianco, primitivo, della lotta: la parola poetica.
All’aurora le dita di prosa, alla poesia le pieghe di una notte barbara: la notte della cernia che risale la fogna.
È una poesia scarnificante, mostruosa e sublime (nell’accezione kantiana del termine), quella di Eleonora – che, invece – appare graziosa e sorridente, nel fiore della sua gioventù. La gioia, dunque, è un interludio ribelle, è un prodigio che si compie nel momento e si risolve in quell’attimo di straordinario fulgore – talora sensuale, talaltro onirico – dove il desiderio dei corpi si fa più autentico e pervicace.
Desta particolare interesse la corrispondenza, non credo voluta, tra questi versi – che invero – appartengono a due differenti poesie:
1) ”oggi la gioia scorre dai tornanti della gola, sfocia tra gli interstizi occlusi”.
2) “saprai come guaisce il piacere di uccidere, mentre leali puntiamo alla gola”

Le considerazioni tanatoviali dell’autrice si compiono nei manti cavi della carne, nei tuguri privi di luce, dove anche l’erotismo più estremo diventa  un fenomeno intestino e misteriosamente individuale (quasi onanistico). L’opacità dell’elemento carnale è di tutta evidenza: ed è proprio qui, che la gioia temeraria ci ghermisce. Perché subiamo la letizia senza piegarci, testimoni di un amore che implode nei corpi, che fuga l’ariosa calma del normale.
È questa la diligenza del poeta-guerriero, che leale punta ai tornanti della gola, tra gli interstizi occlusi, così da affrancare le radici silvestri dell’amore.
L’autrice rievoca, con destrezza, il topos dello svilimento amoroso, e sembra intraprendere – suo malgrado – una corrispondenza scritta, con l’eterno Dario Bellezza.
Se la  Rimolo scrive del tuo sesso (…) che necessita di riti precisi, se scrive di lei – che circonda il divano di ami, di lei che resiste, e di lenzuola che  (io e te) solamente sognammo di annusare, il poeta romano squaderna il suo libro d’amore e ricorda invero, la freschezza animale dei corpi che si leccano tra sporche lenzuola e  si esplorano: è il sommerso rifugio al mio sesso rifiutato, le catene di quei tabù folletti che separano la gioia sregolata dall’hysteria di giorni tutti uguali.

 

ESTRATTI

Da Temeraria gioia:

 

Chissà se per alcuni minuti
siamo rimasti stretti nella gioia:
attorno tutto indicava che il rito
stava per compiersi, che aspettava
solamente questa congiuntura supposta
bramata ed intanto
il dolore è sordo, altrove i gelsomini
coprono i semafori si arrampicano
sopra le vertebre dolenti. Attraversiamo
una intera dorsale di libri ed ore ed ore
anche se tutto sembra compresso
vissuto per quel solo momento
benedetto nel nome di tutte
le morti dell’indifferenza, quelle
creature soppresse da un’attesa
fracassata e marcia: ancora restiamo
nell’epoca, dopotutto, e di nuovo a ritroso
si percorrono i destini, ogni cosa
ricade nell’accadersi e si concentra
in un solo segreto sorriso.

*

E saprai di quella migrazione verso
lo strisciare nella pazienza, saprai
come guaisce il piacere di uccidere
mentre leali puntiamo alla gola:
così, tenendosi allo specchio,
nascondendo le lame tra le guance,
avvicinando il naso al vetro,
sgonfiando il petto, facendo
col fiato una macchia, scrivendoci dentro la pena.

 

*

 

Per la parola noi siamo andati oltre,
siamo stati macigni che planano
sopra i campi di girasole: oggi la gioia
scorre dai tornanti della gola
sfocia tra gli interstizi occlusi
del diaframma per metà
ci orienta al sole,
fissa per sempre il tuo verso
sopra la tavola, per questo gli eroi,
per questo la casa, la biblioteca,
il tuo mantice sopra il mio.

 

*

 

La morsa che stringe ogni giorno
tra le costole io attendo
mi lasci svanito in frammento
appena davanti la tua casa:
vedrai che tormento, vedrai
dalle fogne risalire la cernia,
il gufo sporgersi dall’osso
pregustare quel manto
cavo di carne, la rovina
conquistare le stanze,
calare in anticipo
la notte barbara.

 

*

 

Sopra l’ultima pennellata
di confine io chiedo a te,
fuoco su altra luce, quella
oscurità dove affondo
il gomito e le fauci,
e nella cecità amo,
amo senza misura.

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