Corposo e potente questo Dodicesimo Quaderno sulla poesia italiana a cura di Franco Buffoni.
Vi sono inclusi sette poeti. Il più giovane è nato nel 1989 e si chiama Samir Galal Mohamed. Notevole la sua poesia che ha per titolo “A un padre“, e che fa riferimento a un uomo che si è annientato nel nome di un’altra identità.
Sono presenti nel Quaderno due donne di grande sensibilità versificatoria, Maria Borio e Maddalena Bergamin. Due figure opposte, ma direi anche, complementari. La prima, Maria Borio, sembra dominata da un’apparente incertezza: “Il sole è quasi a gennaio/ le ombre della terra/ risalgono il campo, liberano/ le estremità degli alberi“. Più sicura e determinata, invece, la voce di Maddalena Bergamin: “La madre è uguale alla figlia/ sul fondo lo sfondo urbano, che strano/ la madre è uguale alla figlia!”
Poi ci sono i poeti Alessandro De Santis e Lorenzo Carlucci, entrambi nati a Roma, il 13 agosto 1976. Sono gli ultimi poeti nati negli anni Settanta a uscire nei Quaderni. Dal prossimo numero infatti, il XIII, previsto per il 2017, la deadline si sposterà inesorabilmente al 1980.
Infine, Diego Conticello, siciliano, ma da anni abita fra l’Italia e la Svizzera e Marco Corsi, toscano, dottore di ricerca in lettere, con una spiccata predilezione per la coniugazione delle arti figurative alla poesia.
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Maddalena Bergamin, da Scoppieranno anche queste stagioni
La madre è uguale alla figlia
sul fondo lo sfondo urbano, che strano
la madre è uguale alla figlia!
due volte gli stessi capelli
rossi sul fondo urbano
sullo sfondo profondo e quanto…
profondo. La madre e la figlia
sono uguali, hanno casacche
fosforescenti e parlano dietro
la linea gialla, sullo sfondo i treni
dal fondo, i rumori corrotti
i lamenti, i brusii della gente
che sta sullo sfondo. La figlia
è uguale alla madre, (la madre bisbiglia
sorride, la figlia)
*
Di vetro sarebbe comunque rimasto
il passaggio. Per scontrare le fronti
e vedersi invano parlare, garanti
le schegge minuscole del prodotto
sicuro, la trasparenza del sangue
nel labiale frainteso, l’infrangibile
velo che illude e con tonfo pesante
di carne su ghiaccio, beffardo
rinchiude
*
Descrivo lo sbalzo e la linea
nei segni rinchiuso si sposta
il segreto, il sobbalzo, l’eterno
nascondersi della parola
e della figura nel verbo
nell’acqua versata
che forma le nostre
viventi rampanti rincorse
e tu pensi che forse questo
tempo che passa si fermi
questa luce che acceca
ritorni, senza dare nemmeno
ragione dei torti
e dei giorni
***
Maria Borio, da Vite unite
Il sole è quasi a gennaio,
le ombre della terra
risalgono il campo, liberano
le estremità degli alberi.
Tu sei con la luce
che va alle cose alte,
i pali della vite, la quercia,
le cime dei rovi.
Tu sei dove la terra
fa acqua e gelo,
dove i fili dei cavi
elettrici più non si vedono
– gli uccelli, a puntini
rappresi, i ritagli dei campi
più stretti, le proprietà
di nessuno.
Tu sei dove andavo
per essere qualcuno,
dove adesso il cielo
mi solleva, mi lascia.
Forse meno di quel che si muove
nel cono della luce
e la bustina di tè e pagliuzze
in fondo alla tazza
– guardi il tavolo,
una casa che vorresti,
un ritorno al tu.
Sento il gatto che beve
e le nuvole violente
che succhiano l’aria,
ogni azione irrigidita
contro i rosmarini
che hanno allungato le radici
e ti seguono.
Io bevo e ti ripeto
come il gesto più semplice
o l’aereo troppo alto e lo squarcio
di chi non capisce.
Improvviso ritorno al tu
– le immagini
sul fondo della ragione,
in trappola nel condotto dell’aria
come se anche noi dovessimo
pensarci per sempre
in una salita chiusa.
*
Sulla tenda che trema
la radio e la strada si fanno a pezzi:
i rumori risalgono la trama dei fili,
un passato innaturale.
Hai dovuto capire perché
questa gioia, pensare le cose
nei momenti giusti
tra il traffico e le sirene
che vibrano sull’erba.
Sei dentro a un’altra idea,
una vita che si può
toccare – con paura, al fantasma
passato di te fai paura:
la mania di capire la strada
delle capsule sigillate,
le verità private, ti fa vedere
che l’utopia non resiste più di un’ora
e il rumore la allaga dolcemente.
Ma poche parole sono diventate
cose ai lati della strada,
i tigli si preparano alla primavera,
la fermata dell’autobus è vuota
e le strisce bianche
accartocciate in fondo alla curva
ti chiamano.
Smantello le immagini,
la plastica lattiginosa,
il mondo che è già stato –
poche cose che dicono lo spogliano.
Le parole stanno diventando vita
ai lati della strada:
tu mi tieni, respiri,
tutti vanno e inseguono.
*
Gli anni passano come filigrane
e ci svettano addosso,
tanti che è difficile
non averne paura.
Ne cavo la mia parte
per i bordi frastagliati
aperti tra cielo e buio,
come li vedevo in cima al colle
dello stagno, e così
adesso solo così
li posso pensare: nuvole
che non hanno questi anni,
solo uno spazio troppo vasto
per smembrarsi.
Allora non lo credevo
mentre un ramo faceva crack
sotto la suola e gli animali
da pascolo non brucavano più.
Ero dove i nomi danno cartapesta
e i colori insegnano se stessi,
dove sono ancora quando le nuvole
portano pioggia fitta
o luci grandi, aperte su un tonfo,
un moto pendolare: la casa
fatta solo da crolli e mani,
il posto comodo dei grandi.
Lorenzo Carlucci, da Prose per Ba’al
metodo1
Quel che ancora è difficile, ardito, è il moderare la voce tra il canto e il parlato. La primavera, tra le altre sue astuzie, ha il potere di coglierci i fiori sul labbro, di prenderci via le parole come semi staccati. Lo fa senza curarsi che siano maturi, sicuri. Le mie sedute al bar, al lato della strada, nella purezza della posizione astratta, atta a ricevere i sorrisi casuali, perché imprevedibili, di donne e di omosessuali; queste sedute, sono la possibilità della stagione. È lei che acuisce d’un tratto il mio sguardo fino a fargli raggiungere il fondo del vico, perpendicolare, che fa dei miei occhi il suo punto di fuga, del percorso che fanno figure, tre uomini avanzano, e un quarto di spalle. Tutto ciò ci è concesso dalla primavera. Ma è anche vero che noi, per lei, ci sottoponiamo, come rispondendo ad una chiamata, a uno speciale dovere, di natura impiegatizia: ogni giorno sedere, per una pattuìta durata, alla sedia del bar, all’incrocio. E tutto questo affinché, grazie al nostro guardare, quell’incrocio resista, possa durare. Il tempo di questa stagione si stanca anche lui, si fa vulnerabile, ci sveglia in queste giornate perché ha bisogno di noi, per far esistere il mondo.
*
metodo6
Per quanto ti vesta così, il tuo corpo è di un impiegato. Per quanto io mi impieghi, il mio corpo è simile a Dio. La mia mano è più bella di tutta la strada. L’infanzia, che è sempre rurale, ci insegna che ad ogni intenzione corrisponde un’azione, ed un fatto a un’azione, e poi che c’è il cuore del prato, la culla delle cavallette, il sonno in mezzo agli insetti. Ancora una volta, si vede davvero, che dietro al problema del noto equilibrio tra canto e parola, vi è sempre e soltanto il problema del concetto del mondo. Se questo gentile armadillo ci possa concedere un grazioso equilibrio, nelle sue evoluzioni. Se noi, che, se non isomorfi a noi stessi, a noi stessi siam sempre omomorfi, possiamo alla fine trovare spiraglio tra fattore e fattura, tra scaglia del mondo e menzogna. Ché questo armadillo gentile, che ci segue al guinzaglio, che ammicca, nasconde qualcosa di atroce. Nel sogno ci è noto il risveglio, e il problema di scegliere tra andare e venire, o tra questo e quest’altro, sappiamo, non è che una dislocazione del problema centrale, del concetto del mondo. In una tua allocuzione, io ti prego, addresse le problème de cet homme.
*
Sulla spiaggia, un cormorano ed io. Osservo i suoi passi. Sono trasceso dalla sua natura. Non c’è nulla di più profondo che il guardare un animale di un’altra specie. Forse soltanto il guardare un animale della stessa specie e di un altro sesso. Forse soltanto il guardare un animale della stessa specie come se fosse di un’altra specie. Forse il guardare se stessi come un animale d’altra specie. Guardando un animale di un’altra specie si giunge al fondo di tutto quello che conta sapere nella vita. Al collidere ed esplodere di somiglianza e dissimiglianza. Al collidere ed esplodere della ragione come facoltà del dissimile e dell’immaginazione come facoltà del simile.
Diego Conticello, da Le radici del senso
Cosmagonia
Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
(Lucio Piccolo)
Se un’enorme massa,
una dell’infinita
gragnuola
trapassante le galassie,
sfondasse i fragili
veli sferici
ad un’ora, ad un tempo preciso,
avremmo un’altra Tunguska,
impensati megatoni
del tramonto.
Questione di traiettorie,
risucchi implosivi
per cui siamo
conigli abbagliati,
sagome inutili
inette a smuoversi.
Chimiche brillanti
attraversano le ere
proiettando particole, orologerie
cieche puntate nelle tenebre,
luci scottanti della fine
l’universo enfiato
in un punto
che tutto sugge,
il nero foro dei mondi,
ombra contratta,
nulla allo stato puro.
Oscureremo per troppa chiarità,
un collasso
per veemenza di stelle…
entropia
non è piacere
di belle metafore e brune
ma morte della luce,
fuga da grazia
materna,
totale penetrazione
del gelo.
In un grande strappo
il mietitore fosco
espanderà questa
illusione vitale
esternandola all’oscura potenza
sebbene
serbiamo il segno,
unica serie di curve
al limite del sensibile
nella sera del cosmo.
*
Sud-are
La prima coniugazione
del dolore, l’amaro
nostro innato
annaspare,
l’innesto di genti subìto
nelle ere,
il peso della storia
che invita – ora –
caldamente a scappare,
un groppo silente
che ci fa complessi e nomadi
nel mondo,
lanciati verso
il niente,
sebbene ancora sottomessi.
*
Esercizio (ma non troppo)
Quella luce
col crepuscolo bieca
che crepa il velo
nuvolare,
ci dice del giorno
che non tace
ma sulle soglie
ancora traluce
d’un giro
che mai giace,
il rimestio
per cui si vive
questo limite nostrale.
Marco Corsi – Da un uomo a un altro uomo
da parti di quagga
l’intelligenza della materia come ossa di quagga:
materia dappertutto indecifrabile.
il pensiero da solo si apre
si fa spazio, cerca la mutazione
per arrivare dentro l’ibrido
cercare la nuova creazione
sempre più ritirandosi
sempre più sparendosi.
*
rimaniamo nei segni
torniamo a dire delle ossa
delle ossa di un animale
l’equus quagga quagga
in difetto di cibo
oltre la forma del moderno.
non importa la testa o la coda,
occorre tutta la volontà
tutto il sentimento contrario
per fare visibili le cose.
*
lo stato di grazia incenerisce
e ti ringrazio per queste parole trapelate
dentro la macchina
a dire delle cose estinte
se davvero ancora si resiste
a guardare nella sostanza
a contare tutte le molecole
scoprendo i quanti di una nostra vita
e quanto la fisica
immette di nostro nei corpi.
***
Alessandro De Sanctis, da Il verso del taglio
Il piano verticale
Sull’orizzonte di legno
una torre Eiffel di sali colorati
e un opossum che dimentico sempre di salutare.
La ragazzina del piano di sopra
piove gocce di mercurio
dalla fronte, mentre suona canti
liturgici con l’insistenza del venditore
telefonico, della ghiaia rimestata.
Vorrebbe laccarlo di rosso
come un giorno di gioia
Morta la meccanica può
sentirsi fortunata, la musica di benvenuto è pur
spaventevole: accenti perfetti, semicrome a tempo,
una linea di mozza della casa
dell’imbecille guerra che diluisce la morte.
*
Fermo
Rientro nella foto del documento
stavolta dunque son presente
La pelle ha uno sbrego sotto il mento
e della bella età ho perso un dente
Il rammarico è vento lento,
un animale col piede zoppo che gli pende
Rientro nel cortiletto del convento
la cimatura debbo curare delle rose
aiuta, tiene la mente lontana dalle cose.
*
Torre Maura
Ore 10,35. Sguardi ottimisti. Un insolito vento
L’uomo senza braccia
non cerca appigli
l’uomo senza braccia
ha sporte che gli pendono dai lembi
muove il mento
come a voler dire qualcosa
il volto smunto
povero di peli
un tipo biondo lo fissa
segue con lo sguardo
la sua ellittica geometria
un uomo – si sa – esige dei legami
non ha motivo d’essere
quell’albero potato,
senza rami.
S. Galal Mohamed, tre poesie da Fino a che sangue non separi
A un padre
Io sono l’orfano
figlio di un uomo annientatosi
nel nome di un’altra identità,
dello spirito di un tempo terminale.
Padre mio imbalsamato.
Assimilato fino all’ultimo
residuo di paura del non-essere
consumato, già una vita
hai procrastinato: morte apparente
che non si fa dialogo all’infuori di te;
ora vedo il tuo, nuovo, tra i corpi
di oggi dilaniati dalla storia.
* * *
Ti riscaldi con le parole dei poveri
nei secoli dei secoli. Nel pieno di
un silenzio pieno risorgi e palpiti e
io brillo: tu dall’incarnato borghese,
io dal sudore speziato.
* * *
Effetto Bellezza
(a Dario Bellezza)
Lacerato; lo sterno
troppo sottile.
Nulla ti è più congeniale
della morte
e della vita eterna.