Opere Inedite, Fabio Martello

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

Oggi leggiamo gli inediti di Fabio Martello. “Ipotesi Poetiche” è il titolo della raccolta. Fabio nella foto è ritratto accanto alla celebre statua di James Joyce a O’Connell Street, a Dublino. Nella telegrafica presentazione Fabio scrive: […] “Ho 45 anni. Sono sposato. Faccio l’impiegato. Scrivo per mio conto da anni. Non ho mai pubblicato né so se lo farò.” […]

Si comprende fin fai primi versi che l’autore di queste poesie indugia nella sua mappa scrittoria : “gioco a nascondino tra me e me/ nascondo la penna alla mia mano e viceversa./ Fatto è che gli scritti attribuibili a me medesimo scarseggiano,/ si fanno desiderare. La mia opera latita/ oppure si dissolve”[…] . Ma poi, continua e senza alcuna esitazione: […] “Dovendo profetare l’anno di nascita/ della mia fama letteraria – ebbene, io dico il 2074./ Non chiedetemi del criterio matematico-cronologico/ che sovrintende alla profezia./ Forse nemmeno Stendhal conosceva il proprio.”

 

AL CIMITERO

Con le prime giornate di sole,
i morti appaiono più sani, più rilassati.

Scrutando le foto dovremmo ravvisarvi
una rinnovata forma di pigmentazione.

E’ il miracolo della luce, che li stana dalla gelida ombra dell’inverno.

Guardo queste foto così gagliarde, ed estraggo un block notes.
La morte è così, la morte è cosà, e tante altre preziose (talora amene)
notizie di questo genere mi vengono generosamente elargite.
Sono lento a scrivere e qualcosa scappa sempre.

Uscendo dal cancello, il mio passo è decadente
e tuttavia ossessivo, raggelato
in una sua elusiva e discutibile circospezione.
Saluto mestamente chi entra.

Non fischietto solo perché il gesto
non si addice alla decadenza – altrimenti lo farei.
Nessuno si volta solo per via
della mia disperata eleganza – altrimenti lo farebbe.

Nessuno si è ancora accorto
degli appunti furtivamente infilati
nel suo proprio paltò.

 
FINCHE’

Scrivo sempre più lentamente.
Un tempo ero più veloce.
Negli ultimi anni rallento, mi do alla macchia scrittoria
gioco a nascondino tra me e me
nascondo la penna alla mia mano e viceversa.
Fatto è che gli scritti attribuibili a me medesimo scarseggiano,
si fanno desiderare. La mia opera latita
oppure si dissolve.
Si volatilizza, emigra certamente in un’altra biblioteca –
che non è la mia, che non è la vostra.
Scrivo poche parole la settimana.
Che diventeranno, tra non molto, poche parole al mese – 
              pochi sparuti graffi in un anno.

Vecchio, dovrò per lunghi e pazienti giorni
guidare una penna sopita ed incollerita
senza che ne esca una sola frase compiuta –
quella frase sarà il resoconto inacidito del mio vagito,
del mio ingresso nel mondo.
Un resoconto che non ho saputo scrivere da piccolo,
non foss’altro perché non sapevo ancora scrivere.

BLASE’

Bisognerà pur abituarci all’idea che con l’età
le facce involgariscono, diventano contadine.
Certo: c’è contadinità e contadinità.
Dal canto loro, i contadini partono – ed arrivano – avvantaggiati:
a sei, otto, dieci anni, ne hanno già ottantuno.

Gli aristocratici son messi peggio, vanno più lenti. Il passo è un altro.
Quando vedo un giovane rampollo – in genere mi volto dall’altra parte.
Non è credibile.
Non è fededegno.
Non è pedissequo.
Stento a credere a quel che fu e, per lo più, a quel che sarà.

Le vie delle maschere devono però essere infinite. Ed eque.
Alla fine anche l’aristocrazia taglia il traguardo. Tempi tecnici,
anch’essa arriva ad indossare la bugnata e poco elegante maschera.

Li rivedrò – questi rampolli – tra qualche anno,
dopo strati di decenni,
ed allora la recita sarà più naturale, più credibile la scena.

HORRIBILIS

La lettura è qualcosa di orripilante.
Una mostruosità che acceca.
Un giorno ormai lontano, sentii addirittura qualcuno
pronunciare cancro. Cancro cieco ed accecante.

(Una volta ebbi persino la visione del libro di Kubin:
i suoi orrori:
gli stessi orrori che muovono
le orde degli uomini accecati dai libri).

Non so quali rimedi adottare.
Anche se vi ho spesso pensato.
Vi è stato un tempo in cui pareva
dovessi gridare eureka: alla morte di mio padre –
la morte, pensavo, doveva mettere in fuga i libri.

Ma con il passare della morte è poi
passato del tempo – il tempo.
E così come mio padre non è
certo resuscitato,
così come mio padre non me lo sono
certo dimenticato,
la morte non ha affatto messo in fuga i libri.

Li ha proditoriamente raccolti, sedimentati,
stivati in polverosi ed affettuosi scaffali
tutti da rovistare,
tutti da spiare
con acrimonioso
e fallimentare rimpianto.

RISVEGLIO

 

Bussarono alla porta della camera ed io
ero ancora a letto. Mi fuoriusciva il piede
dalle lenzuola.
Oh, si vede il piedone, avevi detto,
appena alzata.
Aprirono, dopo aver bussato;
ma subito dopo chiusero.
Vedi, ti dissi, un piede serve sempre. E tu che
non ne volevi sapere. Hanno visto un piede e
sono scappati – o scappate.

Previdenza del frequentatore delle
camere d’albergo.
Piccoli e micidiali trucchi
del viaggiatore.
Lungimiranza dell’uomo che
conosce le debolezze degli intrusi
– o delle intruse.
Stato di necessità di chi
– nolente o volente – deve esistere.
Questo e forse altro ancora
devo averti detto (ancora).

—-

P.S. ALLA FINE, I DENTI ME LI LAVO

L’istinto è quello di non lavarmi i denti.
Per ignavia.
Per atavico rispetto della sporcizia
– il mio sangue è, e rimane, contadino.
Per un intimo e fatale senso di dissoluzione: so
(ho l’impressione)
che non lavandomi i denti, la bocca
comincerà a imputridirsi, a poco a poco;
e dalla bocca
– almeno alla fine, quando ormai tutto sarà compiuto –
si dirameranno altri ingovernabili mali.

Ne risulterà una cancrena generale e caotica,
un abominio di cellule e sangue.
Ne risulterà che morirò.
E che mi omaggeranno di un dovuto funerale
– l’atto conclusivo e sociale
di questa pigrizia igienico-sanitaria.
Il quale funerale non vedrà, a dire il vero,
molti partecipanti: tutti, in ogni caso,
lo sguardo diretto al sole,
sfacciatamente distanti dalla bara.

BAGLIORI

Dovendo profetare l’anno di nascita
della mia fama letteraria – ebbene, io dico il 2074.
Non chiedetemi del criterio matematico-cronologico
che sovrintende alla profezia.
Forse nemmeno Stendhal conosceva il proprio.

Il mondo – come si dice – sarà allora
definitivamente pronto.
Una nuova e più austera aria
– atmosferica ed esistenziale –
tirerà sopra città e campagne.
Si musicherà la musica in altro modo,
sulle parole batterà
un accento più verace ed inquietante,
la vista,
la vista scoprirà inediti e numinosi profili
delle vecchie cose di sempre.
Si camminerà,
riderà,
ascolterà,
ammiccherà,
dubiterà,
tossirà in modo diverso –
e tutto ciò grazie alla mia opera
finalmente illuminata dalla fama.

Devo cominciare a sistemare i paltò,
per intanto,
questi già consunti giacconi,
questi pantaloni di apparente velluto
o di chissà quale altro scadente tessuto –
cosa saranno diventati, per quel tempo?
Dovrò aggregarli sì che prendano
l’un con l’altro confidenza.
Che si lascino andare al fumo nostalgico
dei segreti non ancora rivelati.
Ogni ragionevole alibi per coltivare
il dubbio, la diffidenza reciproca, dovrà
essere disperso, per allora.

Per il 2074 gli ultimi indugi devono
essere definitivamente rotti, spianate le strade
delle sommesse e nostalgiche confessioni.
Poiché sarà solo tra queste muffose
maniche fodere cuciture che brucieranno
i fuochi fatui della mia ineguagliata fama,
della mia gridata e battagliera opera.

di Fabio Martello

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