Franca Mancinelli, “Pasta madre”

Nello scaffale
“Pasta madre” Franca Mancinelli, Nino Aragno Editore 2013, € 10,00 

Recensione di Chiara De Luca

In “Pasta madre” Franca Mancinelli accoglie tra le mani la materia del reale per riplasmarla nel vero volto di sé e di ciò che ci circonda. Tutto in questa raccolta è metamorfosi incessante, inesausto mutamento. Il corpo della scrittura si fluidifica a inglobare l’umano, l’animale, il vegetale, il minerale, scambiandoli, mescolandoli, lasciando che il sangue degli uni scorra nelle vene degli altri, nel reciproco esondare l’uno nell’altro attraverso vasi contigui, comunicanti, dialoganti.
Per la Mancinelli scrivere è accogliere, lasciare entrare il mondo attraverso la finestra spalancata del sé, lasciarsene invadere e pervadere, restando “[…] obbedienti / al dovere che disegna / nel muro una porta”. Prerogativa del poeta non è definire, fissare, nominare, bensì lasciare fluire dentro di sé l’alterità, come fanno le grondaie “colme acquasantiere”, di cui occorre assumere la forma, per raccogliere le lacrime offerte alla sacralità del dolore. Accogliere il mondo è fare del proprio viso una “ciotola buona” e delle mani un cucchiaio per contenerlo. E le mani si colmano d’ombra, a lavare il punto in cui sorgeva “un viso, una profonda / e chiara insenatura”, altra ciotola accogliente, che per il troppo contenere ha perduto i suoi contorni, inabissandosi. Contenere ogni cosa e pronunciarla senza pretesa di nominarla, significa per la poetessa farsi piccoli fino alla dissoluzione, svanire incarnando l’alterità, divenire “cosa tra le cose”, mentre la luce s’impiglia tra le costole, “nel petto come / tra i raggi di una bici”. Ma occorre contenere anche il buio (“cucchiaio nel sonno / il corpo raccoglie la notte”), in una sorta di in-coscienza vigile che supera il terrore di esistere nell’ansia di svanire. In questo morire a se stessi per accogliere il mondo e ricrearlo, lo sguardo della poetessa si fa tagliente; la pasta del linguaggio, si piega malleabile alle esigenze del verso, si frange negli enjambement e ricompone nell’andamento circolare di ogni singolo testo e dei motivi ricorrenti che del corpus complessivo fanno un unico nucleo, magmatico, costantemente in movimento. Il corpo stesso della poetessa si fa ciotola, con-tiene il reale lasciandosene impregnare, senza costringerne i confini in una forma, bensì ampliandoli e restringendoli nell’impasto della parola.
In Pasta madre l’elemento animale fluisce nell’umano, l’umano ramifica nel vegetale, impietra nell’oggetto e si fa in pezzi, mentre l’io si dissolve e si riforma alternativamente, in una sorta di processo alchemico teso alla ricostruzione di sé. Assistiamo così a un processo di antropomorfizzazione a rovescio, in virtù del quale l’essere diviene pianta e radice, ma anche seme – leit motiv più volte ricorrente in queste poesie – coincidendo con l’origine, vita quiescente in attesa di nuova fioritura, vita che si pianta altrove, pur restando all’interno di una stanza, sulle cui pareti lo sguardo segna e apre nuove porte per chiamare a sé il mondo.

Ridare forma al mondo e all’umano significa liberarsi della propria condizione umana, e con essa del dolore profondamente connaturato al pensiero e alla consapevolezza. Per affrancarsi dal carnefice dell’io “che ti alza presto” privandoti d’ogni difesa e calore, la poetessa si rifugia nella naturalezza animale, nell’istinto di conservazione che scaturisce dalla contiguità con la morte: “Nella cancrena aperta con i gesti / vedo, e smetto di germogliare / questa resina inutile. // Poi con le labbra mi prendo / e porto a dormire come farebbe / una gatta col figlio.” Svestendosi del corpo, per abbracciarsi come altro corpo dall’esterno, la poetessa stessa diviene (pasta) madre, in grado di ridarsi forma e rigenerarsi.

Ora che i genitori sono divenuti “frutti che non potevano / marcirmi attaccati”, spetta infatti alla figlia portare “nel becco il ricordo / il seme che sono stati”.

— 

non distingui un nido
da un intreccio di gesti,
non distingui uno sguardo da un pozzo
non distingui le braccia
dall’edera che stringe in una rete.
A un’ora di sonno da qui
ti svegli fiutando le tracce
dell’uomo che ieri abitava
i tuoi stessi vestiti.

***

torno a immergermi nel corpo
azzurro e buono di una domenica
mattina, fraterna ad altri
senza capelli e occhi, muti
come in un giorno di lavoro
per corridoi
con altre ombre accanto.
Ma in questo chiaro di saliva
cloro e seme, abbandonata ognuno
la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo
bambini con un segno d’acqua in chiesa.

*** 

sulla riva deserta una donna
lentamente avanza oltre la sponda
fino a coprirsi le labbra nel freddo
di un lenzuolo che si apre
al dimenarsi dei piedi.
Oltre la superficie
una mano scende
a toccarle la nuca. Un attimo
e la corrente si ferma, rischiara.

***
 
dormivo su una pagina ogni notte
bianca. Il mattino
un’ombra del mio peso, alcune pieghe
e subito voltava: proseguire
è questo a capo del principio,
bocca che passa calore
all’aria come potesse svegliarsi
essere ancora salvata.

—-

Franca Mancinelli è nata a Fano nel 1981. Ha pubblicato un libro di poesie, “Mala kruna” (2007; premio opera prima “L’Aquila” e “Giuseppe Giusti”). Suoi testi sono usciti in diverse riviste e antologie. Un’anticipazione di questo suo secondo libro di versi è apparsa in Nuovi poeti italiani 6, a cura di G. Rosadini (Einaudi, 2012) e nel n. 273 di «Poesia» (luglio/agosto 2012) con una nota di M. Raffaeli. Collabora come critica con «Poesia» e con altre riviste e periodici letterari.

2 pensieri su “Franca Mancinelli, “Pasta madre”

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