Su ‘La maschera ritratto’ di Maurizio Cucchi

la-maschera-ritratto-2966316di Luigia Sorrentino

‘La Maschera ritratto‘ è un libro importante per comprendere l’opera poetica di Maurizio Cucchi. Un racconto dal tono pacato, sommesso, sussurrato, lontano da certa letteratura, ‘la letteratura degli eccessi’ oggi tanto gridata in tv, come se ci trovassimo tutti nella enorme bolla di sapone di uno spot pubblicitario.  E’ significativa la nota di lettura che ne fa Guido Monti e che pubblico qui sotto. Monti infatti, individua il nucleo centrale dell’opera di Cucchi, un racconto fatto di frammenti che ricompongono il volto, il volto vero, il volto che vogliamo, ‘la nostra verità’, piena di stupore, che viene a parlarci.
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di Guido Monti

Nel nuovo libro di Maurizio Cucchi, ‘La maschera ritratto’, (Mondadori, 2011, euro 18) ciò che colpisce è lo svolgersi del racconto per frammenti, diapositive di tempi diversi che vengono a sovrapporsi, parlarci.
La maschera ritratto è un lungo viaggio nella memoria, viaggio pieno di abisso, stupore, incertezza, viaggio che costa energia, fatica per chi voglia veramente intraprenderlo. Perché è molto più facile viversi, lasciarsi scorrere sulla superficie del contemporaneo, non dare ai segni della nostra vita alcuna ipotesi interpretativa. La ricerca nella memoria, è principalmente ricerca della identità e Maurizio Cucchi la attua nel modo più autentico, uscendo nel mondo e ricevendone poi da questo l’attrito che è conoscenza.
Il libro si apre e chiude con la cronaca desolata e toccante della morte di Gino e Tina genitori del protagonista del romanzo che si spinge alla ricerca di due uomini diversissimi, in territori tra loro lontani. Si reca inizialmente ad Uggiate al confine verde e boscoso con la Svizzera, alla ricerca degli ultimi luoghi di Gino. In seguito è a Catania, per rinvenire con l’appoggio dell’amico Nino, le tracce di suo nonno Alfredo Gandolfo ingegnere e capitano nei primi decenni del secolo scorso.

Racconto lungo, che ha i caratteri intrinseci delle più alta poesia: una scrittura essenziale, spoglia di ogni orpello, visivamente piena e struggente in cui i personaggi, le storie, parlano solo di ciò che è essenziale, con i loro detti, i loro modi così diversi per origine e costume. Nino, Tina, Lucrezia, Nanina, il pittore Mornacco sono coautori della ricerca a volte la alimentano, come quando Tina inizia a parlare di suo padre appunto Alfredo Gandolfo l’ingegnere. E nella ricerca, pezzi di paesaggio, di interni casa, oggetti riguardati dopo tanto, sembrano parlare al protagonista, del loro sbiadito presente ma anche di ciò che furono.
Come quel luogo remoto della Bovisa, dove le ciminiere dell’industria pesante, si dissolvono sotto il peso della modernità o quel tinello così squallido della casa della sua fanciullezza di via Imbriani abitata ora da un tal Capone e il borsellino rosso di Tina, con le sue lettere lontane, la fascia elastica che Gino comprò a seguito della caduta in lambretta verso S. Marino nel lontano ‘55, le nazionali sbriciolate, la guida telefonica stradale di Milano con i toponimi, tutta una oggettistica che ancora con un suo alfabeto mette sul chi vive il lettore. Tutto non è mai completamente passato. Maurizio Cucchi ci offre una storia folgorante per tenuta stilistica e per valore contenutistico. Ecco questa scrittura ci batte dentro, come nella già accennata gita in lambretta da Miramare a S. Marino del padre col figlio, un figlio timido ed educatissimo nei modi, di poche parole come del resto il padre Gino, che ricercano in una condivisione silenziosa la felicità. Difatti le pagine di questo libro, hanno la consistenza di qualcosa che và verso il silenzio. Quella forma di silenzio alto che ci educa al vero ascolto degli altri e insegna a misurare le parole successive. Ed allora la parola che viene dalla vita silenziosa, dalla vita di Gino per esempio, è forse quella veramente irrinunciabile, l’unica che può ricucire l’enorme vuoto che ci è attorno, quello esistenziale, ed avere cittadinanza, essere tramandata. Ma gli abissi che si muovono nel romanzo, sono feroci e spietati. È davanti ai nostri occhi il cadavere di Gino raccontato dagli amici del luogo ancora viventi, come in una cruda cronistoria: sotto quell’albero, in quella campagna di confine, il foro d’uscita sotto l’orecchio, la località già accennata: le Pioppette. Questi posti dicono, ma quasi non dicono più, così come gli oggetti-testimoni che rispuntano più tardi dai cassetti come a ritroso. Tracce da interpretare ma l’interpretazione forse muta a poco a poco l’origine di chi interpreta ad ogni ripensamento e in questa continua ricerca, vi è una sovrapposizione a volte territoriale dei ricercati: entrambi forse passarono per uno stesso ospedale militare, entrambi accomunati dalle guerre. Alfredo ingegnere-capitano e tombeaur de femmes dei primi decenni del secolo scorso, Gino uomo “ruvido” ed umanissimo della Bovisa con la sua tuta da saldatore-forgiatore di via candiani, che partecipò alla campagna di Russia del ’41, tornandone ferito ad un braccio, il braccio destro.

Questo racconto-resoconto lungo, somiglia per la sua asciuttezza e descrizione di certa civiltà operaia inurbata, a quelle pagine più alte di Emile Zola, di cui tra l’altro nel libro si cita un’opera magistrale l’Assomoir. E poi ancora nella filigrana di alcune figure, ecco tornare i personaggi della comédie di Balzac, che si affacciano con il loro carico di vite comiche e quasi disfatte a volte tragiche. Compaiono come alla finestra della narrazione. Dal racconto quindi sfuggono paralleli altri racconti e altre trame. Come non ricordare il già citato Ignazio Capone, il sessantenne artista di origini meridionali, tintura in testa, che fa con le sue battute bassa filosofia.

In questa trama articolata, cosa può dirsi veramente presente e reale cosa immaginato? Tutto però personaggi e cose sono così immanenti, da toccare delle punte metafisiche di rara bellezza.
Maurizio Cucchi ci restituisce in questo scritto, ciò che più gli è a cuore: la ricerca identitaria già presente nelle pagine più belle di tutta la sua opera e la ripropone con uno scarto nuovo, una diversa luce psicologica mi verrebbe da dire “una nuova luce del distacco” per citare il titolo del suo libro del 1990. Questo autore come sempre in punta di piedi, non rincorrendo mai alcuna moda narrativa, ci restituisce un affresco doloroso e irrinunciabile per chi voglia veramente misurarsi con la propria esistenza, il proprio destino.
(Qui sotto il link dell’intervista a Maurizio Cucchi, realizzata nel febbraio scorso da Luigia Sorrentino.)

http://poesia.blog.rainews.it/2011/02/13/maurizio-cucchi-la-maschera-ritratto/

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