“Poeti da riscoprire”, Sergio Corazzini

Progetto editoriale ideato e curato da Fabrizio Fantoni
con la collaborazione di Luigia Sorrentino

QUANDO LA POESIA CREA UNA NUOVA REALTA’
La topografia interiore di Corazzini
di Marco Testi

Il 17 giugno 1907 moriva a Roma Sergio Corazzini. La sua precoce scomparsa -aveva 21 anni- ha certamente contribuito a creare il mito del cantore della propria morte, del predestinato, del toccato dal fato. Di più: il cosiddetto crepuscolarismo ha trovato in lui la concretizzazione più radicale, perché nel poeta romano vita e arte si sono fuse in un groviglio impossibile da districare.
Se in Gozzano, altro predestinato, coscienza della fine e “mestiere” hanno creato -per scelta consapevole- una sorta di distanziamento poematico, attraverso il quale lo scenario esistenziale veniva contaminato da un procedimento parodico, che dissimulava con l’ironia l’impatto del male, in Corazzini necessità e accettazione fanno un tutt’uno, in grado di rappresentare la permanenza dello spirito tragico nella modernità: il che è la prova di come i destini della letteratura non siano segnati dalla coscienza culturale e dalla volontà di adeguamento ai modelli, ma dall’intima capacità di dare corpo ad un mondo interiore che possiede una sua spazialità e una sua propria topografia (l’opera di Federigo Tozzi, ad esempio, ha ancora molto da dirci a questo riguardo).

Decenni di strutturalismo e formalismo, precipitati poi nella cosiddetta narratologia, hanno partorito nei casi estremi la pretesa di far dimenticare l’autore in carne ed ossa, la sua esistenza e il suo tempo, ma, d’altra parte, hanno creato i presupposti per un approfondimento delle caratteristiche dell’opera, la sua natura di prodotto culturale dotato di strutture interne e con caratteristiche proprie che hanno fatto giustizia di generalizzazioni, sociologismi e storicismi esasperati. Leggere Corazzini in assenza del suo vissuto significherebbe fare a meno di un importante motivo di approfondimento e comprensione della sua poetica e di alcuni temi fondamentali.

Ritornare oggi, alla luce delle esperienze prima richiamate, a sfogliare Dolcezze, o L’amaro calice, Piccolo libro inutile, o Libro per la sera della domenica vuol dire tra l’altro avvertire che questa poesia è intrisa radicalmente di vissuto, e non di una biografia ingombrante. La differenza è abissale: non vi sono riferimenti ai fatti, ma questi sono assorbiti completamente dalla voce del second self, dell’altro io che sta dietro il narratore-poeta e che parla nelle pagine .

Il “crepuscolarismo” di Corazzini è probabilmente uno degli episodi più affascinanti della poesia italiana del Novecento, proprio per la capacità di creare una poetica fedele al proprio vissuto recuperato dall’interno, e non dalla revisione ironica o biografizzante dei fatti.
La malinconia delle sere domenicali, o delle chiese in penombra, non resta imitazione di Rodenbach o di Jammes, ma diviene capacità in proprio di creare un nuovo spazio e un nuovo tempo dallo spazio e dal tempo dell’accadere reale . L’elencazione dei luoghi corazziniani rimane certamente all’interno di quella crepuscolare: fontane nei giardini solitari, specchi polverosi, chiese minori, stazioni abbandonate, organetti di Barberia, domeniche tristi, tramonti, periferie. Se ci fermassimo qui avremmo però la sensazione di un epigonismo, di una circolazione di tòpoi uguali a se stessi, non di una poesia originale.

I luoghi deputati della corrente letteraria cambiano aspetto e si trasformano in elementi vivi ed individuali solo se letti nel contesto poetico, nel corpo dolente dei versi del poeta romano, perché assistiamo all’incontro instabile ma reale tra sentimento della vita, vissuto, voce interiore e scrittura.
La sua è una constatazione non compiaciuta del dono greco della eccezionalità di un destino già segnato:

Io sono come avvolto
in un sogno, in un sogno
triste; io non agogno
più nulla; io non ascolto
.
più nulla (…)
.
(Follie, apparso in Dolcezze, Roma, Tipografia Operaia Romana, 1904, poi in Liriche, Milano-Napoli, Ricciardi 1909, riedita poi nel 1959 con un saggio introduttivo di Sergio Solmi. L’edizione da cui prenderemo d’ora in poi le citazioni esplicitate alla fine del testo scelto, è, Ricciardi editore, quella del 1968, p.13).
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Il suo sguardo poetico è in grado di trasformare le apparenze del giorno in visioni di luce, in accordo con le nuove sperimentazioni di quella temperie (senza dimenticare le teorie coeve sull’equivalenza tra l’energia e la materia e la relatività del tempo) :
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I chini
frati benedettini
che par da terra sorgano
ne la penombra delle
colonne, fra gli altari
fiammeggianti”
.
(Follie, cit., p. 14).
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Come si noterà, qui la massa solida subisce una metamorfosi nella luce, come nelle sperimentazioni pittoriche di Monet, che a sua volta riprende quelle più antiche di Turner, e le apparizioni divengono veri e propri eventi epifanici che rimandano, ad esempio, al mito di Giasone e degli uomini sorgenti dalla terra. La ricchezza delle allusioni metaforiche e archetipe non è sempre voluta, ma scaturisce dall’energia stessa della fusione poetica.
Gli stessi elementi di “corrente” divengono in Corazzini dialogo pànico e comunicazione diretta con i luoghi del passaggio:
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O piccoli giardini addormentati
in un sonno di pace e di dolcezze
o piccoli custodi rassegnati
di sussurri, di baci e di carezze
.
(Giardini, p. 21)
.
che è una semplice ma profonda evocazione dello spirito del luogo al di là di imitazioni datate. In Rime del cuore morto appaiono veri e propri episodi di espressionismo poetico -altro segno della profonda consonanza, e non imitazione, del poeta con i suoi tempi- che lasciano increduli quanti hanno conosciuto Corazzini nelle poche liriche rese canoniche nelle antologie:
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Fu come una pupilla aperta e pure
velata da una palpebra latente;
fu come un’ostia enorme, incandescente,
ostia che si spezzò prima d’avere
.
ostia che si spezzò prima d’avere
tocche le labbra del sacrificante
.
(Rime del cuore morto, apparsa in L’amaro calice, Roma, Tipografia Operaia Romana, 1905 -il libro in realtà era uscito già nel 1904-, poi nelle raccolte prima citate, compresa quella del 1968 qui seguìta, p. 27)

o

.
Il libro dimenticato
aperto, è l’unica bocca che parli
nella chiesa silenziosa,
è l’unico occhio che veda,
nella chiesa oscura,
la morte della creatura
.
(La chiesa fu riconsacrata…, da L’amaro calice, p. 40)
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Questo sembra un rilevante episodio di animazione e antropomorfizzazione, come in altri pochi nomi del nostro Novecento: Savinio, Landolfi, Bontempelli.
Va da sé che Corazzini è anche il povero poeta sentimentale desolato della celebre poesia, che a sua volta è la summa di una serie di rimandi esistenziali alla morte del corpo e all’anima:
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Anima, quale mano pietosa
accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli ospedali
ove la Morte miete senza posa?
.
(Toblach, in op.cit., p. 37)
.
Alla luce di quanto abbiamo detto rimane però difficile ridurre la poetica di Corazzini ad un pianto biografico cui mancherebbero il nerbo e il fuoco della poesia. Nel poeta romano si assiste a una naturale dinamica, in incostante equilibrio, tra connotazione, visione, deformazione, epifania, unite nella nota bassa di una poetica ormai avviata nonostante la giovanissima età. Anche in altri giovani si assisteva alla preponderanza di pedali monocordi, e dunque l’apparente monotonia tonale non è che una componente della sua poetica.
A partire dal 1904 di Dolcezze, quando Sergio ha 18 anni, si delinea una precisa poetica: quella del cammino verso la morte, contrassegnato da una serie organica di spie semantiche, prime tra i quali le isotopie del sangue, dell’acqua (in questo caso da intendersi come accenno al simbolismo battesimale, ma sul versante della necessaria morte in vista della rinascita), dell’anima, della croce, della “unione suprema” (ancora in Follie, p.13), con gli accenni allo sgomento della percezione della fine (le “alucce sgomente” di Imagine, p. 20, o le “tristezze infinite” di Giardini, a p.20).
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Dolcezze è il cantiere preparatorio di una poetica in fieri, che sembra bloccata su formule ripetitive, ma che in realtà si serve di tali materiali per costruire universi di senso in grado di divenire sostanza lirica.
In L’amaro calice, anch’esso datato 1905 -ma uscito nel novembre 1904- apparentemente tutto è rimasto come prima, dai giardini agli accenni al martirio (da intendersi come sacrificio di sé nel destino annunciato di precoce morte). In realtà il procedimento espressionista di trasformazione epifanica delle cose prende piede e diviene elemento portante di trasfigurazione poetica
.
L’acquasantiera di bronzo, tonda,
sembra un occhio lagrimoso
che il suo pianto silenzioso
a stille su le fronti de gli uomini diffonda
.
(La chiesa fu riconsacrata…, p.39)
.
Il 1905 è, a giudicare dalle date di edizione delle sue raccolte, anno mirabilis: esce infatti anche Le aureole, che evidenzia un’evoluzione poematica, fondata soprattutto sulla marcata slatentizzazione erotica; l’amore alla donna si emancipa dalla sublimazione -di derivazione probabilmente pascoliana- angelica e tanatologica e si innesta sui temi canonici di certo maledettismo, come quelli della prostituzione e della lussuria, ed anche questo è elemento piuttosto ignorato dalla ricerca sul poeta romano.

Il motivo della animazione nelle cose si mescola con quello del postribolo, anche se lo svelamento del tema erotico viene attenuato dalla presenza degli elementi disforici della ofelizzazione (la morte per acqua) e della malattia dell’anima e del corpo; l’oggetto deputato del postribolo è associato alla soglia del dolore: “il cuore del fanale” è posto in analogia infatti con la “corsia d’un ospedale” (Il fanale, p. 46).
Inizia a delinearsi tra l’altro quello che sarà il persistente tema del viandante solitario che bussa alla porta non per chiedere, ma per invitare tacitamente al viaggio chi è dall’altra parte della porta.

Ma Le aureole è fondamentale -poeticamente parlando- per un altro motivo: la presenza di un mito (lo sprofondamento nel mare) che conosce da noi, nel Novecento, un solo analogon in Federigo Tozzi, che undici anni dopo scriverà Leggenda, un racconto di contenuto assai simile: una città sulla montagna lentamente affonda nell’oceano.
E’ certamente un richiamo colto al mito platonico dell’Atlantide, ma sia in Corazzini che in Tozzi esso presenta radici psichiche profonde, che assumono materia poetica e narrativa in modo immediato, senza eccessive mediazioni letterarie, ancora straordinariamente vicino alla sostanza a-logica ed elementare.

La poesia corazziniana La finestra aperta sul mare presenta una torre in mezzo al mare, al di là di ogni precisazione spazio-temporale (“Ma non so né dove, né quando,/ mi apparve”, p. 51), in un contesto di antropomorfizzazione che certamente è debitore di elementi biografici: la torre è “canora come l’anima/ di un fanciullo”, le sue “antichissime sale morivano/ di noia” (p.51), essa “lacrimava dolcemente” (p. 52) e alla fine “si donò al mare” (p.53): il destinato a morire rappresenta se stesso come dono al fato in un rovesciamento della causa-effetto cui non doveva essere estranea la lettura di Nietzsche, come suggerisce, su basi documentarie (una lettera di Corazzini) la Papini.

I Poemetti in prosa seguono la strada tracciata nelle Aureole, con la realizzazione di un vero e proprio mondo in cui l’inanimato vive, sente, pulsa. Il Soliloquio delle cose è uno dei più interessanti tentativi all’interno del Novecento di spostare il punto di vista prospettico dalla psiche umana al mondo inanimato o animale. Debenedetti aveva centrato già il problema, individuandolo in Tozzi e associandolo alle esperienze pittoriche coeve, soprattutto quelle di Franz Marc, che denunciavano lo sforzo di “raffigurare, di esprimere la vitalità interna di questi esseri viventi, quell’intenzione, quel senso che essi manifestano e non dichiarano” . La letteratura e il cinema, attraverso le suggestioni di Ecole du regard e Nouveau roman, tenteranno dopo Corazzini, Tozzi, Landolfi, Bontempelli il rischio di togliere la centralità dello sguardo umano e di sostituirle le cose che pensano. Così nel Soliloquio di Corazzini si assiste allo spostamento dello sguardo interiore, che passa alle cose, le quali assistono “il nostro amico” (p. 67) nel passaggio terreno fatto di prefigurazioni di morte e di tristezza, immagini sicuramente di “scuola” crepuscolare e fiamminga ma arrivate a saggiare i limiti dello sguardo umano che tenta l’impresa nuova e rischiosa di porsi dal punto di vista dell’inanimato.

Un tempo lo vedemmo e l’udimmo piangere senza fine: volevamo consolarlo, allora, e mai ci sentimmo così spaventosamente crocefisso. Oggi, oh, oggi è un’altra cosa: dove piange? Perché piange?

(Il primo dei Poemetti in prosa, questo Soliloquio delle cose, apparve per la prima volta sulle “Cronache latine” del 15 dicembre 1905. Ora è compreso nelle Liriche, cit., p. 68)

La novità non è da poco conto: all’interno di quello che l’immaginario critico ha presentato come la periferia dell’impero delle lettere (e lo stesso titolo di crepuscolare aveva per il Borgese del 1910 il sapore di una marginalità prospettica) avveniva una frattura decisiva con la tradizione, che aveva un epicentro molto vasto, perché comprendeva l’intera cultura positivista e le sue radici illuministiche. Sarebbe difficile capire fino in fondo le derive del cosiddetto irrazionalismo del secolo breve senza approfondire la questione della crisi dello scientismo positivista e di un neo-illuminismo arroccato su aristocratiche posizioni intellettuali che presto dovettero scontrarsi proprio con la scienza nuova dei quanti e della relatività e con inquietanti domande poste dalla nuova psicologia, una zona della quale andava riscoprendo, con Jung e i suoi allievi, zone interdette dal meccanicismo materialista.

Il nostro amico diceva che una porta chiusa è figurazione di gran gioia. Noi siamo semplici, non abbiamo mai comprese queste parole, sarà, forse, perché siamo così sole e così sconsolate, da tanti anni, in questa camera chiusa!

(Ivi, p.69)

Come si può notare, il rovesciamento di alcuni modelli ancora operativi a quell’epoca non potrebbe essere più esplicito: il punto di vista è ormai focalizzato dalla parte delle cose, ma in modo esterno, visto che stavolta sono gli oggetti a non capire i pensieri e le azioni dell’uomo .
Quella che era stata la romantica aspirazione verso la morte tesa a riconoscere il senso titanico di un destino superiore, in questi Poemetti diviene il sì (sulla lettura nicciana di Corazzini abbiamo detto già) al fato ed invito paradossalmente dionisiaco a tentare l’impossibile appropriazione del destino di morte, “infino a che la Morte non a te si figuri come il meraviglioso fiorir di un seme ignoto e divino” (Esortazione al fratello, nei Poemetti in prosa, Ivi, p.72): il che avvicina questo Corazzini all’altro tragico -e coevo- esito di riappropriazione del destino persuaso di contro alla falsità della retorica: Carlo Michelstaedter.

Una componente che rimane nel sottofondo di tutte le raccolte di Corazzini, come ha notato Marziano Guglielminetti , è quella di una particolare spiritualità che talvolta si avvicina ad esiti francescani; abbiamo però notato che vi sono apporti altri, da Nietzsche a Michelstaedter, ad attenuare il peso dell’attribuzione cristiana che fanno pensare ad una già avviata e personale poetica spiritualistica venata da un panismo “a minore”; è una direzione poematica che troviamo con più forza nelle esperienze di Onofri, per fare un esempio: solo che in Corazzini questo immanentismo è attenuato da un misticismo non immediatamente confessionale, in certi episodi ai limiti di una concezione vitalistica e panteistica delle forze del cosmo.
Nei Poemetti in prosa vi era il riferimento testuale al Getsemani (Esortazione al fratello) come esempio di totale sacrificio di sé, senza dimenticare che accenni alla croce, al sangue versato, all’ostia consacrata, ai tabernacoli attraversano tutta l’opera del romano, con l’accentuazione francescana, che aveva notato Guglielminetti, in episodi in cui la morte è chiamata “dolce sorella” (Esortazione al fratello, p.73). Talvolta però questa dimensione assume aspetti ambigui e in un certo senso inquietanti, come ne Il fanale de Le aureole in cui postribolo e luogo sacro vengono avvicinati in una sorta di esteso, inquietante ossimoro:

Torbido e tristo nella solitaria
via, davanti la porta del postribolo,
s’affoca e il buono incenso del turibolo,
forse, è la nebbia che fa opaca l’aria.

Mai sacerdote curvo per i sacri
facili gradi d’un superbo altare
seppe con dolce sapienza fare
omaggio a i freddi e vani simulacri.

(Il fanale, p. 46).

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E’ la prova che il simbolismo celato nell’opera di Corazzini è di grana più fine di quanto si pensi comunemente e come, (ma questo era accaduto anche nei suoi amati Jammes, Samain, Rodenbach, Maeterlinck, nel Poema paradisiaco di D’Annunzio, cui alcuni crepuscolari devono molto), sensualità scontata nella tristezza, senso del peccato, sacro, abiezione, aspirazione alla purezza si incontrino e si mescolino senza soluzione di continuità.
Questo non vuol dire che in alcuni casi certe polarità si riformino allo stato puro e irrompano nei singoli episodi, come nella celebre Desolazione del povero poeta sentimentale, dove la poetica della riduzione all’infanzia come difesa dal mondo e dal destino diviene dominaante, anche se non mancano allusioni alle altre possibilità e scelte, in questo caso alla pienezza vitalistica dannunziana:

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Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
vivere ben altra vita!
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(in Piccolo libro inutile, Roma, Tipografia Operaia Romana, 1906, ora in Liriche, op. cit. p. 79).

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Oltretutto nell’ultima produzione si complica anche il tòpos del viaggio, perché la porta chiusa, che precedentemente era marcata in senso positivo come segno di intimità domestica, di protezione e di assimilazione al cuore del bambino, ora diviene segno di morte, di colpa e di attesa senza fine. L’imitazione francescana della scelta povera qui assume qualche mutamento, diventa sprofondamento psichico che costringe ancora una volta al ribaltamento del punto di vista e alla ricerca dell’anima dell’altro, anzi, in ultimo, della appropriazione della vita dell’altro. L’io poetico e l’ignoto viandante si scambiano i ruoli, il primo entra nel secondo, assumendone il pensiero, la pena, la nostalgia degli affetti lasciati e il superamento nel dono di sé agli altri:

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Hai pianto e un poco vuoi
di quel pianto godere,
qualche lagrima bere,
ancora, con i tuoi.
.
(Ode all’ignoto viandante, p. 81).

Il rovesciamento dei ruoli è denunciato apertamente in L’ultimo sogno, in cui è l’io poetico che assume il ruolo del viandante senza meta:

Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta; non odo
che fontane cantare
canzoni senza ritornelli
alla Monotonia,

(L’ultimo sogno, in Libro della sera della domenica, p. 116).

Nell’Elegia trova consistenza un motivo reso canonico da Eliot, quello della passeggiata sentimentale ma che in realtà assume la funzione di confessione esistenziale in una realtà provinciale e quotidiana, che però lascia trapelare bagliori di epifanie rivelatrici.
In Eliot l’invito era quello immerso nella perplessità delle cose che iniziavano a non essere più quelle che sembravano, nel celebre incipit
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Allora andiamo, tu ed io,
quando la sera si stende contro il cielo
come un paziente eterizzato disteso su una tavola;
andiamo, per certe strade semideserte,
mormoranti ricoveri
(…)
con l’insidioso proposito
di condurti a domande che opprimono…
Andiamo a fare la nostra visita .
.
In Corazzini il simbolismo della passeggiata rimane tutto dentro l’universo connotativo dell’abbassamento e della riduzione esistenziale, che molto deve ai poeti fiamminghi, che non è manifestazione dello scacco e dell’impotenza, ma appropriazione volontaristica, seppure in modalità sommessi e “minori”, del proprio destino: in poche parole una scelta, che implica la creazione di un mondo da sovrapporre all’altro della materia e dei sensi, ed ecco la nuova realtà fatta di piccoli doni, di amori solidali e mistici, di visite ai monasteri femminili, di intima comunione al di fuori delle grandi rotte sentimentali predicate da D’Annunzio, nel quale pure coesisteva una tentazione elegiaca fatta di domeniche, di fontane e di giardini, nonché di un francescanesimo estetizzante.
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Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.
(…)
Se vorrai, nei giorni
di festa, porteremo a tutti i piccoli
infermi alcuni di quei dolci, quei
poveri dolci delle suore, quasi
bianchi, senza sapore, avvolti in carte
celesti e in fili d’oro.
.
(Elegia, p.101)

.
Corazzini, più che rifugiarsi in angoli già esistenti, crea un mondo in cui vigono altre strutture di significato, dove vengono privilegiati topografie e materiali fatti di nuova sostanza e di nuove percezioni, anche attraverso sorprendenti analogie e procedimenti sinestetici.
La sua città è talvolta immersa nella musica, come in La gabbia (p. 6), le masse portanti si tramutano in luce come in alcuni esiti pittorici di Turner e Monet, sale, camere, oggetti di uso comune, fanali si animano e manifestano sentimenti; le porte appaiono eternamente chiuse, le case dormono, piccoli ospedali di provincia vedono languire anziani e bambini, gli specchi sono polverosi, le fontane cantano la loro malinconia: è la topografia di un rapinoso universo altro, sorto sulle ceneri di un mondo che ha svelato l’inconsistenza della sua apparente oggettività.

1 pensiero su ““Poeti da riscoprire”, Sergio Corazzini

  1. Molto ben scritta questa introduzione critica. Abito lontano ed a volte mi sembra che gli italiani stiano dimenticando l’italiano e con la lingua le abitudini e le gentilezze dei nostri nonni avvolte “in carte celesti e fili d’oro”.
    I poeti sconosciuti riappaiono sempre… la loro calma e’ in sintonia col tempo… sono le stelle del nostro firmamento.

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