Tre poesie di Paul Muldoon

Paul Muldoon

Pelt

Now rain rattled
the roof of my car
like holy water
on a coffin lid,
holy water and mud
landing with a thud

though as I listened
the uproar
faded to the stoniest
of silences… They piled
it on all day
till I gave way

to a contentment
I’d not felt in years,
not since that winter
I’d worn the world
against my skin,
worn it fur side in.

 

Rovescio

Tamburellare di pioggia
sul tettuccio della mia auto
come acquasanta
sul coperchio di una bara,
acquasanta e fango
che s’abbatte con un tonfo

benché mentre ne ascoltavo
il frastorno
quello s’affievolì nel silenzio
più spietato… L’ammucchiarono
per tutto il giorno
fin quando non m’abbandonai
a una contentezza

non avvertita da anni,
non da quell’inverno
in cui avevo indossato il mondo
sulla pelle nuda,
indossato la pelliccia verso l’interno.

Traduzione di Luca Guerneri

*

Swede

E l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero…
Leopardi, ‘La quiete dopo la tempesta’

‘Isn’t that a turnip for the books?’
he would set a mud-caked, top-knotted swede
on an impromptu set of scales
in the back of his pick-up
and hold a mirror to a rain-bright market square
in the heart of Ulster.

And wasn’t it like something out of a book
when a cowboy in a coat of purple-fringed suede
shot him in the head as he drank a pint of ale
in the back room of The Small Sup
and notted to him, ‘Now we’re all square’,
as he buttoned the flap of his holster?

Testa di rapa

E l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero…
Leopardi, ‘La quiete dopo la tempesta’

‘Non è una testa di rapa da far notizia?’
piazzava una navona crestata e di fango incrostata
su una bilancia improvvisata
nel retro del suo furgoncino
una piazza lucida di pioggia specchiando pari pari
nell’Ulster più profondo.

E non è frutto dell’immaginazione
la storia di un cowboy in giacca frangiata di viola e scamosciata
che gli sparò in testa mentre beveva una birra ghiacciata
nel retro del bar Il goccettino
e annuendo gli disse: ‘Adesso siamo pari’,
riabbottonandosi la fondina?

Traduzione di Marco Sonzogni

*

Medley for Morin Khur

I
The sound box is made of a horse’s head.
The resonator is horse skin.
The strings and bow are of horsehair.

II
The morin khur is the thoroughbred
of Mongolian violins.
Its call is the call of the stallion to the mare.

III
A call which may no more be gainsaid
than that of jinn to jinn
through jasmine-weighted air.

IV
A call that may no more be gainsaid
than that of blood kin to kin
through a body-strewn central square.

V
A square in which they’ll heap the horses’ heads
by the heaps of horse skin
and the heaps of horsehair.

 

Medley per il morin khuur

I
La cassa armonica è fatta da una testa di cavallo.
Il risuonatore è pelle di cavallo.
Le corde e l’arco sono di crine di cavallo.

II
Il morin khuur è il purosangue
dei violini mongoli.
Il suo è il richiamo dello stallone alla cavalla.

III
Un richiamo che non può essere ignorato
non meno di quello tra genii
per l’aria riempita dal gelsomino.

IV
Un grido che non può essere ignorato
non meno di quello tra consanguinei
in una piazza centrale rivestita di cadaveri.

V
Piazza in cui ammucchieranno le teste dei cavalli
con mucchi di pelle di cavallo
e mucchi di crine di cavallo.

Traduzione di Alberto Fraccacreta

*

Le tre traduzioni, qui presentate in anteprima, chiudono il cerchio celebrativo che l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo ha voluto dedicare al nordirlandese Paul Muldoon con la consegna del Sigillo d’Ateneo avvenuta il 26 giugno, ad opera del Rettore Vilberto Stocchi. L’evento, organizzato con la collaborazione del CTU Cesare Questa e di Urbino e le Città del Libro Festival, ha visto anche un’esibizione serale del poeta Premio Pulitzer con canzoni scritte di proprio pugno – e da lui interpretate in virtù di una vocalità scura, a metà tra Tom Waits e Lou Reed – e spoken words, parole per la musica, mirabilmente accompagnate dal Black Cat Trio, gruppo blues urbinate.
Personaggio eclettico ed estremamente “scenico”, dotato di fortissima carica performativa, Muldoon è annoverabile anche tra i poeti più complessi nei quali può imbattersi un traduttore. Amante di ubriacature granulose e ritmate, di gabbie metriche fusibili, vero e proprio prestigiatore del sonetto, l’autore proveniente da una famiglia cattolica dell’Ulster settentrionale sembra alla perenne ricerca di un’ulteriorità espressiva – si è parlato di «libertà linguistica sconfinata» (Magrelli) –, per certi versi in stretta somiglianza con il nostro Zanzotto (anche se Muldoon riconosce in Montale il suo poeta italiano “preferito”). La beltà ricercata da Muldoon è, però, spesso paradossale e contrastiva, metricamente controllata e tematicamente dissimulatrice, sospesa lungo una matassa di aposiopesi e non detto, di eirōneía e intertestualità difficilmente districabile: il rovescio di acqua e fango come «pelliccia» del mondo, lo strano legame che può sussistere tra il cavolo navone e Leopardi, infine il richiamo estatico e feroce del morin khuur che risveglia l’origine tanatica del rapporto tra arte ed efferatezza (con un chiaro riferimento nel quarto tempo della poesia ai Troubles che hanno infestato l’Irlanda nel secolo scorso). Tutti temi, questi, che ricorrono nei testi muldooniani come un mantra e li rendono profondamente scanalati – con picchi di postmodernismo e neometricismo –, fintamente disorientati ma disorientanti, lontani da ogni chiamata al dunque, enigmatici nella misura in cui le immagini, ridestate ex abrupto dalle diritture etimologiche e dalla iunctura acris di certi accostamenti, splendono sulla pagina nella loro nuda evemenenzialità. Per tornare allo strumento mongolo, assieme all’innocuo intreccio di finzione e definizione che campeggia la prima parte della lirica si possono scorgere nella parola stessa, khuur, connotazioni velleitarie e sanguinose (significa “faretra”) che celano allusivamente rimandi ai peggiori crimini di guerra della storia, come ha notato Carol Rumens sul Guardian. L’elevata finitezza formale non coincide mai con un vuoto flatus vocis, né perde per strada collegamenti semantici ed etici in vista di un’autocelebrazione. Da elogio enunciativo/denunciativo dello strumento, da notazioni amorose e magiche – il richiamo naturale tra cavalli, il gelsomino pascoliano e i jinn – si passa così al grido dei parenti nell’atroce pulizia dopo il massacro. L’epoché che si avverte nel non dire, non spendere altre – inutili, forse? – parole si allinea perfettamente alla visione del mondo del poeta, fatta di envers du décor, silenzi occlusivi, occhiate elusive, sottintesi eloquenti, perduta e presente, lontana e vicina aura benjaminiana (devo a Luca Guerneri questo utilissimo accostamento).
L’assetto politico muldooniano è, quindi, inseparabile dal suo contraltare metafisico: davvero un walking on air, camminare sull’aria secondo Heaney (segnalato sempre da Guerneri nella sua postfazione a Poesie, Mondadori, 2008), e non a caso è John Donne – insieme al dream logic di MacNeice – il maggiore nodo linfatico della sua scrittura in versi, capace di giustapporre sensazioni acuite a parabole retoriche, senso di giocosità ritmica a tragedie individuali e collettive. Eppure, in queste soluzioni stilistiche di un neostilnovismo della Parola tout court, non manca – oltre ogni eventuale ecopoetry – il senso francescano di «contentment», di nuova fiducia verso il creato in una traccia di nostalgia soggettuale veramente significativa, una sorta di ritorno all’integrità e alla purezza («fin quando non m’abbandonai/ a una contentezza// non avvertita da anni»). Lasciamo ora al lettore l’interpretazione del possibile – senz’altro virtuosistico, eppure sostanziale – nesso tra Leopardi, la storia del cowboy e la «testa di rapa».

Alberto Fraccacreta

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