Francesco Iannone, "Poesie della fame e della sete"

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Nota di Loretto Rafanelli

Francesco Iannone è un giovane poeta salernitano (del 1985) e Poesie della fame e della sete (Giuliano Ladolfi Editore, pag. 70, 10 euro) è la sua opera d’esordio. Diciamo subito che inizia bene il suo percorso poetico, sostenuto anche da una preziosa introduzione di un poeta e critico di peso come Giancarlo Pontiggia, il quale mette in rilievo la maturità espressiva dell’autore, che alterna “gioia e ansia, letizia e sofferenza” e richiama a un certo francescanesimo. Ed è tangibile questo ricorso, si vede in varie poesie, in particolare in ‘Preghiera dell’uomo semplice’: “Gesù mio fa’ in modo/ che dalla pioggia si salvino gli ulivi/ che il vento si plachi e più non faccia/ male agli aranci…/ Che quell’uccello via se ne voli/ e quel vecchio senza casa e ombrello dimori…”.
La poesia di Iannone si lega strettamente al paesaggio della sua minuta patria (“Per me camminare significa/ tenersi sempre/ nel corso d’acqua/ ricavato nella terra/ da secoli di pioggia”), ricca e preziosa, che egli guarda con uno stupore quasi fanciullesco: “Vedo il miracolo che accade quando/ sollevando una radice, a lato del legname,/ le viole vivono ignorando il freddo”. La natura amica che è il delicato incanto che ci sta accanto. Ma lannone fa di più, mischia con perizia i registri e coniuga la natura, quella amica della sua terra, all’amore, con la premura di una visione che vede l’insieme delle cose, comprese le ferite che ci attraversano (“C’è qualcosa…/ che somiglia al suo dolore/ si nasconde accanto a un tronco/ grande di pino secolare”).
La raccolta ha presente in molti versi un ampio discorso amoroso, l’amore scava nell’album della giovane memoria del poeta e vive nel presente fecondo di emozioni, ed è questa, penso, la versificazione del poeta con maggiore intensità, una poesia matura di suggestioni e incontri che lasciano il senso di una struggente apertura: “Non c’è bisogno, amore,/ di parole prive di ricordo/ che non aiutano a mediare/ tra orecchio e mondo/ il suono del frusciare a voce bassa/ di una siepe scossa dal vento o il lavorio/ delle onde che svuotano le rocce e scavano caverne”, o ancora: “E’ buio, amore, e sulla strada/ i fari delle auto sono coriandoli/ che macchiano l’aria/ così la sera non piange, non dispera/…/ Come ci somiglia, amore,/ questo mendicare delle cose verso la collina/ dove il primo sole va a toccare/ la meraviglia degli ulivi e delle viti la veste/ vecchia di una contadina/ dagli occhi duri, dal cuore di creta”. L’amore si intarsia con la natura, con la madre terra, con le donne che, anziane, hanno vissuto le stesse emozioni, o ancora le vivono (rispondeva Luzi a una sciocca domanda sul suo slancio d’amore di quasi novantenne: “perché non posso ancora amare?”).
Abbiamo in tal modo una poesia d’amore mai semplicemente tesa ad una misera, per quanto nobile, invocazione, piuttosto una poesia ‘appoggiata’ a qualcosa che la sostiene, come fosse l’equivalente di una dimora forte, di un rito alto, antico. Iannone non esaurisce tuttavia lo sguardo alla natura o all’amore o agli animali (sono di una sensibilità unica i tanti versi dedicati agli uccelli, al cane nero, ai poveri mutilati insetti), egli si muove nel solco di un’attenzione particolare al disagio che imprime la nostra società, che egli avverte come presenza inquietante, difficile da rimarginare; è un disagio esistenziale, ma pure avverte la necessità di opporre una, difficile, resistenza ai tempi infausti che ci inseguono: “La resistenza al nulla è una lotta/ che lascia ferite e tagli/ è un labbro squarciato da un pugno,/ un figlio espulso…/ Ci sono case che accolgono chiunque/ e finestre che restano chiuse per sempre”. Ci sono intonaci screpolati, tracce disperse, un ‘tarlo che rode’, ma pure, dice infine il poeta, nello slancio più deciso, e appoggiandosi ad una verità forte che esce dal cuore e contrasta la deriva degli eventi: “Volerti bene mi sembra più facile ora, naturale”.
Francesco Iannone, “Poesie della fame e della sete” Giuliano Ladolfi Editore, 2013

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