A Palazzo Cusani, “Tecniche delle conversazioni”

palazzo_cusanidi Pierrette Lavancy

Sabato 7 maggio 2016 a Palazzo Cusani, si svolgerà il seminario dal titolo: “Tecniche delle conversazioni”.

Perché questo titolo?

Ci è sembrato necessario rimanere ancorati alle situazioni concrete che costituiscono il centro del nostro lavoro. Il nostro lavoro di terapeuti, tecnici delle conversazioni, psicoanalisti, counsellor, si fonda sullo scambio di parole.

Ma quali parole?

Il conversazionalismo, nella sua forma sintetica di tecniche delle conversazioni, tenta di recuperare la forma del legame quotidiano tra la parola, segno di qualcosa, e il qualcosa di cui è segno, cioè l’oggetto al quale si riferisce nelle conversazioni comuni quotidiane. Sembra questa la direzione necessaria per rendere possibile il discorso pratico artigianale dei carpentieri e dei chirurghi, e il discorso scientifico. Centrale, in questa direzione, è prendere le parole alla lettera, per quello che significano nei dizionari, evitando la trappola della semiosi illimitata. Troverete uno sviluppo di questi concetti nel testo di Giampaolo Lai, Vicende dell’oggetto.

Il seminario, a Palazzo Cusani (ingresso da via del Carmine 8) si terrà dalle 16 alle 19.30.

Pierrette_lavanchyL’ingresso ai lavori del seminario è gratuito, ma è indispensabile che tutte le persone interessate a partecipare si iscrivano con un e-mail a info@tecnicheconversazionali.it, specificando se partecipano al solo seminario o anche alla cena. Tale registrazione è indispensabile per le necessità nostre e della struttura che ci ospita.

Il programma

Patrizia Crippa
parlerà sul tema La dislessia fantasma. Illustrerà il modo in cui ha consentito a una bambina di riconciliarsi con l’apprendimento della scrittura e della lettura giocando e cantando con le parole.

Rita Erica Fioravanzo, con il titolo Premonizioni traumatiche, racconterà un frammento di conversazione in cui la riflessione su un sogno conduce la paziente a intuire la differenza tra i fatti della propria storia e l’ineluttabilità del destino.

Giampaolo Lai, con il titolo Due gironi infernali, commenta un sogno in cui una madre, in realtà defunta, inganna la sognatrice con uno scherzo crudele. Nella prospettiva del sogno come evento esterno, e non proiezione del soggetto, pone il problema di come neutralizzare l’invidia dei morti verso i viventi.

Giorgio Landoni, con il titolo Ma come parla? insiste sull’importanza per l’analista del prendere alla lettera le parole dell’interlocutore, rispettando l’oggetto-parola senza sovrapporre ad esso prodotti interpretativi della semiosi illimitata.

Pierrette Lavanchy, col titolo Guida inaffidabile, presenta l’analisi di un sogno dove un viaggio in macchina, nel quale la sognatrice non riconosce la situazione traumatica attuale che sta vivendo, sembra destinato a finire in catastrofe a prescindere da chi è al volante.

Giorgio Maffi
,
col titolo L’uragano, a proposito di un sogno in cui si assiste a una tempesta violenta che invade l’orizzonte, parla delle diverse prospettive in cui l’uragano può ess ere concepito, come scatenarsi delle passioni, o come pericolo esterno.

Dai vari interventi si delinea un presupposto non deliberato, ma ben presente: l’ubiquità del fattore traumatico nelle situazioni con cui abbiamo a che fare.

Tra le presentazioni di ogni relatore, di circa 15 minuti ciascuna, sarà lasciato un adeguato spazio di discussione, preludio al dibattito generale conclusivo.

 

Giampaolo_laiL’oggetto che va e viene

di Giampaolo Lai

I resoconti del lavoro nella terapia delle parole

In quasi tutte le professioni, in gran parte dei mestieri, il professionista,
l’artigiano, la persona che compie gli atti pertinenti alla sua arte, alla sua attività,
in genere ci prova, secondo modi diversi, con la scrittura o con la parola, a
rendere conto delle sue azioni, di ciò che ascolta e dice e fa, di ciò che accade,
corredando i suoi resoconti, quando possibile, dei criteri che guidano le sue
operazioni, dei risultati delle operazioni medesime, felici o infelici, di paragoni
anche delle proprie vicende attuali con quelle di colleghi che delle loro gli hanno
parlato, o con quelle da lui stesso compiute in occasioni precedenti. Così è anche
nel nostro campo amplissimo delle terapie con le parole, che vanno dalla
psicoterapia alla psicoanalisi, dal conversazionalismo al counselling, dalla terapia
di famiglia alle terapie del trauma, alle cure d’anima, all’ipnosi, e a altre, più o
meno diffuse. Per redigere questa nota, mi sono concentrato sui campi che
conosco un po’ meglio, che mi sono più vicini e noti, cioè quelli della psicoanalisi e
delle tecniche delle conversazioni, ovvero del conversazionalismo.

L’oggetto reale nei resoconti di Freud

La Bibbia degli scritti dedicati ai resoconti da parte del terapeuta psicoanalista di
ciò che ha fatto e detto assieme al suo paziente analizzante durante una terapia,
durante una seduta o una cura psicoanalitica, sono gli scritti di Freud e, all’interno
di questi, soprattutto i cosiddetti Casi clinici, dalla storia della nevrosi infantile del
piccolo Hans, all’uomo dei lupi, all’uomo dei topi, a Dora. Lo stile di questi
racconti, oscillante tra quello naturalistico di un Balzac e quello simbolista di un
Mallarmé, in definitiva rientra piuttosto nella forma adatta a una trama in cui è
questione di risolvere un mistero, di svelare, dopo un lungo e tortuoso cammino,
un segreto nascosto, di recuperare un antefatto imprevedibile. Oggi si parlerebbe
di racconti polizieschi o di gialli. Il modello, avrebbero potuto essere George
Simenon o Agatha Christie, non Stephen King, ma, come si sa, a ispirare Freud è
stato il Sofocle dell’Edipo re, dalla cui opera viene preso il meccanismo retorico
della tragedia, che attraverso peripezie varie, conduce l’eroe a riconoscere di
avere ucciso il padre e sposato la madre, quando credeva di avere ucciso un
vecchio sconosciuto prepotente e sposato una regina per la sua propria abilità nel
risolvere indovinelli.

Ora, non c’è alcun dubbio che nei suoi scritti clinici Freud cercasse di rendere conto
di ciò che aveva fatto e detto e di ciò che aveva osservato nelle sue conversazioni
con i suoi pazienti,
o direttamente, o con l’intermediario per esempio del padre
del paziente come per il piccolo Hans (1908). Ma soprattutto non c’è alcun dubbio
che Freud tentasse di stabilire un legame il più preciso possibile tra ciò che nella
seduta veniva detto e il riferimento delle parole del paziente ai fatti, agli oggetti,
della vita reale di ogni giorno. Prova ne sia, tra molte altre, il tornare
ripetutamente su una sua descrizione per precisare se un certo evento si fosse
manifestato all’età di un anno e mezzo o di tre anni, se in presenza di genitori o di
animali accoppiati. In altri termini, l’atteggiamento di Freud era quello di un
realismo assoluto, un tentativo nella sua ricerca di trovare la giusta adequatio
intellectus ad rem, la corrispondenza delle parole o del pensiero alle cose, agli
oggetti reali. Nella lunga analisi dell’Uomo dei lupi, Freud si mostra assolutamente
convinto che la sua interpretazione del sogno dei lupi si riferisca a un fatto reale, al
fatto oggettivo di una particolare paura patita dal paziente in tenera età, più
precisamente al trauma vissuto dal piccolo futuro paziente quando, all’età di un
anno e mezzo, vide la scena di un rapporto sessuale tra il padre e la madre.
Quando più tardi Freud proverà a rivedere la sua interpretazione, su sollecitazione
dei suoi discepoli, si mostra disposto a pensare che il piccolo avesse assistito
piuttosto alla scena di un rapporto sessuale tra animali: ma sempre di un rapporto
sessuale osservato nel mondo degli oggetti reali si tratta, dal suo punto di vista,
dal punto di vista di Freud. Analogamente, nella descrizione del caso clinico del
piccolo Hans, Freud si mostra inequivocabilmente convinto che la paura di Hans
dei cavalli era infatti legata alla paura del proprio padre. Nella medesima linea, si
muove Freud nella presentazione del caso clinico di Dora (1905). Il sintomo di
afonia della paziente viene ricondotto a eventi precisi nella vita della fanciulla,
nella fattispecie alla gelosia di Dora per il proprio padre e la signora K., e alle
attenzioni erotiche del signor K. per Dora medesima.

Il controtransfert

Ai tempi della redazione dei casi clinici, nei primi due decenni del novecento, il
concetto di transfert, ovvero il fatto che il paziente mettesse addosso al terapeuta
come su un attaccapanni le immagini dei suoi genitori, prendendo l’uno attuale
per gli altri del suo passato, era abbastanza precisato. Non altrettanto il concetto
di controtransfert, ovvero il processo attraverso il quale il terapeuta vede senza
rendersene conto nel suo paziente immagini del suo proprio passato, del passato
dell’analista, che appariva a Freud come una macchia cieca dell’analista, da
ridurre se non proprio annullare per evitare ostacoli al lavoro analitico.

Successivamente, specialmente negli allievi di Freud, il concetto di controtransfert
prenderà sempre più piede, fino a diventare il centro della teoria e della tecnica
psicoanalitiche. All’inizio il controtransfert dell’analista costituiva un ostacolo a
conoscere aspetti oggettivi della storia del paziente, oscurati dal cono d’ombra
delle risposte improprie dell’analista, che soggettivizza per così dire questi oggetti
della storia. Ma alla fine lo psicoanalista che parla o scrive di un suo paziente esce
deliberatamente dal suo ruolo di relatore, di scrittore, di una storia che si svolge
tra gli oggetti di un mondo a lui esterno, e, rientrando in sé stesso, osservando le
sue proprie risposte (controtransfert, come si diceva una volta), diventa il
protagonista mentale della storia medesima, attraverso una mentalizzazione
soggettiva, ovvero riassorbimento del mondo esterno osservato nel mondo
interno della creazione mentale. La storia del paziente non è più la ricostruzione
archeologica degli antefatti del paziente, bensì si crea sulla falsariga della
archeologia del terapeuta, evocata dai racconti del paziente. La scrittura di quello
che in Freud era un resoconto diventa un’autobiografia reciproca a quattro mani.

L’indifferenza tra i campi di esperienza oggettivi della storia del paziente e della
storia dell’analista toccano un vertice di confusione dadaista nella vicenda delle
due analisi del signor Z, opportunamente ripresa da Alfredo Civita, nella quale
Kohut descrive due analisi, attraverso le quali Kohut è di fatto passato nelle vesti
di paziente, come se invece fossero due analisi intraprese da un signor Z, una delle
quali condotta da Kohut medesimo nelle vesti di analista.
De te fabula narratur

Bisogna dire che questa evoluzione o trasformazione nel mondo della psicoanalisi
trova un riscontro, una sorta di simmetrica corrispondenza, con parallele anche
negli anni trasformazioni della linguistica del secolo scorso intorno al concetto di
significato. Ora, secondo una certa linea della linguistica, che è poi quella del
linguaggio corrente, ma anche quella degli artigiani e della scienza, il significato di
una parola (o di una frase) è l’oggetto del mondo extralinguistico al quale la parola
si riferisce. Per esempio, la parola ‘martello’, per il carpentiere come per
Wittgenstein, se è per questo, si riferisce all’oggetto con il quale il carpentiere
picchia su un chiodo. La parola ‘pinze’ per l’infermiera si riferisce a quell’oggetto lì
sul tavolo dei ferri chirurgici da passare al chirurgo che l’ha pronunciata. Ma non
per tutta la linguistica le cose sono così semplici. Per la corrente che ci pare
condivida il cambiamento della psicoanalisi, tra la parola, che in definitiva è un
segno, come potrebbe essere anche un dito teso, e l’oggetto indicato nel mondo
extralinguistico, si insinua un terzo incomodo, chiamato interpretante, che
sarebbe un po’ come il suo senso, il senso in cui si può prendere la parola. E fin qui
non ci sarebbe niente di male. Se non che l’interpretante, nel micro tempo in cui
si intromette tra parola e oggetto, diventa a sua volta un segno, come la parola,
riferito eventualmente a un altro significato, con la richiesta tuttavia di un altro
interpretante, e così all’infinito, appunto, nella figura chiamata della semiosi
illimitata.  Per dire che una parola, in quanto segno, non tanto rinvia a un
oggetto, quanto rinvia a un’altra parola, la quale rinvia a un’altra parola, la quale
rinvia a un’altra parola, fin quando l’interpretante decide di fermarsi su un
oggetto a sua insindacabile scelta, differente da quella di un altro interpretante
che potrebbe fermarsi su un altro oggetto. In questo senso, per esempio, se una
madre racconta alla figlia la favola di Cappuccetto Rosso, quando la madre dice:
“e alla fine il lupo mangiò Cappuccetto Rosso”, il nome ‘lupo’ non sta per
l’animale a cui quel nome si riferisce, come accade per la figlioletta, bensì per la
madre che racconta la favola che desidera sadicamente mangiare la piccola. È la figura del Lupus in fabula. Analoga alla figura del te fabula narratur, per dire che nella favola chi la racconta non parla tanto né di lupo né di bambini ma di sé stesso (stessa).
Relativizzazione del riferimento e sdifferenziazione degli oggetti

L’effetto, intenzionale o comunque visibile, della teoria linguistica della semiosi
illimitata e della psicoanalisi attuale, è l’indifferenza verso gli oggetti
extralinguistici, ciò da cui discende sia la sdifferenziazione tra gli oggetti (tutti i
gatti non solo sono grigi, ma anche qualche gatto può essere un topo) sia la
relativizzazione del riferimento (un lupo è il padre del bambino oppure è l’analista
che racconta la storia dei due).
Le tecniche delle conversazioni

Il conversazionalismo, nella sua forma sintetica di tecniche delle conversazioni,
tenta di recuperare la forma del legame quotidiano tra la parola, segno di
qualcosa, e il qualcosa di cui è segno, cioè l’oggetto al quale si riferisce nelle
conversazioni comuni quotidiane. Sembra questa la direzione necessaria per
rendere possibile il discorso pratico artigianale dei carpentieri e dei chirurghi, e il
discorso scientifico. Centrale, in questa direzione, è prendere le parole alla lettera,
per quello che significano nei dizionari. Altrettanto centrale è prendere alla lettera
gli oggetti, per come essi appaiono, e conseguentemente nominarli con la parola
che nel linguaggio ordinario li denota. Per esempio, in una favola, il lupo è un lupo
e non è la nonna né tanto meno chi racconta la favola. La parola ‘lupo’ non sta
una volta per il lupo, una volta per la nonna, una volta per la narratrice della
favola. Se qualcuno che sale lungo un sentiero e vede davanti a sé un lupo, può
certo pensare che il lupo è un’allegoria della cupidigia, che sta per il peccato della
cupidigia. Ma se non pensa che alla lettera di un lupo si tratta, che il lupo sta
proprio per un lupo, mette seriamente a rischio per eccesso di fiducia retorica le
proprie giugulari.

 

Sommario

La prima e la seconda metà del novecento mostrano l’affermazione di due
controrivoluzioni. La prima, potremmo chiamarla la controrivoluzione tolemaica.
Non certo in ambito astronomico, nel quale continua a dominare l’ipotesi
eliocentrica, con la terra e i suoi soggetti viventi spodestati alle periferie. Bensì nel
campo delle arti, della pittura, della letteratura, e, per quanto ci riguarda
direttamente, della psicoanalisi e della linguistica. Tutti campi nei quali i loro
frequentatori, abbastanza indifferenti alle relazioni tra sole e terra, sono tutti
interessati a rinverdire la concezione geocentrica, e a mettere, non solo la terra,
ma anche i suoi abitanti viventi e pensanti, al centro dell’universo. Anzi, dopo aver
provato per un po’ a relegare gli oggetti ai margini dell’universo, sono stati i
soggetti pensanti della terra a cercare di annullarli (gli oggetti) assorbendoli in loro
stessi, a fare dei due un tutt’uno. La seconda controrivoluzione la chiamiamo la
controrivoluzione della sdifferenziazione. Dopo tutta la lunga marcia che ha
condotto in primo piano le differenze, tra proprietà primarie e secondarie, tra res
extensa e res cogitans, tra esprit de finesse e esprit de geométrie, e ancora, tra
scommesse e osservazioni, tra l’unicità dell’atomo e i suoi componenti neutroni,
protoni, elettroni, tra il concetto di ontico e di ontologico, la sdifferenziazione sta
conducendo una sua contromarcia decisa e travolgente. Le vittime non sono più
diverse dai carnefici, grazie all’annullamento delle differenze di tempo, del prima
e del poi, di spazio, qui e là, di causalità, che trova sempre una ragione che rende
Caino vittima di Abele. L’uomo non è più differente dalla donna se non in senso
retorico, in quanto dire ‘maschio’ o ‘femmina’ è praticare una sineddoche, nel
senso preciso che ‘maschio’ e ‘femmina’ vengono intesi come modi di dire, forme
del linguaggio, e non come differenze tra gli oggetti del mondo.

Le due controrivoluzioni, del ritorno di Tolomeo e della sdifferenziazione,
contribuiscono alla dissoluzione delle differenze tra oggetti che conducono una
loro vita autonoma nei mondi circostanti dei vivi e dei morti. Le tecniche delle
conversazioni hanno, al contrario, al loro centro il programma di riconoscere e
recuperare gli oggetti autonomi circostanti e di introdurre le negoziazioni più
adatte in modo da ridurre a dimensioni contrattuali tollerabili i mali i vuoti i debiti del mondo, le offese, i traumi, la morte che da ogni oggetto possono colpire ogni
altro oggetto.

Summary

During the twentieth century, the two disciplines of psychoanalysis and linguistic
have embarked on a contemporaneous ptolemaic counter revolution. First of all,
they have reinstated the psychological subject at the universe’s centre and put
the objects back at the periphery. Afterwards, they have absorbed the peripheral
objects into the mental subject, so destroying their autonomy. We deem it now
necessary not only recover the objects, but also put them back to their natural
place at the centre of the universe. Such a move appears to us as the basic
condition, on the one hand, in order to carry out conversations between artisan
scientists and ordinary people, who need to call the objects with their names,
literally, thus avoiding the Babel of unlimited semiosis, and on the other hand, in
order to account for the good or traumatic actions that objects unceasingly do
unto each other, with some probability of orienting them in a direction rather
than in another.

Riassunto

Nel corso del Novecento la psicoanalisi e la linguistica hanno condotto in parallelo
una sorta di controrivoluzione tolemaica. Prima di tutto hanno rimesso al centro
dell’universo il soggetto psicologico e alla periferia gli oggetti, e poi hanno
riassorbito all’interno del soggetto gli oggetti così privandoli della loro autonoma.
Ci sembra ora necessario non solo recuperare gli oggetti, ma anche riportarli al
loro naturale luogo centrale nell’universo. Questa mossa ci sembra la condizione
di partenza, da una parte, per condurre conversazioni tra artigiani scienziati e
persone comuni che hanno bisogno di chiamare gli oggetti con il loro nome, alla
lettera, per evitare l’inconcludenza della semiosi illimitata, e dall’altra, per
rendere conto delle azioni buone o traumatiche che gli oggetti compiono
incessantemente gli uni nei confronti degli altri, con qualche probabilità di
orientarle in una direzione piuttosto che nell’altra.

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