Lucrezia Lerro, "Il corollario della felicità"

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Recensione di Guido Monti
Nella nuova raccolta poetica di Lucrezia Lerro “Il corollario delle felicità”, edito da Stampa 2009, ciò che colpisce è la compattezza della cifra esistenziale sottesa alla pagina. Nei personaggi parla il tempo della distanza inteso come memoria addolorata per qualcosa che in un altro luogo poteva essere e invece non è mai stata.
C’è come un velo di maia che viene dal passato e adombra il presente di ogni figura, nelle sue determinazioni psicologiche ma anche nelle micro vittorie quotidiane: “Meglio star qui o vivere al paese?/…/Resto a Torino quest’inverno,/…/Io mi nascondo, mi rovino le mani/ma cerco di salvarmi/”. Tutte le voci del libro hanno un fondo toccante perché sofferente e come non associare Giuseppe migrante per necessità, ai grandi personaggi del neorealismo di narrazione ma anche cinematografico della metà del secolo scorso, coi loro transiti disperati: “Solo per le strade di Torino/cerco un po’ di allegria,/…./rigiro tra le mani un bottone/del cappotto ereditato dal macellaio. “uomini fragili come lo zio Icio, che lontano dalla sua terra, da un letto d’ospizio ci parla con tono disperato dentro però certa allegria di naufragi: “…./Non abbiamo né radice,/né sconti, né buoni da spendere,/né lacrime da trattenere.//…”.
Una voce quella di queste pagine, che dal secondo millennio torna a dar fiato alle tante di un novecento perduto; storie particolari che divengono rivolgimenti comunitari. Ecco poi i fantasmi del fumatore mai andato via dal paese e la rossa, una erinni travestita da madre, avara di amore, rinchiusa in un sé oscuro e poi gli sprazzi di odori e giochi di prima, in luoghi da incanto fiabesco: “Volevi farmi nuotare/nel mare di Palinuro./Il primo tuffo dal pedalò/nella grotta azzurra./…” mischiati però al nero più assoluto di certe relazioni, ed è qui molta originalità poetica della Lerro: “Ti ho perdonata nel sogno/…Eri sdraiata/ sul letto…e sola./ Nascondevi le diecimila lire/…/ dicevi non sei brava come dici./Te la mangi tutta la pensione./…”.
Si badi questa scrittura, ci restituisce il tratto di affetti e lasciti emozionali denudati proprio da una lontananza incolmabile che ammanta il presente di angoscia e ovunque ci si trovi, anche nella Milano di certi amori possibili, tutto sembra strisciare nel sottosuolo, nella impossibilità di ogni relazione ad essere pienamente: “…/Svuotavo il cuore dall’Inglese/di via San Vittore che piangeva/per i molti ripensamenti./…”. È come se certi legami famigliari, recisi per la loro dose di intollerabile negatività, tornassero a minacciare ogni possibile futuro di chi ne è fuggito. Aleggia nel libro questa memoria verghiana, ovunque si vada, non ci si libererà mai dal carico del proprio passato: “…/Conservo il biglietto/nella tasca del cappotto/noi stiamo bene e ti pensiamo,/torna prima che moriamo.”  
Ecco allora certo esistenzialismo che percorre il libro, la vena di precarietà e lo stesso dialogo-monologo interiore dell’ultima parte, non è che tutto questo sprofondare e riemergere di visi sempre però al di sotto di una linea d’ombra tra barlumi di poca gioia, sprazzi di lucine cittadine di un perdurante abisso grigino. Ecco è un esistenzialismo questo di matrice nichilista, a volte per una flebile accensione, di matrice gnostica e mi tornano alla mente le parole di uno dei grandi personaggi Dostoevskijani che dice: “…la vita intima è più importante di ogni appuntamento con l’uomo che quindi può essere disatteso…”. Ecco in questo libro compiuto, la vita intima della poetessa si rivolta su se stessa e poi si allunga sulle relazioni tenendole però a bada; quella vita intima che nella sua formazione ha matrice segreta e che ci urta, destabilizza, ricordandoci quel buio primordiale da dove tutti veniamo e dove per un nulla possiamo tornare.
(Recensione uscita su “La Gazzetta di Parma” venerdì 13 giugno 2014)
 
 

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