Giulio Maffii, “Angina d’amour”

Giulio Maffii

Nota di Giovanni Ibello

È impossibile definire la poesia. È difficile anche solo parlarne liberamente, senza cadere nella retorica. È molto probabile che essa si riveli nell’atto stesso dello scrivere, ragion per cui non è compito del poeta intellettualizzare il momento creativo. Non sappiamo cosa sia una poesia (la famosa ‘salvezza del corrimano’ di cui scriveva la Szymborska), non sappiamo dove essa ci conduca, ma è ben possibile che – come sosteneva il compianto Dario Bellezza – scrivere versi sia “pura fisiologia”. Forse un verso esiste perché esistere era nel suo destino. Niente di più. Una delle poche certezze di chi vi scrive è la seguente: la parola poetica è “vittima” di un processo di sussunzione che riconduce sempre all’amore e alla morte. Lo sa bene Giulio Maffii che con il suo Angina d’amour (di prossima pubblicazione per l’editore “Arcipelago Itaca”), traccia un quadro scarnificante di questo sentimento, una giusta sintesi dell’amore fatale, dell’amore primo e ultimo. Un dettato poetico privo di fronzoli (sia nelle scelte lessicali che timbriche), composto da suoni e letture volutamente elementari e sferzate improvvise. L’angina coitale, che i francesi chiamano, appunto, angina d’amour, si verifica durante i minuti successivi al rapporto sessuale, ed è il dolore toracico pre-infartuale. L’amore, dunque, è quasi una “tara ereditaria”, e l’autore, con tono – tanto sardonico quanto ponderato – affronta il suo personale dialogo con l’assoluto. Nel lavoro di Maffii, il tema dell’origine diventa quasi spettrale. Amore e discordia sembrano due pugili che danzano macabramente sul ring, e a leggere i versi dell’autore, si ha la netta sensazione che l’intero universo dell’umano sia sul punto di collassare, e più in generale, di implodere. La sua visione delle cose è però lucida, distaccata. Maffii scrive versi d’amore ma non cede alla retorica del sentimentalismo o, peggio ancora, al diarismo. Il tono è quasi sempre uniforme, e un’ironica disperazione ci porta per mano alla fine. La bellezza di alcune poesie sta nella precisione di quei piccoli, impercettibili, movimenti… nel culto dell’esattezza, nell’atto puro e semplice dell’avere cura. Vengono in mente due versi di Magrelli tratti da “Ora serrata retinae”: “Preferisco venire dal silenzio / per parlare. Preparare la parola con cura”. È importante provare a mettere a posto le cose, ad ammansire il tremendo umano. Maffii lo sa. Si prende un bel rischio, ma il risultato è notevole. Questa ad esempio, è struggente:

Mi chiudi con le mani il cappotto
non avevo mai visto tanto amore
luccicarmi in fronte o nei paraggi
Poi lo abbiamo fatto davvero l’amore
un amore lungo uno scalpiccio ventricolare
quello dei resuscitati degli eccitati vinti
Non possediamo niente a parte il nome
e la carne fossile di qualche ricordo
Questa poesia non l’ho scritta io
l’ho trovata per caso e decifrata
sopra il tuo petto.

(da “Angina d’amour”, Giulio Maffii. Arcipelago Itaca, 2018)

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Giulio Maffii dorme abitualmente dal lato della porta, ma non disdegna il lato opposto. Osserva il mondo dagli zigomi delle finestre, dai balconi, dai finestrini d’auto. Spesso ci scappa un porticato. Adora attraversare corridoi. Vive e scrive. Studia e narra. Si può trovare di frequente sul web. Incentiva la piccola editoria, però quella seria e appassionata: qui pubblica volentieri. Ogni tanto accetta di buon grado premi, passeggiando tra l’odore amaro delle felci o incontrando sul cammino mucche che non leggono Montale. Prova ad essere saggio preferibilmente a giorni alterni, quando non incontra il tarlo sulla trave che si appresta ad assistere ad un ballo delle riluttanti.

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