Alessio Alessandrini, “Somiglia più all’urlo di un animale”

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IN VISITA ALLO STRETTO, APPUNTAMENTO IN MARE APERTO

di Lucilio Santoni

 

Alessio Alessandrini, quasi fosse critico d’arte, sembra operare una descrizione dei graffiti che la vita incide, a volte con sbadata crudeltà a volte con disarmante dolcezza, sul volto e sul corpo degli uomini, dove ognuno si riconosce sia vittima sia colpevole in quella che è la razionalissima eppure assurda “manutenzione del Creato”. Sempre che Creato si possa chiamare l’odierna Zattera della Medusa, dove i naufraghi, pur fra merci e manufatti di ogni tipo, si cibano ancora l’uno dell’altro: il romantico Gericault non avrebbe immaginato epilogo più banale e contemporaneamente più doloroso per l’umanità.

Tutto è bianco nei versi di Alessio. Reso bianco da nude lampade senza mistero che pendono dal cielo e non si sa se qualcuno le ha messe lì appositamente per gettare una luce senza remissione e senza pietà. E l’autore non si sottrae: usa quella luce impoetica per mostrare tutto, senza lasciare nell’ombra (o nell’ipocrisia) nessun aspetto che denunci la miseria e lo smarrimento della carne, la violenza che essa subisce soprattutto per via delle parole, per via di una falsificazione patetica della realtà. Il mandato poetico e umano, dunque, è quello di raccontare tutta la verità, anzi, far sì che la verità gridi, in modo animalesco e disperato.

COVER

“Il guardare, il toccarsi, il soffrire” sono relegati oggi in angoli della vita, non importanti, secondari rispetto alle nuove attività primarie: vendere, comprare, comunicare. Verso quale disonorevole solitaria morte ci avviamo! “Un lungo sentiero di detriti” ci aspetta, non per colpa del sindaco o del ministro che non hanno asfaltato la strada, ma perché la strada non esiste e tocca a noi inventarcela, pur dolorosamente coi piedi feriti, porto dopo porto e parto dopo parto, poiché solo il camminare fa la strada, come insegnava Antonio Machado. Anche se la madre si allontana sempre più verso ciò che è perduto, e con essa si allontanano le certezze, il focolare dell’infanzia, il calore stesso del sole; rimane solo il mare, inafferrabile, “in continuo fermento”, che rimanda all’inquietudine e alla bellezza, non certo quella menzognera dei corpi patinati, ma quella autentica dell’anima che traspare nell’impudico passare degli anni.

La salvezza è dirsi “a domani”, perché equivale un po’ a dirsi “ti amo”. La salvezza è abitare il pronome plurale, non per ingannarsi nel ritrovare l’oggetto perduto, che è perduto per sempre in una immemorabile lontananza di tempo, di spazio e di parole, ma per vivere la nostalgia, quella dolce e voluttuosa malattia del ritorno, magari incarnandola in una dolce creatura appena nata, il cui nome è più spagnolo che italiano, che magari s’immaginerà un giorno quarantaquattro gatti in fila con le code allineate, che magari dirà Papo Papone e vorrà andare in gita scolastica a visitare quello Stretto fonte di tanta poesia e di tanta vita che si nomina Scilla e Cariddi, che magari farà del canto e della “poesia che verrà” il suo cruccio e la sua liberazione.

 

 

ESTRATTI DA: “SOMIGLIA PIU’ ALL’URLO DI UN ANIMALE” (ITALIC, 2014)

LA PANCHINA AZZURRA

 

E ora come credi di poterlo
accomodare questo mare guasto
anulare nel giro esausto
delle onde se perpetui la tua
cantilena e leggi a lui
fino a l’ultima rima,
ninna nanna e nenia
dissanguate in aritmia.

Ecco lo proteggi come si fa con
un bimbo appena addormentato
la sera, ripeti favole a catena,
parole cedue incessanti senza via
ché a lui sia quieta, l’anima:
c’è una donna nuda che si bagna,
che bagna la sua schiena,
il mare la fa santa, accarezza
impazzito la sua pena.

Cosa credi di poter fare
davanti a tanta scena oscena?
A nulla vale continuare
se non a cantare perché
quella schiena risalga
la tua schiena.

Attendere il punto d’incontro
dove la luce cede il passo al buio;
un lampione moribondo
quieta il suo tossire e trova
una stasi per fare fioca vita intorno.
A nulla questo stormo di nuvole
brade, a nulla il mare rauco
che assottiglia il suo ritorno.
Tramano figure dal contorno
afono, felpate trafiggono l’arenaria,
un’auto sfiorisce appresso l’altra
in un singhiozzo senza requie.
Solo una donna sfrontata
nella sua carne eccessiva
si fa fotografare come per restare
viva, come se esistere
fosse ora in dubbio e
occorresse imprimere in acido
– una stampa di saliva –
il corpo così da evitare l’estinzione
in questo quarto d’ora opaco
dove anche la mia mina
si abitua al sonno, alla sparizione
e ogni parola brilla poco
e muore oltre questo
sottilissimo foglio.

Ho pensato poi che avrei potuto iniziare a camminare
lungo questo pezzo di costa, proseguire senza sosta,
una migrazione senza confini, costola dopo costola,
come i mufloni in quel documentario della Disney
che avanzano per chilometri e chilometri
[ sulle loro stesse tracce
sempre in costante processione, percussione.

Un cammino senza soste, eterno, lungo il filo
liso del tempo. Non è poi forse quello che facciamo:
questo correre, schivare colpi, attacchi delle prede
per imbastire un luogo, una residenza dove restare,
una vacanza dove riconoscersi e appendere
finalmente le scarpe al chiodo, non voltarsi.

Ma poi forse il nostro è un continuo navigare
un porto dopo un altro porto, dissepolto,
un parto dopo un altro parto, cesareo,
e non esiste approdo se non nello stesso camminare.

PUNTERUOLO ROSSO

Un vecchio ancorato al suo trono
bara alla corte del sole
prende le misure alla sua vita
senile, distanzia se stesso
dai rami della notte.

È un imperatore, un Budda
osceno, dalle grasse speranze
avvizzite in raucedine e cataratte.
Immobile come un tronco
emarginato sull’arenaria
solleva la sua faccia sfrontata,
gli occhiali da sole un paralume
alle lacrime, la bocca magra.

Lo diresti un gatto sornione
che spia divagando
la sua landa smemorata,
mentre alle spalle il mare avanza
nella sua prospettiva più azzurra,
supera la riva dilaga oltre le sponde,
tacca dopo tacca s’arrampica
alla palma che è proprio dietro lui.

Cosa poi accadrà perché
sia frantumata questa ipnosi
salda del mare a mezzogiorno:
quattro palme in stormo fossile,
un cartello azzurro disarcionato,
curve come origami segnati
sull’arena prima ancora che
il vento la mieta.

Quale stasi adunca alle nasse?
Quale storia d’aria, infiltrata, senza passi?

Ecco un uomo sbagliato
trafuga un poco di sabbia
sconfinando tra le canne:
per quale occulta sepoltura?

Da dove questa pazza premura
di portare il senso del mare
altrove, in altura?

A grappoli come dopo l’esplosione
vanno munti dal rancore
a gruppi di quatto o cinque,
a coppie, a volte, con i paltò
assiderati, le buste impiccate, i cani.

Non diresti persone
ma solo orme in fuga
dai tenui contorni, sulle spiagge
riversate e senza alcuno
scintillio nello sfiorarsi.

Quale muta devastazione si è compiuta?
Quale apocalisse sotto traccia?
Cosa questo vagare senza trovarsi?

Ognuno con la sua offesa murata.

Eppure non fiacca quest’aria di maestrale,
né questo mare col suo incedere ossesso,
o la proiezione assonometrica delle case
con i retaggi neri e le finestre
occultate. Tutto regolare.

Tutto nella sua pace sconsiderata.

Contaminata.

Qualcuno fa scorta di sole,
qualcuno acquattato nel gelo
occulta la sua offesa
inferiore alle attese.
Ne prova un certo
imbarazzo.

Ma il mare è ancora in continuo
fermento, fornicazione senza sesso, pazzo
come nei giorni precedenti alle apocalissi.

Molti vagano intorno alla propria eclissi.

VENTO
I
Questa bora indecente
che mola senza soste
le vesti precarie degli astanti
fermi automi contaminati,
fino a farli divenire
una voce trasparente:
corpo assente
del guasto
animale.

Quanta boria in questo
vento di niente in niente.

II

Lasciare che tutto si modelli
sedimentato in una folgore
di abbracci dementi,
ricami di fiato ossidato,
lamento inanimato.

III

Dovesse anche abbattersi così
d’amblè e sedare stupito
questo enorme vento irrequieto,
ci sorprenderebbe a contemplare
i nostri resti, muti
gli occhi famelici
ammalati.

Carcasse di belve addormentate
decadono davanti a tanta insolenza
della vita che è stata
e di quanta ne resta.

___

Alessio Alessandrini, Ascoli Piceno  1974, è insegnante di scuola media. La sua prima raccolta La Vasca (Lietocolle, 2008) è risultata vincitrice del  XXII  Premio Letterario Camaiore nella sezione Proposte Opera Prima. Nel 2014 è uscita presso l’editore Italic-Pequod la sua seconda opera poetica “Somiglia più all’urlo di un animale“, silloge segnalata al XXVII Premio Camaiore, al XXIX Premio Montano e alla terza edizione del Premio “Civetta di Minerva – Antonio Guerriero”. Sue poesie posso essere lette in raccolte antologiche o sul web. Collabora come redattore al progetto editoriale Arcipelago-Itaca Edizioni.

 

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