Luca Nicoletti, “Il paese nascosto”

Luca Nicoletti

Nota di lettura di Alberto Fraccacreta

Da sempre il carattere più autentico della poesia è la meraviglia, l’incontro taumatico con la realtà. Che i poeti cerchino, infatti, l’«innocenza essenziale» lo ha sottolineato a più riprese Derek Walcott. Questo è senz’altro uno dei fili conduttori dell’ultima silloge di Luca Nicoletti, Il paese nascosto (prefazione di Giancarlo Pontiggia, peQuod, pp. 101, € 15). Ci sono almeno due linee tematiche che ne confermano la tendenza: l’incontro decisivo con la madre e lo svelarsi, lento e crepuscolare, di quel “paese nascosto” popolato da persone, cose e animali («La lucertola che si disseta/ aspetta senza paura/ le gocce che lascio cadere/ sulla piccola foglia»), capaci di formare una sottocutanea e sottintesa comunità, una tribù poetica legata ungarettianamente alla memoria (con accenni mituali che fanno pensare anche a Giuseppe Conte). Paese nel quale si dipana appunto il “meraviglioso” heaniano, partendo proprio dallo sguardo assorto del rettile: «Torna a bere, mi guarda/ il suo occhio m’incontra,/ sembra dirmi/ la sua meraviglia». Il gioco d’occhi e lo scambio irriflesso di stupore guidano la poesia di Nicoletti lungo «un passaggio alato», dov’è possibile risolvere «il nome, e l’assonanza/ nella metrica dei campi» (San Clemente prelude), tersa immagine di una letteratura tattile.

La silloge è divisa in due parti principali, composte a loro volta di cinque (nessuno crede, fuori campo, itinerari intermodali, sull’orlo dell’estate, notiziario del mio io) e quattro sezioni (esile mito, il juste milieu, Parco della Resistenza, Le traversate di Petit), a certificare una sorta di voluta slabbratura tra il dettame inziale e le conclusioni “provvisorie”: come se mancasse un pezzo, un tassello. Si può, tuttavia, immediatamente notare l’attenzione al luogo con valenza “odigitrica”, cioè di via — in senso sacro — che viene indicata dalla stessa tensione lirica. Come sottolinea Giancarlo Pontiggia nella Prefazione, «i versi di San Clemente prelude definiscono non solo un territorio e un paesaggio di familiare e ancestrale verità, ma anche il moto stesso dell’ispirazione poetica: una “via” che “emerge dal profondo”, e i cui caratteri sono già inscritti nei propri declivi». Se nella prima sezione la presenza della Romagna e i miti fondativi campestri circondano, o meglio serrano il pensiero del soggetto («parole delle cose di noi/ rimaste lontano, in un tempo diventato spazio/ disseminato di momenti/ trasformato in luoghi»), in fuori campo appare, come si diceva, il passaggio della madre del poeta: passaggio intermittente, crepitante di luce, eppure slancio etico, esemplarità della persona in vita («se penso/ a quel modo, a quel saper essere umana/ già sulla soglia del mondo,/ guardando così/ il suo vecchio mondo»).

Ecco che l’univoco transito viene proposto secondo itinerari intermodali — terza sezione —, ossia seguendo differenti tipologie di trasporto, grazie alle quali sorge, seppur in forma quotidiana e silenziosa, un’epifania à la Joyce («luce e spazio disposti dal Buontalenti/ attorno al punto più recondito dell’anima/ la piccola scultura, la fragile dea/ che ci incanta, e con le ombre/ si ritrae»). Un sentimento luziano promana la duplice visita fiorentina, che si allarga nella successiva sequenza, sull’orlo dell’estate, titolo ripreso proprio da un verso di Luzi (dalla poesia Terrazza, presente in La barca). Nondimeno, le intonazioni, le accensioni divengono anche montaliane, con alcune parole-chiave e stilemi («rissa», «lampo», «limbo», «è tardi») forse provenienti da una reminiscenza di Notizie dall’Amiata, che comunque attestano la presenza inoppugnabile del soggetto franto, dell’io errante, in cerca di nuovi nugoli di senso. Notiziario del mio io, in chiusura della prima parte, suona allora come diario di una convalescenza interiore («Sei finito nella rete./ Qui il ritorno delle maschere invischiate/ nella perdurante opera/ di distruzione capillare»).

Tutta la seconda parte si stacca dal solipsismo per assumere un andamento politico-civile ancorché disincantato. Persino il linguaggio si depetrarchizza: c’è posto per la «globalizzazione», per i «quark» e gli «antiquark», per «George Orwell» e le «due riduzioni/ di millenovecentottantaquattro». Torna Montale (ma il Montale critico: è ripreso un celebre autocommento apparso sul Corriere della Sera, Due sciacalli al guinzaglio) con il juste milieu e con le dichiarazioni di poetica in negativo, com’è detto nella lirica di congedo: «Non chiedermi cos’è una poesia,/ non cercare troppo nelle parole/ che hanno un passo solenne». Definizione parziale e dimessa di una poesia umile, discreta che non cerca allocuzioni assiologiche, ma si concentra sul particolare. Anche su un giovane ragazzo, incontrato in un liceo di San Severo, con il suo desiderio di essere «qualcosa/ di diverso, di non preordinato». Il più vivido «dono del futuro».

Luca Nicoletti, da Il paese nascosto

Restane fuori. Resta fuori
da questa rissa di ricordi
non prendere le parti
di un mancato sussulto o
di un eccesso del cuore
senza nemmeno sapere
se quegli anni sono morti
e se chi parla lo fa per indurti
in un banale errore.
La memoria, si sa, nasconde
ciò che vuole. E quando arriva
o è un lampo o si traveste,
non porta sempre il sole.

Axis mundi

1.

Sul crinale che diverge, le pietre bianche
del Coriano Ridge War Cemetery
sembrano piccoli denti, lambiti dalle ombre
che cadono sul prato, e disegnano arabeschi.
Dopo il lungo grido, la ferita della terra.
L’erba tenera, dove passava la linea gotica.

Sull’altra strada, prima dell’ultimo colle,
il mare appare subitaneo
come un dubbio emerso alla coscienza.
L’enigma si presenta, si impone nel cemento
di un palazzo inconcluso, un rudere arenato
nei giorni che non vanno avanti.

Sgretolato ogni possibile appiglio al tempo
si definisce il profilo della sfinge,
prende corpo nella sospensione. In quel folle
isolamento svetta come una domanda
a cui è difficile sottrarsi. Chiede conto a chi passa
di tutte le illusioni, dice di un benessere
immaginato eterno…

2.

Si spegne stanco, nelle finestre senza vetri
il mugolio del tempo, sopraffatto dalla primavera

l’euforia dello sguardo, senza misura
è in questa invocazione luminosa, sorgente diffusa, inarrivabile
del qui e ora

…l’Adriatico, come un sogno ricorrente
e la Valconca divina, abissale, sterminato istante
increspato, immutabile tra le pendici
dell’onnipresente Appennino.

3.

Si agitano lontano, inutilmente, le prime luci
che radunano la sera. Si prepara la vita dolce, ininterrotta
nella linea lunga della costa.

Luca Nicoletti è nato nel 1961, ha studiato architettura presso l’Università di Firenze, vive e lavora a Riccione. Nel 2006 ha pubblicato L’essenza del mosaico, la prima raccolta di poesie, con prefazione di Gualtiero De Santi (ed. Pazzini, Villa Verucchio); nel 2010 la plaquette Rosa — Sarò, in ricordo della madre (ed. Raffaelli, Rimini). Nel 2015 la seconda raccolta di poesie, Comprensione del crepuscolo, con prefazione di Alberto Bertoni (ed. Passigli, Firenze) e nel 2019 l’ultima raccolta, Il paese nascosto, prefazione di Giancarlo Pontiggia (ed. Pequod, Ancona). Una selezione di sue poesie è compresa nel volume antologico Dentro il mutamento (ed. Fermenti, 2011), con note di Maria Lenti.
La condivisione di quel “sentimento del luogo” che ha ispirato la poetica per immagini della madre Rosita, fotografa, è all’origine di alcuni eventi dedicati all’incontro di fotografia e poesia. Tra questi, le letture teatrali La Divina Valle, tratta dal poemetto eponimo contenuto nel primo libro, e Il paese poetico, dedicato alla poesia e ai luoghi di Giovanni Pascoli. L. N. è inoltre ideatore e curatore della rassegna San Giovanni in Marignano, Città della Poesia. Con Il dono del paesaggio è stato relatore in un ciclo di incontri del convegno Passaggio nel paesaggio, promosso dal comune di San Severo con il patrocinio della regione Puglia e dell’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Foggia.

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