La traduzione di poesia, Nicola D’Ugo

Inauguriamo una nuova sezione del blog Poesia“La traduzione di poesia”. 

Iniziamo con Nicola D’Ugo poeta, narratore, saggista, comparatista e traduttore.  Dottore di ricerca in Letterature di lingua inglese alla Sapienza. È stato fondatore e redattore del quadrimestrale di studi culturali Praz! (1993-1997) e redattore del mensile Notizie in… Controluce (1999-2001). Ha scritto numerosi saggi e curato monografie per libri e diverse testate giornalistiche ed accademiche. Ha tradotto per Arnoldo Mondadori Editore, Edizioni Empirìa e Semar Editore. È autore, con Alberto Mesina, dell’unica traduzione integrale del poema Altazor o il viaggio in paracadute di Vicente Huidobro, pubblicato da Semar.

Nicola D’Ugo ci propone due poesie «Il mio cuore» e «Come lei» , di Frank O’Hara e Anne Sexton.

<<Le poesie qui proposte, «Il mio cuore» e «Come lei»sono state scritte da due dei poeti che hanno esercitato una grande influenza sulla poesia americana, Frank O’Hara e Anne Sexton. Entrambi si caratterizzano per l’intimità cui invitano il lettore, e benché quest’approccio sia ritenuto tipico della poesia lirica, esso non lo è affatto. Nei brani che ho desiderato tradurre non è a tema l’universalità dell’uomo, né essi toccano questioni che cerchino di raffigurare l’uomo contemporaneo nella sua interezza. Se in essi ci si riflette, specchiandosi, ci si ritrova nei panni singolarissimi (e non per questo unici) degli autori che li hanno scritti. Un tale approccio lirico non ha neppure di mira farsi testimone di un’epoca, vissuta attraverso gli occhi del poeta. Nella loro diversità, O’Hara e Sexton si rivolgono al lettore parlando di se stessi, di ciò che sentono, nel minuto fugace e talvolta onnicomprensivo della loro carnalità esistenziale.

Giacomo da Lentini, Dante, Petrarca, Shakespeare, Belli, e quant’altri abbiano usato il sonetto, si sono avvalsi per lo più di un approccio lirico riflessivo e logico, in cui l’esperienza individuale tendeva a stabilire un’unità di valore da mettere in risalto, quando non a dimostrare sottilmente che i valori corrivi erano fallaci. L’esperienza intima si socializzava così, e parlar del proprio sentire significava parlare della condizione umana esorbitando dalla singolarità dell’individuo da cui prendevano le mosse. E non meno facevano quei poeti a noi più prossimi, i romantici, nel far della propria vicissitudine biografica materia più o meno d’interesse sociale e teoretico. Questo vale per le avanguardie che hanno esautorato l’«io» concependo la poesia come espressione tesa a ridefinire la lingua, la comunicazione, il linguaggio.
Tradurre è sempre un’opera di servizio. Si cerca, come un funambolo, d’arrivare all’altro capo del tragitto nel modo più dignitoso possibile. Il grosso dell’editoria non ne soffre, ma qualora s’abbiano a tradurre autori la cui densità semantica si fonda su un materiale in cui contenuto e forma son fatti d’una sostanza inestricabile, l’impresa, più che difficile, risulta impossibile. La poesia costituisce la sfida più ardua del traduttore, non meno di quanto lo sia la scelta di tale forma per uno scrittore. Ma poesie d’ampio portato tematico, seppur sempre intraducibili, sono più facilmente accessibili ad un lettore di lingua straniera di quanto non lo siano poesie intime, in cui la ‘voce’ del poeta (o, se si preferisce, il ‘tono’ del suo andante) costituisce la materia prima della dizione poetica. È più facile tradurre poesie meravigliosamente composte come La terra desolata «La terra desolata» e «ll mercoledì delle ceneri» di Eliot, che non «Il pensiero-volpe» di Ted Hughes o, in genere, le prime liriche di Iosif Brodskij. Ciò che le distingue è il fortissimo carattere simbolico delle prime rispetto alle seconde: in tale rimando simbolico è riposta quell’universalità tematica di più facile accesso in traduzione.

Riconoscere motivi personali da parte del lettore nei componimenti di Frank O’Hara e Anne Sexton non significa che in essi vi sia il ricorso a simboli che abbiano di mira la raffigurazione delle emozioni universali dell’uomo. Tutt’altro. Se esse «diventano» universali, lo si deve al carattere di risonanza, in noi, della loro carnalità individuale, del loro rivolgersi a noi in quanto uomini con un linguaggio perfettamente consono al nostro orizzonte percettivo. Essi son talmente bravi da parlarci dei fatti loro e, con ciò, a coinvolgerci, senza ricorrere a tematiche di più ‘facile’ aggancio collettivo, nel senso che essi ricorrono a temi universalmente sentiti come fondamentali, ma non totalizzanti, nelle nostre vite. Nel cinema questa rivoluzione copernicana ha preso le forme del neorealismo (col residuo delle sue tare ‘sociali’, per cui ciò che cambiava era il ricorso al piano sequenza, ma i film rimanevano ‘a tesi’) e dell’ancor più rivoluzionaria Nouvelle Vague, la quale, va notato, è in concomitanza cronologica col rivolgimento linguistico della New York School of Poetry di O’Hara e del confessionalismo di Sexton.
La poesia di Frank O’Hara costituisce un fenomeno raro e prezioso. Il suo modo di scrivere è colloquiale. La sua sapienza sta nel rendere tale colloquialità priva di scosse retoriche, con andanti minimali e accostamenti di immagini che anziché esaltare l’io poetante riducono qualsiasi argomento socialmente ammaliante ad una dimensione svuotata della sua appetibilità. L’io poetante non si fa voce privilegiata della società, ma uomo, e quest’uomo che ne vien fuori, con le sue debolezze e la sua minuta dignità, è ancora più amabile degli smaglianti contesti sociali cui ha un accesso privilegiato: siano essi di cultura elitaria o d’entourage economico. O’Hara accosta la cultura di massa alla tradizione ‘alta’, alla quale fa sparsi ma puntuali riferimenti, non tanto per sminuirla, ma per mettere in luce che tutta la sua cultura mitica la si ritrova più compiutamente nell’incontro con l’uomo comune e non per questo meno affascinante, come nella celeberrima «Prendere una coca-cola con te».

Nella poesia qui proposta, «Il mio cuore», O’Hara si scrolla di dosso le etichette sfarzose e gli entusiasmi che gli altri gli rivolgono e a cui presta poco interesse, così come i miti trendy dell’industria culturale ed indie, ponendo al centro il proprio rapporto diretto col lettore, attraverso una poesia che parla di poesia e della singolarità individuale dello scrittore in quanto uomo. Andare all’opera, evento quantomai mondano ed elitario, è menzionato sia per ridimensionarne l’importanza mondana, sia per enunciare che il contenuto originariamente popolare e liberale delle opere liriche costituisce un aggancio artistico di gran pregio: vale la pena andarci. La cultura tradizionalmente ‘alta’ è importante per O’Hara, nella misura in cui si coniughi con i logoi della quotidianità newyorkese: si guarda meglio ciò che ci è intorno senz’essere accecati sia da miti antiquati e sia dal variegato ambiente urbano della contemporaneità, in quanto i primi aiutano a guardar meglio i viventi senza mitizzarli o negarne le loro prerogative d’unicità individuale; sono anzi strumento per comprendere come i miti nascano nel vivente impulso del proprio permeabile ambiente sociale.

Per esprimere questa concezione della vita Frank O’Hara ricorre ad una magistrale scansione dei versi, ponendo sensibili accentuazioni nelle cesure e negli accapo che completano le frasi grammaticalmente compiute. Senza forzature, il moto apparentemente minimale e risolutamente in sordina spiazza per l’acume di taluni accostamenti, senza mai indulgere a scarti retorici che innalzino la sua voce al di sopra di colui che lo legge. Il suo è un punto di vista, un’opinione, importante e imprescindibile in quanto sua, offerta con pacatezza e senza doppi fini. Questa caratteristica lo rende unico nel suo genere e fa luce, some Sexton, sui limiti della concezione assolutistica, autoritaria e monologica della poesia così com’essa era stata formulata da Michail Bachtin, che tanta influenza ha poi esercitato sulla teoria letteraria del Novecento. Il modo di esprimersi di Frank O’Hara ed Anne Sexton invitano il lettore ad un notevole dialogismo con loro.

Se in O’Hara i riferimenti culturali ‘alti’ sono accostati con grazia e sottile arguzia ai topoi della vita di tutti i giorni, in Anne Sexton la tradizione mitica e storica, e soprattutto i relativi archetipi, si riversano nelle sue pagine non per nobilitarne la poesia, ma per esprimere l’enorme gravame che pesa sulla sua esistenza. Pochissime poete possono appaiarsi a Sexton per l’espressività delle tematiche femminili: in lei esse non vengono elaborate in proclami, denunce, progetti libertari. Per Sexton esser donna significa essere anzitutto un’individualità biologicamente e storicamente non condivisibile con altre entità maschili o femminili: le donne sono altre donne, e il suo esser donna pone al centro, in tutta la sua drammaticità vitale, l’unicità singolare della sua persona, con le relative passioni, debolezze, aspirazioni, delusioni e rammarichi. I miti ai quali fa riferimento, anziché edificarla, le piombano addosso come una predestinazione, tipica della cultura puritana. La scrittura di Sexton si caratterizza per una scansione vibrante ed incisiva, che contiene un altissimo gradiente di charm, ed un linguaggio esplicito incentrato sulla sessualità, che trova pochi precedenti (e comunque non così disinibiti e ricorrenti) nella poesia americana. La propria sessualità e i propri turbamenti psichici sono messi a nudo come mai s’era visto in poesia.

«Come lei» è una lirica difficile da tradurre, per via delle concomitanze polisemiche e dell’ironia che già rende il titolo intraducibile una volta lo si voglia mantenere nel refrain che chiude le strofe. Basti osservare che nell’ultima strofa, attraverso le diverse accezioni che assumono le parole, Anne Sexton raffigura la passione amorosa attraverso tre immagini che si sovrappongono ad esprimere il proprio desiderio di libertà e l’immanenza del proprio destino di donna, cui non può sfuggire: una folle corsa in automobile con un uomo; un amplesso amoroso con lui; l’applicazione di strumenti di tortura e fuoco con cui l’uomo le rompe il corpo. L’immediatezza colloquiale della scrittura di Anne Sexton è lungi dall’esaurirsi in una testimonianza della sua vita scritta con maestria d’abile versificatrice.>>
di Nicola D’Ugo

Il mio cuore

Non starò sempre a piagnucolare
né riderò tutto il tempo,
non mi piace un “motivo” più dell’altro.
Avrei l’istantaneità dei pessimi film,
non solo di quelli barbosi, ma anche del genere
di prima classe delle megaproduzioni. Voglio esser
vivo quantomeno come il volgo. E se qualcuno
appassionato della mia vita incasinata dice: “Non è roba
da Frank!”, tanto meglio! Io
non mi metto sempre abiti grigi e marroni,
o sbaglio? No. Per l’Opera indosso camicioni da lavoro,
spesso. Avere i piedi scalzi voglio,
voglio un viso ben rasato, e il mio cuore…
non puoi programmare il cuore, ma
la sua parte migliore, la mia poesia, è allo scoperto.
Frank O’Hara (trad. di Nicola D’Ugo)

My Heart

I’m not going to cry all the time
nor shall I laugh all the time,
I don’t prefer one “strain” to another.
I’d have the immediacy of a bad movie,
not just a sleeper, but also the big,
overproduced first-run kind. I want to be
at least as alive as the vulgar. And if
some aficionado of my mess says “That’s
not like Frank!”, all to the good! I
don’t wear brown and grey suits all the time,
do I? No. I wear workshirts to the opera,
often. I want my feet to be bare,
I want my face to be shaven, and my heart–
you can’t plan on the heart, but
the better part of it, my poetry, is open.
Frank O’Hara


(Frank O’Hara, The Collected Poems of Frank O’Hara, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995, p. 231. A cura di Donald Allen).

Come lei

Sono uscita di casa, una strega ossessa,
imperversando nell’aria persa, più impavida di notte;
sognando malignità, ho fatto l’autostop
sopra le case della pianura, di fanale in fanale:
cosetta amabile, con dodici dita, fuori di testa.
Una donna così non è una donna, certo.
Come lei son stata anch’io.

Nei boschi ho scovato gli anfratti al calduccio
e riempiti li ho di pentoloni, soprammobili, mensole,
armadi, sete e acquisti innumerevoli;
ho preparato cenette ai vermi e agli elfi:
struggendomi, riaggiustando le storture.
Una donna così viene fraintesa.
Come lei son stata anch’io.

Ho scarrozzato nella tua macchinetta, autista,
sventolato le nude braccia ai villaggi che passavamo,
imparando gli ultimi tragitti di luce, scampata
alle tue fiamme che ancora mi mordicchiano le cosce
e stretta nella tua morsa mi scricchiolano le costole.
Una donna così non ha vergogna di morire.
Come lei son stata anch’io.
Anne Sexton (trad. di Nicola D’Ugo)

Her Kind

I have gone out, a possessed witch,
haunting the black air, braver at night;
dreaming evil, I have done my hitch
over the plain houses, light by light:
lonely thing, twelve-fingered, out of mind.
A woman like that is not a woman, quite.
I have been her kind.

I have found the warm caves in the woods,
filled them with skillets, carvings, shelves,
closets, silks, innumerable goods;
fixed the suppers for the worms and the elves:
whining, rearranging the disaligned.
A woman like that is misunderstood.
I have been her kind.

I have ridden in your cart, driver,
waved my nude arms at villages going by,
learning the last bright routes, survivor
where your flames still bite my thigh
and my ribs crack where your wheels wind.
A woman like that is not ashamed to die.
I have been her kind.
Anne Sexton

(Anne Sexton, Selected Poems of Anne Sexton, Houghton Mifflin, Boston 2000, p. 18. A cura di Diane Wood Middlebrook, Diana Hume George).

BIOBIBLIOGRAFIE SINTETICHE
Frank O’ Hara
Nato a Baltimora nel 1926, poeta, critico d’arte e pianista, protagonista della Scuola di New York, curatore della sezione di pittura e scultura del Museo d’Arte Moderna e amico di molte figure di primo piano del panorama newyorkese, fra cui Willem de Kooning, Norman Bluhm, Larry Rivers e Joan Mitchell.
Fra i volumi di poesia da lui pubblicati: A City Winter and Other Poems (1952), Oranges: 12 Pastorals (1953) Meditations in an Emergency (1957), Second Avenue (1960), Odes (1960), Lunch Poems (1964), Love Poems (Tentative Title) (1965), Live or die (1966), The Collected Poems of Frank O’Hara (1971).
In italiano sono usciti un libro di poesia ed uno di saggistica: Lunch poems (Milano 1998) e Jackson Pollock (Milano 2002). Alcune sue poesie sono state tradotte nell’antologia AA.VV., Nuova poesia americana. New York (Milano 2009). Nel luglio del 1966, all’età di quarant’anni, è stato investito da un’auto a Fire Island. Scolpiti sulla sua tomba si leggono questi versi tratti dalla sua poesia «In Memory of My Feelings»: “Grace to be born and live as variously as possible” [“La Grazia di nascere e vivere quanto più vari si possa”.]

Anne Sexton
Nata a Newton, vicino Boston, il 9 novembre 1928 è stata una scrittrice e poetessa statunitense, una delle più importanti del Novecento. Sperimentò – con la sua amica poetessa Silvia Plath – la poesia come espressione psichica, quella che poi verrà definita “poesia confessionale”. Scrisse molto. Gli anni Sessanta furono un crescendo di pubblicazioni e successi fino al premio Pulitzer per la raccolta Live or die. Le sue poesie sono piene di temi scabrosi come aborto, alcool, assunzione di psicofarmaci, libertà sessuale, pulsioni di morte. Tra le opere di Anne Sexton tradotte in Italia: La doppia immagine e altre poesie (Caltanissetta 1989); Poesie d’amore (Firenze 1996); L’estrosa abbondanza, (Milano 1997); Poesie su Dio (Firenze 2003); Una come lei e altre poesie (Pistoia 2010).
Si segnala l’intensa e documentata biografia: Diane Wood Middlebrook, Anne Sexton. Una vita (Firenze 1998).

3 pensieri su “La traduzione di poesia, Nicola D’Ugo

  1. Ringrazio Nicola D’Ugo per il notevole contributo critico offerto alla grande poesia del Novecento. Folgorante, avvolgente, stratificato, profondo il primo passo compiuto nella traduzione della poesia. L’effetto è quello di un percorso che si preannuncia di ampio respiro, rigermogliante, occasione di dibattito e di confronto, per i traduttori, i poeti, gli scrittori, e per tutti coloro che seguono questo blog.

  2. “Tradurre è sempre un’opera di servizio.”
    Ricordo Bellezza che nelle traduzioni alle opere di Rimbaud sottolineava sempre il carattere fisico, il corpo a corpo che il traduttore deve necessariamente avere con il poeta di altra lingua..che è lì..di fronte!
    Tra l’altro, il lavoro di traduzione migliora anche l’afflato del poeta ” in servizio “..

    Complimenti Luigia per questa nuova pagina del blog..
    avrà sicuramente fortuna!

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