Seamus Heaney, “Sweeney smarrito”

Seamus Heaney

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Impossibile dar conto della bellezza mistica che si prova nel leggere, o meglio nell’auscultare, Sweeney smarrito (a cura di Marco Sonzogni, Archinto, pp. 252, € 16), traduzione italiana della traduzione (inglese) di Seamus Heaney del poema medievale Buile Suibhne, che narra la pazzia e la trasformazione in uccello del re di Dal-Arie «a compimento della maledizione di Ronan il santo». Se è vero quel che dice Walser («ormai sono solo un orecchio, un orecchio indicibilmente commosso»), qui siamo di fronte a una sfilza di nomi, descrizioni e immagini lussureggianti. L’udito ne esce polverizzato. Lo stesso Heaney nella sua Introduzione all’opera ci avverte: «Per trovare una poesia con una così struggente sensibilità per le bellezze e i rigori del mondo naturale dobbiamo andare a Re Lear e alle folli parole di Edgar travestito da povero Tom — esso stesso interessante parallelo della condizione di Sweeney. […] È stata la nudità e la durevolezza della scrittura di Buile Suibhne, il duplice registro di godimento e penitenza, che mi hanno tentato a cimentarmi con la traduzione».
Pubblicate nel Regno Unito tra il 1983 e il 1984 (Faber & Faber), anno d’uscita di quella pietra miliare della lirica heaniana che è Station Island, finalmente le gesta del re Sweeney (alter-ego del poeta, come si può facilmente arguire dall’assonanza), già noto al pubblico italiano attraverso il romanzo di Flann O’Brien, Una pinta d’inchiostro irlandese (traduzione di Rodolfo Wilcock, Adelphi 1993), sono disponibili nella loro arcaica estaticità. Sweeney Astray — questo il titolo originale, che fa da pendant al residuale Sweeney Redivivus di Station Island — è la riscrittura in prosimetro di una leggenda gaelica (ma il personaggio principale è realmente esistito) che circolava tra VIII e il IX secolo. L’antefatto è riassunto nelle prime pagine del testo: «Un giorno, quando Sweeney regnava su Dal-Arie, Ronan vi giunse per fondare una chiesa chiamata Killaney. Da dove si trovava Sweeney udì il tintinnio della campana di Ronan intento a tracciare il perimetro del sito, e chiese alla sua gente cosa fosse quel suono. — È Ronan Finn, figlio di Bearach, dissero. Sta fondando una chiesa sulla tua terra e quello che senti è il suono della sua campana. Eorann, sua moglie figlia di Conn di Ciannacht, provò a trattenerlo e s’aggrappò all’orlo del suo mantello cremisi, ma il fermaglio d’argento che aveva sulla spalla si ruppe e schizzando via attraversò la stanza. Lei riuscì ad afferrare il mantello, ma Sweeney era già fuggito, nudo come un verme, e in men che non si dica piombò su Ronan».

Su Sweeney, come detto, cade l’anatema di Ronan nel giorno della battaglia a Moira: «Folle e nudo per l’Irlanda vagherà». Di qui le incessanti peregrinazioni del roi nu, le quali sono immerse in una dovizia di particolari paesaggistici, in una precisione botanica sverniciata da acute ragnatele fonosimboliche. La sonorità (effetto del meraviglioso nominalismo medievale) è uno degli aspetti di fascino — in senso blanchottiano — dell’opera. Osserviamo queste due stanze, riferite al ristoro dell’eroe a Glen Bolcain: «Così appare Glen Bolcain:/ da quattro lati è aperta ai venti,/ ha piacevoli boschi, polle d’acqua dalle rive sgombre,/ fresche fonti e chiari ruscelli dai letti sabbiosi/ dove il verde crescione e la languida veronica/ civettano a pelo d’acqua.// È la dispensa della natura/ con l’acetosa, l’acetosella,/ le bacche, l’aglio orsino,/ la bruna ghianda e la prugna nera».
In una chiesa sullo Shannon, Sweeney sempre fuggitivo recita: «O Cristo, pieno d’amore e senza peccato,/ ascolta la mia preghiera, soccorrimi, o Cristo,/ e fa’ che nulla ci separi./ Accoglimi sempre nella tua grazia». Il peccato sarà perdonato solo dopo un lungo vagolare. Questo perché, almeno simbolicamente, rappresentando Sweeney «anche la figura dell’artista — sradicato, colpevole, che trova lenimento nella propria espressività», per Heaney è «legittimo leggere il testo come un aspetto della contesa tra la libera immaginazione e le coercizioni imposte». Commovente è poi l’incontro dell’uomo uccello con la moglie abbandonata in una pianura del distretto di Armagh. Proprio Eorann, però, riflette sulla follia del marito con toni nostalgici e integro amore: «Vorrei che volassimo via insieme,/ piumati uccelli, rotolanti pietre:/ mi lancerei in picchiata per rallegrarti il volo/ e di notte mi stringerei a te sopra il posatoio».
Giunto a Gleann na n-Eachtach nel Feegile, con una vecchia strega alle calcagna, al bramire di un cervo Sweeney compone una lunga ode a tutti gli alberi d’Irlanda, che è forse il cuore del libro. I «getti biforcuti del nocciolo», l’ontano, il pruno, il sorbo selvatico, la betulla «liscia e benedetta»; e infine questa bellissima quartina che ricorda molto da vicino l’ultimo Heaney di Un erbario (Catena umana): «Amo il fusto antico dell’edera,/ il salice dalle pallide fronde,/ il sibilo melodico della betulla,/ il tasso solenne». Ma la peregrinazione non ha fine e il riparo «rosseggiante di alte felci» è presto lasciato.
Spesso, per Sweeney, il ricovero a cielo aperto diviene allora «fredda brughiera», e le canzoni per la bellezza delle cose naturali cangiano in melodie tristi, incasellate in una fitta trama di elenchi: «Spigolo, spoglio e setaccio ogni notte/ il sottobosco del querceto./ Le mie mani tastano foglie e cortecce,/ radici, frutti abbattuti dal vento,// frugano nell’intrico dei crescioni/ e rovistano tra bacche di palude,/ umidi muschi, fresche veroniche,/ acetose, aglio selvatico, lamponi,// mele, nocciole, ghiande,/ bacche d’aguzzo, sfrangiato biancospino,/ more, malerba ondeggiante,/ tutto quel che si trova in un querceto». Come si vede, crescione è parola decisiva del poema: ed è significativo che lo sia il nome di una pianta commestibile. Ad avvalorare l’ipotesi di una poesia del tangibile, del seeing things, in linea con il temperamento letterario di Heaney e con un’estrema freschezza d’intenti.
Dopo altre peripezie è l’ora dello scambio di battute con il chierico Moling. Quale senso d’arcano è sprigionato in una simile, finissima dicotomia drammatica (in quest’opera totale c’è spazio persino per le sizigie strofiche): «Moling: Guarda questo foglio dal libro di Kevin,/ come si avvolge sulla pagina del salterio./ Sweeney: La foglia del tasso avvolge la mia nicchia/ nel fitto del fogliame della valle di Bolcain».
Finalmente Sweeney trova un posto in cui poter tornare. Per quanto lontano si spingerà vagando per l’Irlanda, a sera dovrà rientrare a San Mullins da Moling perché egli possa affidare agli annali la sua incredibile storia. Il destino del re è però scritto lì, vittima del porcaro Mongan. «Subito Moling e i suoi confratelli accorsero dove giaceva Sweeney e questi si pentì e si confessò a Moling. Ricevette il corpo di Cristo e ringraziò Dio per averlo accolto e poi fu unto con l’olio santo dai chierici». Tra le ultime parole del figlio di Colman Cuar ancora un’esaltazione della vita raminga: «Statevene pure nella calma claustrale/ della conversazione dei vostri studenti;/ io studierò il canto puro/ dei cani che abbaiano in Glen Bolcain». A cui segue l’ultimo respiro dell’eroe e il commosso elogio funebre da parte di Moling.
Sweeney smarrito è un libro di vera poesia, una perla di alto valore etico riesumata dagli scrigni del Medioevo a opera di uno dei maggiori poeti in lingua inglese del XX secolo, che esistenzialmente e topograficamente (i due condividono la contea di Antrim) si sentì prossimo allo sradicamento politico e spirituale dell’antico re. Sweeney smarrito è anche un’esaltazione dei riti naturali e religiosi attraverso descrizioni granitiche, ricche di pathos, con il sincero trasporto della fede. Non si può comprendere a fondo la poetica di Heaney, se non si passa sotto la forca caudina di questo poema che fissa irrimediabilmente i termini di riferimento spaziale, tematico e morfologico nell’immaginario lirico dell’autore irlandese. La spontaneità priva d’artificio dei versi, il nitore delle immagini e la concretezza plastica delle situazioni sono ricreate nell’arduo desk work di ri-traduzione, concertato sotto la guida di Sonzogni da un gruppo di studiosi e amanti di Heaney. Una traduzione polifonica e corale, dunque, della quale si nota l’uniformità perfettamente bilanciata alla tessitura stratificata del testo.

Seamus Heaney, Sweeney smarrito

The bushy leafy oak tree
is highest in the wood,
the forking shoots of hazel
hide sweet hazel-nuts.

The alder is my darling,
all thornless in the gap,
some milk of human kindness
coursing in its sap.

The blackthorn is a jaggy creel
stippled with dark sloes;
green watercress in thatch on wells
where the drinking blackbird goes.

Sweetest of the leafy stalks,
the vetches strew the pathway;
the oyster-grass is my delight
and the wild strawberry.

La quercia folta e frondosa
è l’albero più alto del bosco,
i getti biforcuti del nocciòlo
nascondono dolci nocciole.

L’ontano è il mio tesoro,
tutto senza spine nella forra,
un po’ di latte di umana dolcezza
scorre nella sua linfa.

Il pruno è un cesto frastagliato
punteggiato di prugnole nere;
il verde crescione fa da tetto alle sorgenti
dove va a bere il merlo.

Dolcissime tra gli steli frondosi,
le vecce si spargono lungo il sentiero;
la spartina è la mia gioia
e anche la fragola selvatica.

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Seamus Heaney (1939-2013) — poeta, traduttore e saggista tra i più letti, studiati e seguiti del nostro tempo — è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura (1995) per opere «di lirica bellezza e profondità etica, che esaltano i miracoli quotidiani e il passato che vive». Sweeney Astray (Field Day Publications, 1983; Faber and Faber, 1984) è la riscrittura di un’anonima storia in irlandese che inizia a circolare tra l’VIII e il IX secolo. In questa prima traduzione in volume Heaney dà già sfoggio della sua abilità di cogliere l’universale nell’autoctono. Sweeney Astray è dimostrazione di come la poesia possa essere «modello pratico di una consapevolezza inclusiva» in cui «le coordinate della cosa immaginata corrispondono a quelle del mondo in cui viviamo e sopravviviamo».

Marco Sonzogni insegna traduttologia alla Victoria University of Wellington in Nuova Zelanda. Ha dedicato la sua attività scientifica allo studio e alla traduzione della poesia di Seamus Heaney e fa parte del gruppo di lavoro internazionale che sta curando l’edizione definitiva delle opere del poeta nordirlandese.

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