Nicola Bultrini, "La specie dominante"


FRONTESPIZIO BULTRINI[1]
Dalla prefazione di Franco Loi

Due sono gli aspetti di fondo di questo nuovo libro di Nicola Bultrini: da una parte la memoria delle persone e dei luoghi amati, dall’altra il calarsi nell’esperienza del nostro tempo, che egli esprime con un verso, “la notte ha sapore d’acqua amara”; un aspetto, quest’ultimo, molto significativo se ci rendiamo conto di vivere nel buio della mente; strano, ma non sorprendente, che proprio l’impiego onnivoro della mente nella pretesa di conoscere la nostra vita e il mondo in cui viviamo sia stato chiamato “il secolo dei lumi”. È proprio la presunzione di aver ridotto il destino dell’uomo e del mondo a un sistema logico, detto ideologia, a far sparire la luce della speranza dalla nostra vita. Nicola Bultrini esprime molto efficacemente con le sue parole il senso personale del nostro precipitare nel buio: “Guarda quant’è grande / il mio corpo / quanta carne e sangue / è un peccato tenerlo tutto insieme / occupare lo spazio / vorrei farlo a pezzi / e regalarlo”.
Questo libro sembra dunque mostrare due mondi. Non è il dolore o la fatica o la povertà, il bisogno di pane il male peggiore, ma, come diceva padre Turoldo “l’assenza d’amore e di speranza”. Questo dice il poeta con la sua parola.
 
PROSPETTIVA ANGOLARE
 
Sembra una lingua straniera
negli accenti e le vocali a strappi.
Ma suona familiare, forse per l’aria
i rumori profumati.
Eppure mi mancate tutti immensamente.
Ed è in queste zone franche che si riassume
l’amore. Non quello solenne delle promesse
ma l’altro, compiuto nelle attese.
Allora mi accontento di sapervi
nei consueti itinerari. Immaginarvi
sottratti alle furie del maltempo
nell’aria meridiana di lacerato vento
infine benedetta e fortunata.
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Se rallenta la pioggia possiamo uscire.
Ci sarà la fiera in fondo al viale
un’euforia di festa, un calpestio,
bambini non correte, attenti al carro.
La ragazza torna a offrire
pietanze agli ospiti in ritardo
e soprattutto c’è il lanciatore di coltelli
la cui priorità è balistica perfetta.
Hai ragione, i bambini nascono
nel bene. Ma poi s’incontrano
e si fanno uomini e donne
abitanti una città
di plastica e passione.
Oggi ricordi tutto come un sogno
cosa rimane allora, ogni nostro movimento
è dubitare?
Però la mano mi tenevi e io sapevo
cos’era nel destino da temere.
**********
Nel novembre del sessantacinque
dopo mesi e ventiquattro
ore d’attesa, sono nato.
Mia madre, non ha sofferto.
Mio padre, chiamato all’autoradio.
Io mi attengo ai racconti dei parenti.
Che ero lungo e teso come un fuso
gli occhi vispi di brace e neri.
L’autunno è nello stomaco
perde negli anni la misura.
Incanutisce il capo e capita per caso
di stare dentro il senso
degli eventi.
***********
Poi più passa il tempo più torna
con la malinconia l’estate.
Quel farsi poveri e dolenti
nella feroce giostra.
Ma tu sai cosa ci serve,
un’altra misura delle cose
non l’infinito piccolo che ci contiene.
Come se penso alla guardia militare
l’altana oscura
che m’ascoltava bestemmiare
nell’ansia ingenua di partire.
C’è sempre nei gesti un pensiero
che arriva da lontano.
Non so per quanto ancora, ma vivo
la speranza covata per l’infanzia.
********
E poi mi accorgo di abbassare la voce
per chiedere permesso, un calice di bianco,
pane, cose negate neppure ai mendicanti
benché io sappia muovermi tra i vicoli
vorrei non risultare
agli sguardi degli altri
vorrei per me le rughe dei mattoni
dal mare l’onda s’alza
dove le fondamenta sono basse
il cielo gonfia l’aria di sospiri
ma io voglio restare
immobile non visto
un osservante.
***********
L’aroma del caffè bevuto in piedi
lo sguardo annoiato nel barista
dal retro voci che non sai o non comprendi.
Capita allora immaginare
nella vita un angolo in penombra
che apra l’uscita in sicurezza.
Credi che il diritto
sia solo un compromesso
per approssimazione
alle metafore del vivere.
Ma la verità passa di mano,
moneta fuori corso
di cui speriamo nel tempo
un minimo valore.
***********
Io so che mi abbandoni ogni volta
che saluti augurando il bene
e la pazienza.
Mi osservi con le mani
nell’aria che si muovono
e tagliano lo spazio di respiri.
Sciolta la treccia bruna al centro
della stanza rimani a pettinare il vento.
Amore mio, che tempo e che spavento.
Noi siamo il nodo al pettine
e in questa lontananza non resta che pregare.
**********
Sto vivendo per induzione
vedi come ti penso e scrivo.
Mi chino sull’immagine di te più cara
e ti innamoro come aurora di novembre.
Il poema della donna invece è tutto
con la sua esistenza, liquida, la notte
fino all’alba, quando il corpo
assume un peso grave
dove nasce il dolore del mondo
dove si sogna e si nutre sognando quel poco
di destino che abbiamo meritato.
**********
E’ un attimo di perdizione
nel gesto dell’amore, smarriti i corpi
in un pensare profondissimo.
Così fu, credo, la creazione
fatta per guardare il mondo
e dire, come voce nel torace.
Suona la sveglia all’alba, la casa
negli odori che riposa.
Anche noi obbediamo a una luce
nella foschia che forza l’inverno
e si procede per tentativi, strappi di motore
per imparare a vivere un’ampia prospettiva
poi capita talvolta che ceda la ragione
ci abbandoniamo alla vertigine
la vita nell’abisso, assolutamente.
*******
Esattamente così, nel sottile
lasso di tempo tra il desiderio
e la passione, noi eravamo.
Dopo l’ultimo sospiro, lo sguardo
un poco indietro trova nella stanza
un cono d’ombra. Gli elementi hanno un loro
equilibrio su cui poggiano le nostre vite.
La pioggia fuori
il tratto incerto, il vizio della forma
che rende il sistema incompiuto ma sublime
nella contemplazione.
Ama per me questa certezza
dei sentimenti. Poi se chiudo gli occhi
e mi nascondo al tuo dolore
abbi la forza
di amare il mio silenzio.
Da: La specie dominante, di Nicola Bultrini, Nino Aragno Editore, 2014
NICOLA BULTRINI è nato nel 1965 a Civitanova Marche (MC), vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi “La coda dell’occhio” (Marietti, 2011), “I fatti salienti” (Nordpress, 2007). La sua raccolta “Occidente della sera” è presente nell’VIII° Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2004). Per la poesia ha vinto il Premio Montale, sezione “Inediti”, edizione 2002. Sue poesie e scritti vari sono stati pubblicati su riviste (tra cui “Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Galleria”). Alcune traduzioni di poeti iraniani contemporanei sono state da lui curate con Chiara Riccarand e pubblicate su “Poesia” e “Testo a fronte”. Alcuni racconti sono stati pubblicati su “Il Racconto”. Scrive per il quotidiano “Il Tempo”. Come studioso della Prima Guerra Mondiale, ha pubblicato per Nordpress Edizioni vari saggi, tra cui: “La grande guerra nel cinema” (2008 – prefazione di Mario Monicelli); “Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti” (2007 – prefazione di Andrea Zanzotto); “Gli Ultimi – i sopravvissuti ancora in vita raccontano la Grande Guerra” (2005); “L’ultimo fante – la Grande Guerra sul Carso nelle memorie di Carlo Orelli” (2004).

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