Claudia Emerson, in punta di piedi

 
emerson1Dopo Mark Strand, il 4 dicembre 2014, se n’è andata a 57 anni, Claudia Emerson, poeta molto popolare negli Stati Uniti.
La notizia è passata quasi inosservata qui da noi perché Claudia Emerson non è mai strada tradotta, né pubblicata, in lingua italiana.
La sua è stata una carriera letteraria rapidissima, iniziata dopo i quarant’anni. Nel 2006  le è stato assegnato il Premio Pulitzer con la raccolta di versi Late Wife (La moglie defunta) e due anni dopo, il titolo di Poeta Laureata della Virginia (2008-2010), con l’incarico di intraprendere iniziative di promozione della poesia in quello Stato. Autrice di cinque raccolte poetiche e di una di prossima uscita, è stata professoressa alla Virginia Commonwealth University.
Nota di Nicola D’Ugo
Claudia Emerson è una delle voci più sottili, intime e concrete della poesia americana: parlare al passato di grandi poeti non ha senso. E poeta anzitutto della memoria, del rapporto tra ambiente, esseri viventi e manufatti, del loro passaggio e consunzione nel mondo e dei caratteri fisico e psicologico della loro percezione. Gioviale fino all’ultimo, col suo bel sorriso, Emerson non ha mai nascosto la propria lotta col cancro, che ha combattuto dal 2013 fino al giorno della sua scomparsa. Con l’avvento dei social network, ho avuto modo di frequentarla dal 2011 su Facebook, che ha sempre continuato ad usare fino all’ultimo delle sue forze, esprimendo i suoi pensieri, le sue passioni, mostrando attraverso istantanee, fotografie del passato e selfie il flusso della propria vita, compresi i momenti in cui era in ospedale, le preoccupazioni che le venivano dal male che combatteva, senza giri di parole, in modo diretto e trasparente come sono i suoi versi articolati.
Solo a settembre si era scusata per un post con la fotografia di una nave arenatasi, con la consapevolezza che forse la sua «sfida», la sua «challenge», avrebbe portato al naufragio. Non era cosa da lei essere pessimista, e per questo si scusava. Claudia Emerson ci ha introdotti in questi anni nel suo mondo, nei suoi pensieri, con foto di luoghi naturali accompagnate da versi di altri grandi autori, mostrando il rapporto tra natura e pensiero, tra ambienti della quotidianità e le immagini della poesia che ne posson scaturire nella loro emersione rivelatoria: e non uso di proposito la parola «epifanica», poiché la concezione di Emerson non lo era, benché possa risultare epifanica, ma solo di rimando euristico, una sua lirica: la cosa era ed è per lei la cosa in sé in quanto percepita nei tempi, nelle modalità dell’umano nel suo divenire, e non come verità illuminanti spazi macrocosmici. E qui è riposta una peculiarità della sua concezione, che è anzitutto un contenuto cui la forma è assecondata, limata, per evitare a suo giudizio sdruccioloni retorici, inutili e fuorvianti.
emerson2Per Emerson la forma è una modalità necessaria dell’espressione, ma da dominare, in quanto ciò che conta è la traduzione della complessità dell’esperienza umana in forma poetica, la quale è solo, non in senso riduttivo ma contributivo, trascrizione del rapporto con la vita. Detto con parole sue: «In effetti sono affascinata dal corpo e dalle sue variegate bellezze e vulnerabilità. Come poeta attratta da una varietà di forme, la forma del corpo appare come qualcosa di organizzato e inaffidabile, misterioso – e quindi i nostri metodi per comprendere il corpo vale la pena analizzarli – dai raggi X che cercano di cogliere i lavorii interni del corpo ai modelli anatomici progettati per l’insegnamento, alle poesie.»
Tra gli ultimi post di Claudia Emerson, ne ricordo uno in cui mostrava il suo braccio con enormi cicatrici e punti, accompagnata da una battuta in cui diceva, ironicamente, quanto fosse piacevole il sentirseli mettere. Ovviamente non era contenta affatto, ma voleva vivere in ogni istante l’esperienza della vita e registrarla per raffigurarla. Come raccontò in una splendida lettura pubblica nel 2013, in cui lesse la «Infusion Suite» – la suite dell’infusione, una serie di poesie dedicate alle sue sedute di chemioterapia – tali sedute in sé non erano un problema, i problemi fisici venivano giorni dopo, per cui imparò ad usare il tempo della chemio per scrivere. Lungi dal lamentarsi, la sua lettura pubblica che conteneva queste nuove poesie assieme alla lettura di componimenti editi produceva gioia e ilarità, poiché Emerson, grande docente di scrittura creativa, aveva una sapiente mimica comica, un sorriso sgargiante velato da un tenero tocco di timidezza, che contrastava con la lucidità acuta della sua cultura letteraria, ossia della vita, poiché, come si sarà qui capito, letteratura e vita erano per lei diventati inscindibili.
Claudia Emerson era nata il 13 gennaio 1957 a Chatham, un paesino americano nella Virginia, dove è cresciuta, laureandosi poi in inglese all’Università della Virginia a 22 anni. Negli anni Ottanta fece la postina part-time e, al contempo, gestiva una libreria. Fu con questa seconda attività nel negozio poco frequentato che iniziò a passare il tempo libero leggendo; mentre la prima attività le permetteva di muoversi e di godersi i paesaggi. Due libri furono decisivi perché cominciasse a dedicarsi appassionatamente alla letteratura: “Lettera a un giovane poeta” di Rilke e “Journal of a Solitude” (Diario di una solitudine) di May Sarton. Siamo alla fine degli anni Ottanta e per due anni la trentenne Claudia Emerson, inizia a scrivere poesie (una al giorno) e le viene anche in mente di riprendere gli studi, riuscendo a conseguire il Master of Arts in scrittura creativa (tipo la nostra laurea vecchio ordinamento) presso l’Università della Carolina del Nord a Greensboro, a trentatré anni nel 1991. Lo stesso anno riceve, come poeta, una serie di prestigiosi premi nazionali e ancora non ha pubblicato un solo libro: il premio per il miglior poeta delle università dell’Academy of American Poets e il National Endowment for the Arts.
emerson3Gli studi le cambiano la vita. Nel 1994 diventa professore di inglese all’Università di Mary Washington, che rimarrà, fino a poco tempo fa, l’ateneo dei suoi corsi universitari. Il suo primo libro di poesie lo pubblica alla matura età di quarant’anni, nel 1997, per i tipi Louisiana State University Press, che rimarrà l’editore di tutte le sue opere successive, inclusa la prossima. Altro momento fondamentale della sua vita è il doloroso divorzio col marito e il fortunato matrimonio con il musicista e ingegnere Kent Ippolito, la cui moglie era morta di cancro: due persone che, nel 2000, si trovano a rifarsi una vita sentimentale dopo un necessariamente strascicante e lacerante duro colpo. Con lui Claudia Emerson collaborava anche in ambito musicale. Come ebbe a dire in un’intervista di NewsHour nel 2006: «anche se non tutti hanno perduto il proprio partner a causa di un divorzio, di una rottura sentimentale o di una morte, credo che tutti si siano detti addio strada facendo. E ho sperato che la gente fosse in grado di porsi su questo piano.»
 
Il 2006 è l’anno del coronamento di Claudia Emerson nel Pantheon della poesia americana, con l’assegnazione del Premio Pulitzer per “Late Wife” (La moglie defunta; o trapassata), una raccolta poetica in cui la sua voce si rivolge all’ex marito, al nuovo marito e a se stessa, con un’intimità documentaristica, fatta di oggetti ritrovati, di segni della vita spezzata che restano tracce visibili di chi non c’è più, se osservate con minuta attenzione. Sono qui soprattutto belli i versi incentrati sui ritrovamenti degli oggetti della moglie defunta del nuovo marito nella casa di lui in cui la nuova coppia continuò a vivere per tre anni, prima di trasferirsi altrove. Capelli della defunta ancora attaccati alla spazzola, per esempio, poiché, di là dalla contagiosa e in apparenza mite ilarità di Claudia Emerson, la sua scrittura non trovava facili ostacoli che la inibissero, e quando parlo del suo carattere di conservazione della memoria lo intendo in senso forte, fatta di raggi X e fotografie, ritratti, lettere e agende, specchi e sedie, dettagli fisici delle persone, abbigliamento, espressioni umane, come, per esempio, la raffigurazione in poesia del ritratto di una sconosciuta vissuta chissà quando, che Emerson osserva ed interpreta psicologicamente al di là della superficie del dipinto, cercando di indovinare la donna in carne ed ossa nel momento in cui venne ritratta.
Nella sua franca schiettezza espressiva, Claudia Emerson coglie, come proprio senso di colpa, anche il fatto che la sua felicità derivi dalla morte di un’altra donna, la prima moglie di Kent Ippolito. “Late Wife” è, senza ombra di dubbio, una raccolta formidabile, tra le più convincenti e comunicative che io abbia letto negli ultimi decenni della produzione americana.
Riguardo al suo ultimo anno e mezzo di vita, Emerson lo diceva apertamente: voglio vivere questa esperienza, questa «sfida», come la chiamava lei, con il cancro fino in fondo, con curiosità, e mi è difficile, impossibile non viverla ed esprimerla col dovuto distacco che necessita l’espressione poetica perché gli altri, i lettori, possano farne tesoro. E per «lettori» intendeva anche e forse soprattutto gli scrittori stessi, molti dei quali sono stati suoi allievi e lettori attenti dei suoi versi. Questo era il senso del suo rapporto con la vita e la letteratura, che, scopertala come cosa propria in età matura, diventò il suo modo di vivere pienamente, a prescindere dagli esiti solo parzialmente prevedibili della vita personale, così come intensamente aveva vissuto, fin da bambina, le proprie esperienze e i propri dubbi, senza sapere per tre decenni che avrebbe potuto farli uscire da sé con una maestria di rara espressività.
emerson_strand(Nell’immagine qui accanto, la Emerson è con Mark Strand)
La dizione meticolosa nell’uso delle parole, del fraseggio, l’osservazione del rapporto tra gli oggetti ereditati e il rivedere se stessa al passato, o mettersi nei panni degli altri, vivi o morti, esseri umani o altre creature, col dubbio che l’operazione comporta, fan sì che la poesia di Emerson risulti per molti versi innovativa proprio in ragione di un ribaltamento prospettico rispetto agli stili apertamente ‘innovativi’ e spesso anche variegati di autori notevoli come Strand, Simic, Charles Wright, Corn o Franz Wright. Emerson trova i valori universali dell’uomo nella concretezza della vita, nei pensieri che attraversano la quotidianità, negli oggetti che l’accompagnano, negli esseri viventi della natura che incontra, osservandoli e registrandoli, con cura ed eleganza, senza orpelli, inutili zavorre e zeppe retoriche: vigile, decisa e precisa. In questo, a mio avviso, Emerson ha riaperto una strada alla poesia americana i cui esiti sono naturalmente a noi ignoti, un modo per trovare l’universale nell’oggetto, per constatarne il valore e registrarlo, anziché partire dall’oggetto come simbolo universale e illuminante o usarlo ad exemplum del genere a mezzo della specie e del particolare: rifiutando a suo modo sia la deduzione, sia l’emblema e sia il prestito.
In questo, ma non nel dettato stilistico quasi prosastico, con enjambement aspri (o sirrematici) del tutto svincolati dagli effetti tradizionali dell’enjambement (come lei stessa naturalmente metteva in luce, da raffinata teorica della poesia che rinunciava alle sue consunte retoriche, dicendo: «il mio amore per l’enjambement aspro può aiutare i lettori a muoversi attraverso frasi piuttosto lunghe disposte su più distici»), Claudia Emerson ha aggiunto un contributo importante sulla linea tracciata dalla a suo tempo ignota Emily Dickinson, inclusa la forma epistolare dei versi (Late Wife ha origine da lettere vere e proprie che Emerson scrisse all’ex marito e al nuovo, per prender successivamente forma sintetica in poesia); abbandonando però rime e pararime tipiche di quel genio di ogni tempo che fu Dickinson e dei suoi epigoni, e rinunciando al verso libero di diversa lunghezza, si è calata, per converso, nella compostezza della dizione poetica fondata sulla dimensione fisica e materiale della terra e dell’esperienza, in un tentativo di far emergere l’autocoscienza di sé nell’ambiente, piuttosto che proiettare la propria singolarità emotiva, razionale e visionaria sugli oggetti, rigettando a suo modo una tendenza metafisica e simbolica che va per la maggiore, da molto tempo, nella poesia americana.
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(Nell’immagine la Emerson è accanto a un vestito di Emily Dickinson)
In effetti, Claudia Emerson era la prima a riconoscere di essere un’osservatrice che non butta via preventivamente niente, d’esser votata a registrare attraverso i suoi versi il transeunte, ciò che di vivo e materiale resta e che capita, soffice o spigoloso e ruvido, del passaggio umano nel mondo. Per lei il materiale «velenoso» della chemio e un ramo rilucente sul suo fogliame intravisto da una finestra hanno lo stesso valore e la stessa forza espressiva, vieppiù accostati, in uno stesso contesto del quotidiano. È stata poeta di ciò che è perduto, di ciò che va perdendosi, consunto nel movimento tra gli altri oggetti, di ciò che fu vivo e utile e che fa la storia umana e dell’universo che gli uomini vorrebbero, piuttosto arditamente, assoggettare a se stessi come nucleo percettivo e dominante del mondo: «Credo che tu possa dire che Robert Frost abbia esercitato un’iniziale influenza e continui ad esercitarla in maniera duratura nella mia prospettiva del mondo naturale e nei modi in cui lo raffiguro in poesia. Peraltro per molti anni ho vissuto in un paesaggio rurale, in cascine molto vecchie che avevano instaurato dei rapporti propri con le creature che volevano entrar dentro e una volta entrate dentro volevano ritornarsene fuori. E in tutta la vita sono stata affascinata dalla coscienza degli animali e sono stata portata quantomeno a fare lo sforzo di comprendere tale coscienza. Condividiamo questo pianeta con creature di tutti i tipi che noi esseri umani tendiamo a vedere non come altri ma come inferiori, e sono stata sempre attenta a quello che anche da bambina vedevo come una disarmonia con il mondo “naturale” più in grande di cui facciamo parte e nel quale siamo in disparte.»
Il suo approccio poetico si è aperto in modo mirabile e memorabile una strada su quel «movimento degli oggetti» che Lukács riservava, peraltro acutamente, all’universo del romanzo. In questo non è stata né la prima, né l’unica nello scenario contemporaneo, ma la modalità in cui l’ha espressa è singolarmente sua. Lo sconfinamento nel territorio del romanzo realistico o «storico», racchiuso in poche righe capaci di catalogare oggetti della quotidianità e il loro uso in modo documentaristico, per poi farli muovere sull’asse temporale e della coscienza è un suo modo, che la discosta dimolto da altri poeti realistici e cataloganti come Elizabeth Bishop e Sharon Olds.
emerson_rita_dove(Nell’immagine la Emerson è con Rita Dove)
Che Claudia Emerson sia stata considerata una poeta del Sud ed accostata al realismo psicologico e distaccato di William Faulkner rientra in un tratto comune, ma che tale dimensione non fosse già presente in una voce del New England come Emily Dickinson, del New Jersey come William Carlos Williams e non sia tutt’ora presente nella canadese Margaret Atwood, la dice lunga, da un lato, su quanto le etichettature critiche americane trovino spesso il tempo che trovano e, dall’altro, sulla nuova linea tracciata da Emerson nel ripristinare il rapporto tra poesia e concretezza della vita, rifiutando – questo è alquanto palese – quasi in toto le influenze delle maggiori correnti della poesia americana, da T. S. Eliot a Wallace Stevens, dai confessionalisti alla Scuola di New York, ai poeti beat, sovrappostesi sempre più con le avanguardie figurative e musicali, simboliche ed astrattiste, del Novecento, e ripristinando, Emerson, il potere della dizione diretta e realistica, con riferimento semmai alla pittura figurativa (per esempio, di un Wyeth) così come fece Williams a suo tempo.
I cinque volumi di poesia pubblicati da Claudia Emerson sono: “Pharaoh, Pharaoh” (1997); “Pinion, An Elegy” (2002); “Late Wife” (2005); “Figure Studies” (2008); “Secure the Shadow” (2012). Il sesto volume, intitolato “The Opposite House” (La casa di fronte), uscirà nel 2015. I suoi libri non sono mai stati tradotti in italiano.
«Cerchiamo sempre dei modi per proteggere l’ombra, per conservare la memoria di coloro che abbiamo perduto» disse. Oltre a un grande vuoto, Claudia Emerson ha lasciato dietro di sé un grande patrimonio letterario, il cui insegnamento lo si può cogliere nell’immediato, ma la cui fortuna presso i posteri va al di là delle nostre limitate possibilità critiche.
 
TRE POESIE DI CLAUDIA EMERSON
Traduzione di Nicola D’Ugo

 
AGENDA
 
Questa è la stagione in cui lei è morta, e tu
l’hai conservata, vedo, sotto le scale
in una scatola piena di fotografie: la sua agenda
dell’anno scorso, il calendario una narrazione
che non intendeva scrivere. Nel reticolo
dei giorni, vedo che era sua abitudine annotare
a matita quel che avrebbe potuto cancellare, spostare, riservando
il nero indelebile a ciò che non poteva cambiare:
il tuo compleanno, il suo, il vostro anniversario. E con
la stessa mano decisa, la malattia cominciò
ad eclissare quest’ordine, ma lei non cancellò nulla.
Ora da sotto i giorni nei quali l’ospedale l’aveva reclamata,
le sue prime parole latenti riaffiorano, deboli ma certe
come le immagini delle costole che cullano i polmoni lattei, la carne dimenticata,
come acqua che puoi vedere fino al fondale.
 
DAYBOOK
This is the season of her dying, and you
have kept it, I find, underneath the stairs
in a box filled with photographs—her daybook
of that last year, the calendar a narrative
she did not intend to write. In the grid
of days, I see her habit had been to record
in pencil what might be erased, moved, saving
the indelible black for what could not change:
your birthday, hers, your anniversary. And in
that same decisive hand, the disease began
to eclipse this order, but she erased nothing.
Now from beneath the days the hospital claimed,
her first, latent words emerge, faint but certain
as images of ribs cradling milky lungs, the flesh forgotten
as water you can see through to the bottom.
[da Late Wife (La moglie defunta; 2005)]
 
 
INCENDIO DI UNA CASA ALLA FINE DI APRILE SULL’INTERSTATALE 81
 
Da un po’ m’ero chiesta la sua provenienza,
la colonna di fumo rigidamente torbida visibile
per miglia, non alterata dal vento
che aveva soffiato tutto il giorno sulla strada
col polline e le api e una sottile neve di primavera
che salava i campi che ritrovavano di nuovo il verde, con i boccioli rossi
dei cercidi lividi sotto la neve. Il tempo di arrivare sul posto
e il fuoco era una parte invisibile della cascina
di legno a due piani, ancora se stessa, totalmente
integra, fatta di: assicelle di rivestimento, portico e tetti bianchi,
porta principale, cornici delle finestre – coi vetri intatti –
comignoli che sarebbero sopravvissuti, calmi
dentro la splendida adergente estasi delle fiamme
in corsa costrette a star diritte. Sapevo che questo era nulla
rispetto all’esito peggiore da qui a un’ora
quando la gravità del fuoco a ritroso
avrebbe ceduto alla vecchia consuetudine
del crollo, al setaccio della cenere che scende
lenta su tutto ciò che non brucia: cardini, chiavistelli,
pomelli, chiavi ancora inserite nelle toppe, vento
che passa nell’aria senza finestre. Ma questa
era inquietudine non ancora afflizione. Perciò rallentai
ma non mi fermai a guardare la tragedia di qualcun
altro bruciare del tutto oltre a questa breve, quasi
bella sospensione che non cambia nulla.
LATE APRIL HOUSE FIRE ALONG INTERSTATE 81
 
 
I had wondered for some time about its source,
the smoke fixed-roiling columb visible
for miles, unchanged by the wind
that had all day blown across the road
with pollen and bees a fine spring snow
salting fields newly greening, the redbuds
livid beneath it. By the time I came upon it,
fire was invisible part of the two-story,
woodframe farm house—still itself, completely
whole, composed: white clapboard, porch and roof,
front door, window frames—glass panes intact—
the chimneys that would survive, calm inside
the flames’ straight rush—contained, bright rising
enravishment. I knew this was nothing
like the worst resolve of another hour
when the backward gravity of fire
would have relented to the old habit
of collapse, sift of slow ash down
on all that does not burn—hinges, latches,
doorknobs, keys still sunk in the locks, the wind
passing through windowless air. But this was
anguish not yet grief. And so I slowed
but did not stop to watch someone’s else
tragedy burn past this brief, nearly
beautiful suspension that changes nothing.
[da Secure the Shadow (Proteggi l’ombra; 2012)]
 
 
SUITE DELLE INFUSIONI
I.
Lei indossa un camice protettivo per questa qui,
azzurro cielo, simile a carta crespa. Mi chiede di nuovo
di controllare nome, data di nascita,
verificando quel che ho da ridire sull’indicazione
del sacchetto di plastica che mi mostra
prima di appenderlo all’ingiù, dal contenuto
puro fino all’impossibile, benigno a vedersi
come acqua pura che scorra nel tubo più puro:
apparentemente ombelicale quel filo quasi invisibile.
Gli alberi fuori dell’alta finestra si mostrano
ancora gravidi dell’estate, dei voli dei corvi – più
simili a ruzzoloni di ubriachi – qualcosa da guardare
mentre sono d’accordo che sì, sì, questa sono io.
INFUSION SUITE
I.
She puts on the protective gown for this one,
sky-blue, crêpe paper-like. She asks again
for me to verify name, date of birth,
checking what I say against the information
on the small plastic bag she shows to me
before hanging it upside down, its contents
impossibly clear, benign looking
as water coursing the clearest bore—
umbilical-like that almost invisible line.
The trees outside the tall window appear
still full with summer, crows’ flight—more
like drunken tumbling—something to see
while I agree that yes, yes, this is me.
[di prossima uscita in The Opposite House (La casa di fronte; 2015)]
 
Lettura pubblica di Claudia Emerson alla Sewanee Writers’ Conference nel 2013 (in inglese):
http://youtu.be/AxWeP9uAri4

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