Nadia Agustoni, “Lettere della fine”

 

nadiaPrefazione
di Renata Morresi

 

Di cosa è fine la fine di Lettere della fine? Una fine reiterata in quasi ogni titolo di sezione di questo libro, numerata e declinata in una varietà di luoghi e modi, scomposta e rifratta quasi a smentire che possa bastarne una, la definitiva fine, per dire di quanto è sottratto al continuo, all’incompleto (quindi aperto), al resistere. Una fine quasi mai ‘naturale’: che riguardino la catastrofe delle alluvioni in Liguria o l’alienazione (e il pericolo) del lavoro in fabbrica, l’isolamento degli anziani in una clinica o la marginalità dei poveri, le fini di Agustoni sono fatte di cessazioni specifiche, incarnate nell’esperienza dell’autrice (nella biografia, nel lavoro operaio, nella sua pluriennale ricerca, in poesia, nell’attivismo e in saggistica, delle storie omesse e dimenticate dalla tradizione culturale) e processate in una poesia di creaturale compassione, che ogni volta riporta in presenza della caducità, della dissoluzione inerente a ciò che vive, e ne elabora un lutto candido. Esse sono, allora, in molti casi, riconoscibili come fini prodotte dall’incuria, dallo sfruttamento o dall’infamia, tuttavia la lingua poetica che le dispiega è una festa del contatto e del respiro.

Le Lettere sono dunque lettere di resistenza, e, proprio come le lettere dei giovani eroi della Resistenza italiana, sono fresche e struggenti, desolate per la fine prossima e insieme attraversate da una celebrazione pura, senza retorica, della vita. Le Lettere sono anche lettere dell’adesività, che unisce i rigettati e i senza mondo, nella schiettezza di chi sa che “siamo vivi per l’intera vita ma non c’è l’intero” (113), nell’abbandono al divenire di chi sta accanto alle cose, se ne lascia attraversare, o le ama pensandole: “a lungo pensiamo la poiana / starà nella sera migrerà in noi / come il piccolo muscolo del fiore” (92).

Nelle note conclusive Agustoni ci dice, citando Giuliano Mesa, che siamo sempre alla “penultima fine”, come a dire che, dopotutto, la fine non c’è mai, quasi proponendo, in controluce, un rovesciamento ironico di quella fine che a più riprese il Novecento promise (la fine della storia, la fine della guerra fredda, delle guerre, o, ancora prima, riandando a Roosevelt, la fine del bisogno, la fine della paura). L’ironia è leggerissima, e lontana dalle asprezze del sarcasmo o dal cinismo dei delusi. Alla retorica del progresso continuo dell’ultimo fin de siècle, tosto seguita da quella dell’urgenza e del superamento della crisi economica, l’autrice risponde con la severità (e il sollievo) del pensiero apocalittico, che risponde alla crisi e produce la crisi giacché non si può pensare – non si può tollerare – che essa non abbia fine.

In tale tensione è costruito il libro, che, per la coerenza dell’ispirazione e del dettato, per la coesione del suo palpabile tessuto di frammenti, biglietti, righe, allusioni e citazioni, si configura più come sequenza poematica che come raccolta. I testi appaiono come mobilissimi mandala, per i simboli che si compongono e spariscono in un soffio, per lo sfuggire e continuare e aderire alla stessa vocazione di custodi della fragilità:

 

 

sottovento qualcosa i pini la

nostra vita – la pioggia col giornale

la nuca come cicoria

quando il sole avrà tempo –

nella giacca la nostra forma

usata – o il modo in cui

pensiamo il mondo.

(141)

 

Nel suo dipanarsi la scrittura disegna le tracce di una lunga elegia per gli ultimi e, insieme, la delicata grazia della mobilità, anzi, della motilità che inerisce gli umani, e li rende – loro, così spesso inclini alla ferocia verso ciò che è diverso da sé – disponibili alla trasformazione, allo stupore. Questa disposizione morale vive nel corpo della poesia: l’irregolarità della sintassi, simile alla spontaneità del parlato, le frasi sospese, le spezzature incompiute, le ellissi, gli anacoluti, si associano a un lessico fatto spesso di nomi concreti, bisillabi, primari (osso, bocca, acqua, neve, roggia, mela, palla, bosco, terra, ecc.), ma dall’alta densità metaforica. Si produce così un testo disseminato, sospeso tra l’instabilità della lingua orale e l’appunto, tra il fiato fresco della corsa e la voglia di registrare l’impulso subitaneo, come pure l’incongruo di simboli che si addensano e sciolgono nell’attimo della visione. È una indeterminatezza che commuove ed inquieta. Perché nei messaggi timidi e abbozzati che questa poesia manda sentiamo vibrare la precarietà: “i fiori e altri fiori / un solo fiore e fiorire / il gelo e gli occhi non sanno / non sanno com’è nei fiori” (22). Perché l’instabilità nel fissare per certo un soggetto o un complemento oggetto produce una fusione col mondo naturale, ma nelle forme di una campagna della provincia italiana che sappiamo ormai quasi estinta. Perché vi rinveniamo il disordine benefico dell’infanzia, ma anche il male possente d’ogni volta che, bambini, ci hanno tradito, beffato per sfregio, risposto che eravamo bruttezza. Perché lì sentiamo la minaccia che incalza quel che è minuto, indifeso, sensibile, “lì cadono i bambini i fiori / che pensiamo per sempre” (19).

La prima parte del libro e le prime sezioni (“lettere della fine”, “la fine II”) sono dominate da figure della fanciullezza. Prima il bambino, incosciente e intero, che mangia la vita e succhia le parole come zucchero, gode della scoperta dei nomi/cose e presto comincia a tremare all’intuire quanto egli sia esposto, quanto tutti siamo vicini all’essere dispersi, “polvere” (28, et passim). Poi la poeta-bambino, che impara quanto tragico sia crescere, conosce il distacco che vengono scavando le parole e il peso che esse incarnano. Infine, un noi di piccoli esclusi, di cui la voce poetica non riesce a darsi pace, continuando a pronunciare una litania soffusa e oscura, che sembra quasi accompagnare, con canto dolce ma indocile, l’invocazione nitida del fanciullo suicida di Franco Buffoni (“«Spero di risvegliarmi in un mondo più gentile.»”):

 

– noi siamo incolti e piccoli. perché ogni albero perché la luce. ricordiamo. perché la foglia. perché c’è il nome. perché nulla è veramente nulla. né veramente. perché nei fiori. perché nell’ombra. perché nel giorno i giorni. il mondo l’alba la sera. perché il male. perché il bene. perché un bambino. perché conta sulle dita. perché aspetta. perché dove. perché non è abbastanza se immagini o pensi. perché pensiamo la fine perché l’inizio. perché due. perché tre. perché quattro. e uno è un pesce. uno canneto. uno ricomincia. uno abbandona. perché –

(91)

 

Nella scrittura e nel percorso poetico di questa autrice singolare, defilata e non catalogabile nelle tendenze più evidenti, dalla formazione atipica e internazionale, all’insegna dell’impegno civile e della passione vorace per la letteratura, rinveniamo latenti rispondenze o colloqui espliciti coi poeti italiani che hanno scelto vie personali e laterali; penso al già citato Mesa, per il rigore della sua istanza etica, o al Roberto Roversi de L’Italia sepolta sotto la neve, che fonde andamento aleatorio e intensità della denuncia storica. Agustoni si affida anche alla lezione delle grandi autrici-attiviste americane: su tutte, Adrienne Rich, modello di densità metaforica e consapevolezza geopoetica, e Grace Paley, rappresentante del “piccolo paese di cittadini danneggiati, fragili e tormentati”, di cui questo libro continua il censimento. Come loro Agustoni non vuole esimersi dal progetto, forse utopico, di certo inesauribile, di integrare fatti di storia e di cronaca, poesia d’ispirazione e discorso politico in una sintesi verticale.

“[O]ratorio della fine”, ad esempio, sintetizza la visione del grande affresco di Lorenzo Lotto che si trova nella cappella di villa Suardi, a Trescore, con le difficili vicende di una ragazza immigrata, vissuta proprio in quella zona del bergamasco. L’affresco, con l’espressività grafica e il vigoroso pietismo del pittore veneziano, mostra il martirio di Santa Barbara, torturata e uccisa per essersi ribellata al padre. Nella poesia tornano frammenti della rappresentazione: l’abito blu scomposto, le finestre della reclusa, le mammelle mutilate, il gigante Gesù dalle cui dita si diramano rami di vite che finiscono per avvolgersi in enormi stemmi tondi racchiudenti i santi. Attraverso questi elementi vediamo lampeggiare squarci del contemporaneo, con la violenza devastante che punisce chi sgarra, e l’amarezza per quel dio indifferente:

 

l’uomo che diventa una vite

i giardini coltivati e corda tiene

lo stupro l’aria muore le mosche –

oh! iddio che non salvi.

(61)

 

Questi versi ecfrastici interrogano il corto circuito tra passato e presente, tra percezione estetica e realtà situata, per giungere alla consapevolezza della ossessionante ripetitività delle forme del dolore (“ogni volta le cose uguali”, 60), e della strumentalizzazione degli impotenti a fini ‘decorativi’. Lì accanto, invece, stanno ‘i potenti’, che non salvano che se stessi. Si ergono come i santi emanati da quel Cristo, affascinanti e inattingibili, o come i conti Suardi, che in attesa dei razziatori lanzichenecchi commissionarono l’affresco: “scendevano i barbari del nord e nella cappella i committenti a vedere un paradiso di uve” (63), mentre un altro, ancora, come al solito, viene crocifisso, “matura il suo vino lui beve e beve e beve di nuovo” (64).

Anche i testi che seguono circoscrivono avvenimenti recenti e situazioni concrete, con pietà per “le cose mai difese / e la storia ripete – / non è mai stanca” (121). Il soggetto fusionale della prima parte del libro lascia il posto al tu malato de “la fine III, ischemie”, abbandonato dal linguaggio e dalla memoria in un ricovero per anziani, dove “il pensiero si rompe / per esilio ti svia” (70). Questo perdersi annuncia il collettivo inerme, trasceso da forze sì storiche, ma così cieche da diventare immani, delle sezioni “Liguria” e “tra fabbrica e fine”.  In una  lingua ancora semplice eppure enigmatica, insieme lieve e in torsione, si onorano gli annegati delle recenti alluvioni liguri. Come se la poesia che li piange potesse farne – consolazione dei disperati – almeno il gesto di riunirne l’interezza dissipata, riportarli in un abbraccio nel cerchio umano, fare a “metà d’ogni cosa divisa” (87). In modo simile il ‘noi’ della fabbrica non prende voce con la rabbia di chi rivendica, ma con il quotidiano resistere interstiziale degli spossati.

Ripenso a Brecht: paragonava l’inanità di certa poesia ‘bella’ allo starsene a dipingere un albero sulla parete di una nave che affonda, e rivendicava per la parola poetica il diritto-dovere di denunciare e di muovere all’azione. A distanza di meno di un secolo qualsiasi possibilità di trasformazione sociale della poesia sembra oramai velleitaria. Eppure non è meno necessario il pensare della poesia: pensare ai rapporti tra i corpi e le parole, tra le pratiche di potere e le relazioni tra le cose e i fragili umani, che di quelle riescono a riappropriarsi a partire dagli spazi più angusti e schiacciati. In “tra fabbrica e fine”, oscillando tra ‘essi’, ‘noi’, ‘io’, ‘tu’, la poesia ritaglia la fessura mobile, la strategia quotidiana dove opporsi al vuoto del lavoro ripetitivo, rischioso, estenuante della fabbrica. Se “fabbrica non c’è parole” (102) diventa quasi un unico lemma, simbolo della forza totalizzante dello spazio-lavoro “dove i nomi sono sottili / e non li possiedi” (96), un luogo che ammutolisce  gli operai rendendoli muti corpi docili, “muti / come le lepri sulla statale”(94), allora, una modalità di resistenza consisterà nel trovarle le parole, restare ricettivi e attenti, fare della propria posizione di apparente, completa sottomissione un posto da cui trasformare un colore in rose, più aperte del vento, o il suono della sirena in un richiamo a riprendersi la percezione, il piacere sensibile, la propria storia che è storia di chiunque abbia vissuto:

 

[…] nel timpano

della sirena

restiamo creature

il futuro o l’amore estivo

nelle case popolari

e la luce di questa vita

che non parla –

ma i ragazzi

gli grandina un sabato

portano il corpo come all’aperto

senza tempo  

(104)

 

Non urla, non narrazioni sdegnate, non vittimismi, dunque, piuttosto il preciso intento di liberare chi lavora in fabbrica dalle stigma della bestia che può solo urlare, che è solo carne del capitale, solamente identificabile nel suo ruolo nella macchina economica. Diversamente da Luigi Di Ruscio, che affermava potentemente il suo essere “tutto incarnato”, e quindi cristico, e quindi pienamente umano, Agustoni reclama il diritto alla “disincarnazione”, a guardare se stessa e i compagni di lavoro da fuori. Dalla distanza “siamo noi / il centro vivissimo dei mondi” (117). Lontani dall’immagine della massa afona, puramente biologica, in cui il discorso stereotipato li risospinge. Lontani dall’odio e dallo strepito del qualunquismo politico. Parlanti e, quindi, pienamente umani:

 

ma scrivo dalla disincarnazione

del dolore tra fabbrica e fine

queste parole mosse da un alito

nel cursore indocile.

(97)

 

Da una simile distanza si libra la persona disincarnata dell’ultima sezione, “billy budd”, epitome dell’innocenza tradita, sia dalla gratuità della bassezza umana, sia dalle leggi di un sistema inumano. Il marinaio del racconto postumo di Melville è un giovane bello, puro, ingenuo, amato da tutti, e ingiustamente accusato di complotto dal perfido mastro d’armi Claggart. Condotto davanti al capitano per un chiarimento, il ragazzo, preso dalla balbuzie che lo investe nei momenti di più intensa emozione, non riesce a reagire alle accuse se non sferrando un pugno contro il suo antagonista. Malauguratamente il colpo si rivela fatale. Billy, secondo le leggi marziali dell’epoca, viene condannato a morte e, malgrado l’amarezza di tutti i pari grado e i superiori, giustiziato. Nei versi di Agustoni ritroviamo un Billy Budd che parla senza risentimento, mentre alla sua immagine si sovrappone quella dei marinai inutilmente morti alle Falkland, che quasi sembrano scherzare sul famigerato gol di mano di Maradona “senza alcun / rancore per quelli tornati a vivere” (125). Si staglia in alto, appena defunto, nella brezza, per un ultimo monologo, asintattico ma finalmente fluido, come in fuga, finalmente libero dai prevaricatori, dagli “uomini loro non / sanno stanno / per forza insieme / e tenuti – morire” (153). Essi non sanno, giacché morire di ferocia e diffidenza, di “corda prigione / cintura legacci” (153), è tutto ciò che sanno. 

Il libro si chiude col suo delicato addio, e poi con un unico verso, solo su una pagina, che è anche intera dichiarazione di poetica: “chiamo i nomi perduti la luce che non è nell’ora” (155). Ed è, per chi legge, quasi un ammonimento: continuare a chiamare. 

 

 

Quattro poesie da  Lettere della fine (Vydia editore, 2015)

 

 

i volti tra le frasi il poco

dei giorni succede chiaro

le parole arrivano viene il mondo

una volta erano le voci

un che di cicoria e limoni

o terra a patire

e il gas falciava i prati

in un altrove dove le spine

dove noi e nulla –

scrivi sulla morte

lì cadono i bambini i fiori

che pensiamo per sempre

e senza le tue parole c’è altro

come se restasse il sangue di tutti

e tutta la vita per niente –

ma il male credimi il male

guarda se siamo soli

se siamo figli padri

qualcun altro –

ricordati chi rideva chi

disse cosa a chi

e non tornava risposta

ma un’eco

l’osso cranico

 

(io non sono la domanda)

 
***

 

le scarpe i fogli le sere nelle buche

di terra le sere che mastichi il pane

l’azzurro è tutta la vita

gli occhi sono la casa

avrai segno come i più piccoli

quelli vuoti di sé che non sanno mai

non sono mai altri.

 

*** 

 

vorremmo il mondo nel posto degli alberi:

la parola umiliata pesa come l’acero

la pagina dei giornali –

se c’è risposta io credo sempre

nel vivo del mio pianto

 

vorremmo un aprile senza inganno

l’inganno del rosso nei giardini

il moscerino nel bicchiere

il lutto della sete.

 

 

***

 

nella postura di dopo

noi siamo io vivo

come ognuno vive

accanto

 

nell’ora che la luce toglie

nebbia torna il campo

i versi e la mia bocca

tornano voce

 

il tavolo e il campo

sono la voce

potrei sottovoce

fare assenza.

___

Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. Del 2013 è il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle). Una silloge di testi poetici è nell’almanacco di poesia Quadernario (LietoColle 2013). Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura ancora per LietoColle, Il giorno era luce, per i tipi del Pulcinoelefante, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte di Seregn de la memoria. Del 2009 la raccolta Taccuino nero (Le voci della luna). Altri suoi libri di poesie, usciti per Gazebo, sono: Il libro degli haiku bianchi (2007), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Quaderno di San Francisco (2004), Poesia di corpi e di parole (2002), Icara o dell’aria (1998), Miss blues e altre poesie (1995), Grammatica tempo (1994). Vive  a Bergamo.

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