Alessandro Niero, A.B.C. Chievo

Alessandro Niero, A.B.C. Chievo
Prefazione di Massimo Raffaeli
Passigli Editori 2013
pp. 80, € 12


Recensione Chiara De Luca

Fine traduttore dal russo, Alessandro Niero è abituato al lavoro umile sulla materia verbale da plasmare in senso e suono, alla dura guerra con lessico e sintassi per dare forma coerente al verso, obbedendo a quella melodia segreta che il traduttore, così come il poeta, intende nell’orecchio, e che deve trascrivere, obbedendo a un ritmo interno naturale, a una musica che raffina il tempo, perché il lettore possa a sua volta percepirla. La distanza strutturale e semantica della lingua russa dall’italiano non lascia inoltre appigli al traduttore, che si abitua a piegare il linguaggio, a provarlo fino ai limiti, fin quasi oltre i suoi confini, a reinventarlo. Artigiano della parola, il traduttore compie un lavoro

ossessivo, certosino di lima, per spogliare la parola del superfluo, dell’inessenziale, affinché si stagli e vibri sul foglio. Ed è questo che Niero fa anche in veste di poeta, arrivando a conferire al verso una misura propria, riconoscibilissima, una cifra peculiare che nasce dall’incontro/scontro di istanze differenti: la necessità di dare forma e suono di parola all’emozione, all’immagine rievocata nella mente dal magma della memoria, e un timore reverenziale nei confronti della parola stessa, che lo induce a porsi un freno, ad arginare il flusso delle emozioni, a convogliarlo perché in parte si raffreddi, per trattenere il pathos affinché non sconfini nel patetico, nel sentimentale.
Questa dicotomia d’intenti origina un fare poetico che è per molti aspetti meta poetico, una lingua che interroga se stessa e talvolta su di sé ironizza, con esiti felici soprattutto laddove il poeta raggiunge l’equilibrio tra un moderato distacco e la discreta partecipazione emotiva al ricordo che si attualizza, richiamando l’esperienza condivisa, quasi facendosi da parte, a osservare il racconto della realtà interiore e dell’attorno nel proprio stesso farsi.
“Buono è l’inverno delle parole,” scrive Alessandro Niero, “tienine / nel frigorifero un piccolo treno, / butta via il verbo andato a male e l’aggettivo / usalo con parsimonia, col colino.” Le parole sole, liberate dall’inutile puntello di un’aggettivazione ridondante, raffreddate dalla distanza dei volti e degli eventi nel tempo e dal controllo esercitato dal poeta sul magma incandescente della lingua, sono i profili segnati dalla mano che scorre lentamente sulla ferita cauterizzata dalla vita. Il segno liberato dal guasto verbale si fa scabro e preciso come l’immagine del bianco e nero di una foto, spogliata dell’invadenza dei colori, che nulla aggiungono alla potenza evocativa del ricordo, teso a incarnare altro, dentro e oltre la metafora calcistica, che è pre-testo: “E quella formazione di quartiere / che spaccò il mondo e all’Inter le suonò / si trasformò in metafora, parabola, / panca mediatica, provetta impresa.”

A partire da episodi singoli, datati con precisione e documentati, Alessandro Niero delinea pagina dopo pagina i principi di una “metafisica dei poveri”, che non si arroga il privilegio di discettare dei grandi temi esistenziali, eppure, implicitamente, li adombra, “nell’etica del pieno e del completo” della raccolta delle figurine dei calciatori, per esempio, nella “stortura metafisica del mondo / la prima, sfarinante tarlatura” della sconfitta contro la Juventus (e non soltanto), in quella “terra di male oggidiano / sulle guance di un padre” che si mostra quando la violenza fuori dallo stadio sporca la sacralità di una passione eternamente bambina.
Pur non illudendosi di fornire risposte possibili agli eterni interrogativi che assillano il genere umano, il poeta scava inoltre non poche, salvifiche risposte dalla terra dell’esperienza, in quel paese privo di confini spaziali e temporali che è l’infanzia.
Il Chievo, Clivus è infatti “terreno di partenza, parossia”, è dove ha inizio l’esperienza di un percorso di formazione che serpeggia nel campo da calcio della vita, che spesso sprofonda e sembra svanire nel fango, e dopo riprende, verso la porta, con quell’incessante e tormentoso “desiderio di durare, di esserci per sempre”. Quel percorso talvolta segue troppo in alto il vento per finire contro la traversa, talvolta si avviluppa in uno scarto per arenarsi contro il palo, talvolta, dribblando ostacoli e tormenti, sembra dipanarsi tra le zolle per finire dritto al centro della rete. Talvolta invece deve prendere un inizio nuovo in angolo, oppure scontare uno slancio troppo ardito, attendere il fischio del calcio di rigore. Ma nella partita della vita non ci sono vincitori, e ognuno è avversario in fondo soltanto di se stesso e di se stesso compagno, “Un goal è sempre e solo un sogno, un’equazione cosmica, non c’è, / si può soltanto immaginare.” Obiettivo della partita è superarsi, non accontentarsi del pareggio, né adagiarsi tra le maglie della rete dopo aver segnato all’apparenza un punto, perché ogni goal è solo un principio, ogni sia pur fulgida vittoria è già trascorsa. Il senso, quello “comune”, quello del quotidiano, sta nel partire, nel non fermarsi. La vittoria risiede nel guardare al futuro con inesausto desiderio, perché l’avventura non muoia “moscia / di spalti e di pudore, in poca erba”.

***
C – Campo

Si scavalcava – ed era naturale:
lì di fronte era il muretto con la tasca
per il piede, proprio al giusto mezzo,
per l’oplà, per il di là,
per guadagnare il cemento di un campo…
di pallamano. E sbucciature
due volte al dì, scalcagnamenti
di calzature aux trois bandes…*

Mirco di taglio inquadrò lo specchio
della porta. Gioì come se fossero
quarantamila a guardarlo. Vidi solo
l’intelligenza di quel gesto,
non giudicai la bonomia
di Mirco poi bloccato
al primo anno di economia.

 

* Si tratta delle Adidas

*** 

 

G – Gioco pericoloso

‘Giocare a falciamenti’ si chiamava.
Nell’atrio grande di lastroni: hockey,
piante di piedi come mazze a dare
colpi di grazia alle caviglie nude
là sotto, sui calzini in spugna,
fuori giurisdizione, fuori campo – i ligi
bei grembiulini blu non posson nulla…
E la maestra, le maestre
dove si son cacciate, dove sono, invece
di regolare, di dirimere la corsa
ricreativa, il cosiddetto sfogo,
lo sbraco d’abiti, le chiazze polverose,
le escoriazioni, i bozzi, le paure
colate per la schiena, le cadute…?

In classe, pizzicanti di sudore,
cinti da erbari e scheletri, da frasche
sanguigne e bicolori, noi primini
ascoltavamo lo gnaulìo pulsante,
coloratissimo delle piastrine.

 ***

L – Linea di fondo

Una retta tratteggiata. Ogni trattino un ricordo. Quasi un vettore bianco, sbocconcellato e sgranato, con tanto di freccia: dal laggiù di ‘allora’ al quassù di ‘adesso’. E io a ripararlo con il carrello traccialinee, in una bruma di gesso e di chiaro che connette e rifonda i nessi sconvolti dal pesticcìo delle rimesse laterali, dai tacchetti del tempo. Affinché sia più facile gabellare quel vettore come ininterrotto e, sullo slancio, pensare che non si arresti più, uscendo dal campo, dallo stadio. E oltre. Già: pur se puntualmente rintuzzato, non smette di pungere adolescenziale, anacronistico, un desiderio di durare, di esserci per sempre.

Grammo di adolescenza
di chi non può far senza
cimento col sapere-inferno
di non essere eterno.

 ***

P – Passaggio conclusivo

Come nei libri folti di destino
Stefano e io eravamo nati con un giorno
di differenza. Mi abitava sopra.
Più volte progettammo scale
retrattili o il classico buco
per metterci in contatto a profusione.
Era migliore a riparare motorini,
peggiore a scuola (non, però, nel basket).
Fu un normale, diverso e gigante
futuro a spaiarci o più di tutto
la quiete lignea che stagnava nelle stanze
quanto morì suo padre?

Stefano – piccolo per capire,
Stefano – grande per sentire.

Chi di noi due sbatteva nel perimetro
di parole non dette, di rime a venire?
Silenzio più silenzio fa una colpa?
«Si tagliava col coltello quel silenzio».
No, è lui che a tagliare e tagli ancora,
ma non medica niente.

 ***

R – Rigore

Non rimanete collegati, ve ne prego.
Tutto quel darsi attorno negli acquisti,
lo sperpero dei convenevoli, lo spreco
degli «assolutamente sì, sicuramente…»
Buono è l’inverno delle parole, tienine
nel frigorifero un piccolo treno,
butta via il verbo andato a male e l’aggettivo
usalo con parsimonia, col colino.

S’ode lo scrocchio e il pianto di parole-
gusci che bocche improvvide
stirano, laminano fino al nulla.
Come in un freddo di stadi
a -273°.

 ***

S – Salvezza

Signore, adesso che il girone primo se n’è andato,
volgi il Tuo sguardo alla media classifica,
a chi ha chances di stazionare in nessun luogo,
dentro un ansare medio fino in fondo.

Signore, affisa gli occhi in chi conduce
la vita un tempo nomata borghese,
a chi conosce il caldo turpe,
l’accomodarsi su un sofà la sera,
scricchi di legno sotto piante un poco fruste.

Signore, dài ausilio a chi ha abusato di Fortuna
immedicabilmente o spronato dal caso,
a chi non ha cercato il niente
e l’ha trovato sotto il naso,
a chi rumina sentieri quotidiani e lumi,
temendo cecità, non chiede.

Signore, se Tu puoi, redimi
le parole silenziose, il verbo morto,
educici sul brontolio del Tempo
a fuoco lento, sul cauterio –
insindacabile criterio che rinsalda
i lembi degli sfregi antichi.

Signore, apponi la Tua sigla, autografa
le offese intercambiabili, lo scacco
comune, trito, un poco greve,
la bruma dei pensieri uguali a mordersi
le code vicendevoli.

Signore, sii clemente, non stilare
il tariffario di dolori e traumi:
ben sai che di pensare ognuno ha voglia
di avere sue, riservate soglie
da sopportare, da varcare, il suo decubito,
il suo orrore di lago scosceso in un subito.

Signore, rattieni il fulmine Tuo proverbiale
su chi, per convenuta distrazione,
non sa il suo bene e la Tua gloria
parcellizzata intorno. Signore, salvali,
sul loro ormai non più belligerante Piave,
salva, se è Tua volontà, gli ignavi.

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