Lucetta Frisa, “Sonetti dolenti e balordi”

Letture
a cura di Luigia Sorrentino

Recensione di Nadia Agustoni

Il titolo “Sonetti dolenti e balordi” CFR Edizioni 2013, prefazione di Francesco Marotta, induce già a una riflessione e ci viene incontro quasi subito Marotta quando parla di: “modalità balorde, sottilmente e deliberatamente sovversive, refrattarie all’imperativo di poetiche organizzate unicamente in funzione della trasparenza…” (p.6). Libro coraggioso, va subito detto, questo di Lucetta Frisa, in cui il dolore è presenza costante ma mai nemica. C’è nei sonetti di Frisa tutto il mistero del dolore, ferita che nel suo farsi crepa, ci dà sguardo da dentro e mostra non il nostro dolere, ma “l’immenso dolore di ogni cosa che scuote l’aria”. (p.11) Nemmeno il Cristo è salvato da questa infermità, la croce portata fino all’abisso, ci dice il suo amore, la sua “follia d’amare” e ce la indica come umana, così umana che trascina con sé la morte, ma in questo doppio di amore/morte in questo “squilibrio” apparente c’è il segreto durare del mondo, la sua forza.

In una serie di “Sequenze”, capitoli di un narrare per quadri dove le immagini si susseguono incalzandoci, l’autrice delinea un discorso dove il viaggio dell’anima è insieme mistero e presenza del reale. La vita è fedele a se stessa proprio nel suo darsi dal basso e nel sigillo che pone non tanto sulla fine, ma sul dopo, mai eludibile, per la domanda che affiora, pur senza essere nominata. Viviamo un’incertezza che è la faccia del sacro; solo i nostri sensi barbari ci inducono a scambiare la stabilità per dono. Viaggio dell’anima è uscire da sé e subire l’offesa, l’abbandono, la morte e in questi passaggi conoscere il qui del Nirvana, unico paradiso terrestre, mondo in cui mai più saremo: “un altro di me non nascerà” (p.41).

Non un altro è ciò che nasce, ma a noi arriva un volto che nel suo cadere, nel suo fallire per amore, ci porta al mito e alla polarità Puer/Senex che passa sulla pagina di Frisa con la sua vertigine, il suo scrollarsi di dosso il vecchio e insieme col suo ferirsi, ma anche con la fermezza di un sapere conquistato, di un logos che scarnifica il significato e lo porta con sé, ne fa medicamento. La ferita è allora un anelito al volo, crepa da cui andare, staccare, porsi altrove e insieme traccia di quella “nostalghia”, mancanza di un luogo e della casa. Il sogno di raggiungerla, che anche noi abbiamo, è perché la crediamo riparo, il “dove” si vuole tornare. Scopriremo col tempo che il riparo è il viaggio che si compie e rende nuovi, liberi dalle cose, ma non dal canto.

Il canto è in questo libro quello che collega le voci: ” il canto fermo/ strappato ad Orfeo/ si curva nelle nostre voci/ a contrappunto del dolore” (p.58), senza che nulla, nemmeno l’estate interrompa il passo e invocando il sole, diventa quasi un richiamo a Goethe nel suo chiedere più luce. La poesia finale, in tre parti, è dedicata ad Alejandra Pizarnik e i versi richiamano fortemente la dinamica Puer/Senex cui più sopra accennavo, proprio nell’alternarsi di immagini crude “Vedi, io vivo con un coltello” (p.66); e nel testo seguente ” Non c’è nulla di morbido al mondo” e a chiusa “Volevo l’estasi/ il perpetuo orgasmo tra terra e parole” (p.67). Ci domandiamo, a lettura terminata, se il logos, nella sua accezione più vera, non sia la porta di quel mistero che tale resta e induce l’autrice a una visionarietà tale che gli ultimissimi versi sembrano strappati a un sogno ad occhi aperti, a un desiderio che nella sua essenza è libertà.
*

 

sequenza dell’inconclusione

Dove andiamo? Sempre a casa.
Novalis

L’inconclusione appartiene allo spazio
come l’imperfezione e la scia dei suoni
e dei lunghi sguardi il senso non fermato
in un solo punto. È là che abitavano
gli dèi l’atmosfera il vapore dei versi
le giuste parole di tutte le lingue
e forse la fine di ogni strazio?
Ribaldo il sole che illumina tutto
è la sua legge e non si sa quanto duri
ma segna il tempo delle creature
e dei pianeti. Sempre ci sarà un astro
sfasato a confonderci le origini
e i calcoli. Il vuoto è necessario
come l’andare a capo e il suo mistero.

*
Solo dall’inferno del dolore sento
il serpentino muoversi di cose
umane e inumane nate già prima e oltre
il dolore e rimaste in quella ferma età
senza giorno o notte, divinità
sparse nascoste dappertutto che il lutto
rivela e scortica fino alla nudità.
Non solo lo stravolgimento non solo
questa facile teoria ma la materia
è labirinto di spazio e profondità
riflessa dentro il solco dell’orecchio
che ti avverte delle altre dimensioni
chiude le porte apre gli inferni
e sei tu che giri a vuoto o il mondo?
*

In fondo al labirinto quale verità?
Il suono più alto più basso chiamato
silenzio. È lì che il mondo inizia a ruotare
e ci trascina via insetti senza ali
controvento? È uguale per me il punto
da cui cominciare: là ritornerò
di nuovo. È Parmenide a parlare
lui vive a Elèa e ho raccolto
brandelli del suo corpo giunti fino a me
e come lui voglio ascoltare il cavo
suono del nulla e non chiedere
altro che non capisco. Ho bisogno
di consolarmi con quella luce
del sud che in me continua a scintillare.

3 pensieri su “Lucetta Frisa, “Sonetti dolenti e balordi”

  1. Cara Lucetta,
    una vita di contemplazione non e’ vita in movimento, e’ stasi.
    L’immobilita’ affascina coloro che cercano l’inesistenza e la sua vicinanza…il prima dal grande respiro… ma il movimento, la scoperta affascina tutti i paralizzati che aspirano al vivere, al correre, al fare, all’amare.
    Noi poeti cerchiamo in tutte le direzioni e tutte le direzioni affascinano. Possiamo rimanere incantati?

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