Opere Inedite, Alessandra Frison

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

Alessandra Frison l’ho conosciuta a Milano, nel 2009, alla Casa della Poesia alla presentazione dell’Almanacco dello Specchio 2008. Alessandra, introdotta da Mario Benedetti, mi colpì molto fin da quel primissimo incontro per la compiutezza della voce nonostante la giovanissima età.  Alessandra oggi mi spiega per Opere Inedite che le risulta difficile inquadrare il suo lavoro sui versi in modo organico perchè gli intenti della sua poesia sono molteplici. E aggiunge:  “Quello che mi preme sottolineare è la mia esigenza di fare della parola, di ogni parola, una testimonianza. Testimonianza di una vita, dei sentimenti, di tutto ciò che è reale.”
Alessandra mi scrive: “La realtà è costituita da molteplici livelli e per ciascuno di questi sarebbe necessario trovare una parola da dire, un segno che possa dispiegarne i significati più profondi. E’ in questa direzione che cerco di orientare la mia ricerca, attraverso un’ osservazione attenta che punti a mettere in luce le contraddizioni, che riveli le zone in ombra della vita, fatta anche di quodidianità e di piccole cose.

Una quotidianità che, però, non voglio sia oggetto di sentimentalismo scadendo in un consolatorio simbolismo domestico, poco utile al fine di una comprensione del nostro vivere. Quello che io intendo per quotidiano è la continua rivelazione delle cose, la loro drammatica continuità (o discontinuità) con il valore che noi attribuiamo loro. Quotidiana è la fatica dello stare al mondo, la consapevolezza dell’abisso, la tensione tra volere e potere. E’ in questo modo che anche una semplice finestra, o un muro appena dipinto, diventano veicolo di una riflessione sullo scopo di esserci, perchè oggi come oggi si sente il bisogno di vere presenze che ci offrano la possibilità di riconoscerci. In quanto vivi e in quanto umani.”

di Alessandra Frison

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                     La penombra di una stanza divide
quanto speravi da quanto rimane.
L’indifferenza di queste ore nei richiami della casa
nei fogli di carta lasciati a macerare
in una mancanza d’attenzione
in un’attezione fuori dal mondo.

Ne contavi a milioni di vite, in qualche chiuso progetto
rocce che affondano rocce
affiorano come cadaveri vuoti, poco per volta
sottopelle, sotto gli occhi
in uno sconforto sguaiato.

Non avere più corpi, averne centinaia di migliaia
ogni segno che passa sul viso
è un fiore di memoria mai nato.

E così alcuni lasceranno cervelli popolati e doni
parlanti ad ogni costo, per quanti ne chiederanno
si apriranno file di pianti e sorrisi.
Guarda invece questi lampi

senza sostanza
otre piccole case e grige colonie
di figli. Non ci saranno voci da scrivere,
parola dopo parola come ombre
solo indizi di un passaggio.
*

C’era qualche fiume da dire
una domenica, i colori della macchia
riparavano gli anni, la paura,
la zitta vita del bronzo
nelle file dei corridoi.
Si portavano fino alla sponda
con i loro cappelli, la meraviglia
nei passi, la gola nell’acqua.
Avevano mandato i cani ad inseguirli
fino alla riva i nomi dei viandanti,
la pioggia li aveva presi nei minuti
dopo la strada, a fine corsa
spugne nel fondo. Ti vedevano a memoria,
fisso, le perle del viso che torcevano gli occhi
come fuori dai muri i chiodi,
Fuori questi versi
dovremmo cantare domini di colpe
e fiori da dare, fiori.
Per qualche uomo nella cornice,
per una memoria pagata come specchio da muro
per la pietra dove si crede
non manchi di nulla.

*

Una volta usavano le candele
per far dire alla gente,
si parlava di tortura altro
è qui, ci sigilla la festa
dovrai salutare chi non ti può
e non ti domanda, quando
l’autunno sfianca l’aria della sera
quando manchi per anni
e ti sembrano cose da poco le mani
sulla finestra, i disegni sul freddo del vetro,
anche la neve, figure
di un andamento continuo. Domani
sul tram ci saranno tutti
e per passare oltre
non avrò motivo di chiedere scusa.
*

Passaggio

Il tempio rimane distrutto. Nell’ora
della dispersione i canali sommessi
descrivono occhi o
traiettorie da muro a muro.
Bianchissimi.
Qualche goccia divisa tra i bicchieri
per farne silenzi.
Abbiamo visto graffi sui denti,
cumuli di mani per fermare mulini,
fino a quando i corvi
calarono dai tetti. A bocca aperta.
*

Lascio da parte i commenti da marciapiede
alle luci stente sbranate marzo
non spetta giudizio
e una fiera d’anime, il controcanto
del viaggio, mi ingombra l’aria
come singhiozzi di morte alla catena.
Quasi sempre la parte in vista di noi
è un lascito magro alla curva di un bancone,
raccolti su un tavolo, nel freddo, quando i minuti
muti senza sonno sospesi
non si possono dire e puoi passare
la sera a farti notare per quello che porti
o difendere un vizio senza discorsi,
così, non spartire niente di te.
Vedi quanto manca a saperci conclusi.

di Alessandra Frison, dalla raccolta inedita “Le ore della dispersione”
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Alessandra Frison è nata nel 1985 in provoncia di Verona. Da alcuni anni vive a Milano. Una sua breve raccolta di poesie è apparsa nell’Almanacco dello Specchio (Mondadori) nel 2008.

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