«Un dilettante che racconta storie veramente accadute». Si definiva così Alessandro Ricci, nella nota che chiude I cavalli del nemico. L’understatement gli era abituale, ma ben sapeva che il suo “dilettantismo” era di una forma tutta speciale, era un modo distaccato e, insieme, sommamente aperto all’esperienza (e ai suoi rischi), di trattare la materia della poesia e della conoscenza.
In altre parole, Ricci era uno di quei poeti di grande valore e originalità che, decidendo di vivere ai margini della ribalta letteraria, si aspettano di essere letti solo dai pochi di cui stimano il giudizio. Pubblicò in vita appena due raccolte di versi, e per insistenza di amici. La prima, Le segnalazioni mediante i fuochi, con prefazione di Roberto Pazzi, uscì nel 1985. Libro vigoroso e vitale, ebbe qualche lusinghiera recensione, ma nessuno ne colse la novità e profondità. Il secondo, Indagini sul crollo (sempre con prefazione di Pazzi), forse più diseguale e composito, ma che accoglieva alcune delle sue poesie più belle, apparve nel 1989, e passò in silenzio, immeritevole perfino di quegli “agrodolci gesti di tolleranza”, come li chiamava Fortini, che s’era guadagnato il primo.
A conti fatti, il poeta Alessandro Ricci non esisteva. «Ci sono poeti sottovalutati, o addirittura ignorati dai critici e – quel che è più grave – dagli altri poeti, che, invece, per sensibilità, se non per intelligenza, dovrebbero capire; poeti che non vanno alla ribalta per gridare “sono qui, ci sono anch’io!”; poeti che accettano l’indifferenza in cui vivono come si accetta un’emicrania…», aveva scritto tempo addietro pensando ad un amico, ignorando di parlare di se stesso.
Dopo Indagini sul crollo, Alessandro non pubblica più che qualche poesia su rivista, e solo se richiesto. Nonostante il naturale riserbo, non ignorava il proprio valore di poeta e soffriva d’un mancato riconoscimento che sapeva di meritare – poco però facendo, o potendo fare, perché venisse attestato. Per quindici anni, la sua poesia scompare come quei fiumi carsici che s’inabissano, per riaffiorare più vigorosi di prima in altro luogo, in altro tempo. Riemerge col terzo libro, I cavalli del nemico, al quale – da me convinto – Alessandro lavora prima della scoperta del male che lo ucciderà. La malattia lo disamorò anche della poesia e di quel libro, lasciando a me il compito di prepararlo per la stampa e di cucire insieme alcune frasi scritte in fretta (ma quanto lucidamente!) per la nota finale. Il libro uscì a maggio del 2004, due mesi dopo la sua morte, e nonostante l’impegno di chi scrive e di pochi altri amici, anch’esso scivolò via lasciando nessuna o poche tracce. È del 2007 L’arpa romana, un libriccino di ventuno poesie brevi, e di appena qualche mese fa L’editto finale, una più sostanziosa raccolta d’inediti (pochi altri ne restano – e molte lettere, bellissime).
La vitalità disperata, i furiosi innamoramenti, gli amori brucianti e infelici, il corteggiamento della morte, le discese a ritroso nel tempo e nelle pieghe della storia, gli scandagli impietosi del cuore e della propria vicenda esistenziale, le confessioni e le conversazioni, i tanti volti di Roma e i luoghi amati percorsi con al fianco il fantasma del padre: sono questi i temi che occupano due distinti momenti della poesia di Alessandro Ricci. Il primo è quello emozionale e degli affetti, riguarda le persone amiche e care, gli amori, il dolore, le età finite, le nostalgie e i rimpianti. Il secondo momento riguarda le “pitture antiche del moderno” (Pazzi), poesie storiche del mito classico, di un mondo diviso fra la morente bellezza pagana e la lucida e intransigente follia della nuova fede.
Poesia alessandrina o kavafisiana, com’è stata chiamata, ma ben prima che Kavafis s’imponesse da noi, è quella in particolare testimoniata dall’antologia I colloqui di Elpinti appena pubblicata dalla giovane e raffinata casa editrice “Coup d’idée – Edizioni d’Arte di Enrica Dorna” di Torino e corredata da un prezioso e illuminante saggio di Stefano Agosti, L’antico e il tempo. In esso, Agosti riconosce alla poesia di Alessandro Ricci “una potenza di rappresentazione di cui personalmente, – dice – non riesco a ricordare altri esempi nel Novecento italiano”. Gli esiti di essa, spiega, sono “fra i più impressionanti del secondo Novecento, oltre che inconsueti rispetto alla nostra tradizione. Ma non”, aggiunge, “rispetto a certi grandi esempi della poesia europea, sempre del secolo appena concluso” citando subito dopo nomi non di poco conto come quelli di Housman, Kavafis e Yeats; o, appena più indietro, il Pascoli dei Conviviali.
Una poesia nata matura e grande, quella di Ricci, ma fino ad ora praticamente ignorata… Eppure, come dimostra il saggio di Agosti, è a tal punto alta che viene spontaneo pensare ad essa come a un falco immobile sulle nostre teste, ma invisibile a chi, per pigrizia, disinteresse o cinismo, non alza mai gli occhi al cielo. Perfino coloro che – vivo il poeta – ebbero la ventura di conoscerla e apprezzarla fecero poco, pochissimo perché venisse riconosciuta. Più che un’accusa è l’amara constatazione dei fatti – applicabile ad Alessandro Ricci come ad altri poeti ignorati in vita (e non sembri irriverente fare qui i nomi dell’inglese Hopkins e del già ricordato Kavafis). “Come un recluso, egli non fu mai riconosciuto durante la sua vita”, scrive l’oscuro estensore della pagina di Kavafis su Wikipedia. Nessuna definizione è più vera di questa per Alessandro Ricci.
di Francesco Dalessandro
da I COLLOQUI DI ELPINTI, “Coup d’idée – Edizioni d’arte di Enrica Dorna”, Torino, 2015
IL LAGO DI COSTANZA
I due cavalieri incapparono
senza sapersi nella groàna rimescolata
dalla pioggia, il lago di Costanza
intravisto nell’uragano, chi dalla Magna
venendo e chi dalla terra degli Ungari,
senza conoscere né perché né dove
andassero galoppando da settimane,
maledetti da satana e cristo,
morsi dalla memoria
in quella pasqua omicida.
S’incrociarono
per mai più vedersi in uno scopeto
dove la bufera faceva tinnire
le canne e impantanare i cavalli,
ma ognuno capì di quel momento
gli occhi ardenti dell’altro
nella celata, e gridò un saluto d’amore
e disperazione nella sua lingua, tra il fumo
delle bestie e i tonfi nella gora,
perché si esaudisse.
Poi ancora
la corsa fradicia senza meta
e senza girarsi, più forte
sentendo il cuore nella corazza,
quel cuore caìnoe assurdo, e il rimorso di castella
e dame e l’affettuosa concordia
degli alberi in remotissime primavere,
finché riapparve il lago,
immenso nella tempesta,
e fu da solo.
LA PROVINCIA MARINA DI BISANZIO
Suìda il Tessalico compiva cinquant’
anni e fattezze neppur corrose
quando, finalmente un agosto,
imprese a lavorare nel Tempio
Nuovo di Cìpride, sulla sponda
linda del Cirro. Cómpito: il
frontone che dà sul mare,
con scene d’amore della dea
nata dall’acqua.
I non cristiani di Amisus si
commossero per l’armonia delle
forme che cosi velocemente
Suìda scolpiva: tenui corpi
fermati nella corsa, il tempo
rapido nel sasso, l’aumento
pagano del desiderio.
Ma quando Suìda dette mano ai
volti, fu cauto o s’interruppe.
Incidendo la pietra, turbato
la cancellava: «Non so ammettere
un viso meno perfetto per Cìpride
e meno amaro in Adone nel suo
punto di addio. E poi torna un
ricordo che m’ossessiona».
Così perdeva i giorni
nell’inquietudine scavando l’anima
del marmo e la sua. Infine si volse
al mare dai cavalletti e non lavorò
più.
I molti cristiani di Amisus venivano
alla riva per ridere di lui e della
fede tardiva nell’idolo, ma l’idolo
incompiuto lo feriva in cuore
atrocemente, ed egli non rispondeva.
Una sera d’autunno priva di vento e
di nuvole arrivò per mare da Amàstris
Teodoréto il Vecchissimo, apostata
per amore, e parlò a Suìda dalla
nave, perché «Era tempo che
lo facessi.
Dimentica la favola cristiana che bella
è l’anima sola. Ogni bellezza ha
un’anima, come l’hanno massi e parole
levigati o animali lisci per gioventù
e vigore.
Ricorda pure la tua muta d’Assiria
e da’ a Cìpride le sue sembianze.
Ma non temere se per declino e morte
non le rivedi. Incidi il desiderio,
sopportane la perdita o il fuoco. In
questo è l’ultima e prima forza
degli uomini che periscono.
Metti su Adone i tuoi occhi riarsi, ché
sono pure di un’epoca. E non recare altra
pietra da sovrapporre. Scava quella
che resta, plasma le facce in concavo,
come se altri dall’interno del tempio
o la radice del marmo le vedano
quali le pensi e furono.
Coraggio, Suìda. Le
figure cave, pura formula, anime cave,
resistono meglio al tempo».
IL CIRCOLO DI MESSALLA
DI TUTTI I MIGLIORI MIGLIORE,
LENTULO CI HA LASCIATI.
SON COSE CHE SI DICONO. SE
DI QUEST’EPITAFFIO LEVIGHERÀ
LA PIETRA, COSÌ LA SUA MEMORIA
IL TEMPO.
In questa cerchia di falsi nomi,
lui, chiamato col vero,
non ha scritto che un verso:
L’amore è celebrato con l’unghia leggera
del dito.
Astenendosi dal dirsi cieco, ci figurava
belli e bravi dall’angolo, e forse per lui
l’autore di un distico abbiamo
moltiplicato per due, di un carme
per tre.
Così d’una giornata scura
gli dicevamo la luce, della modesta
schiava che fingeva di amarlo
la dilezione, la non venalità.
Per lui abbiamo pagato in moneta
e finzione: la pena degli inverni
lunghissimi in primavere ventose,
quella di non dedicarci tutt’interi
al suo male nel fabbricare
pseudonimi.
E così, dividendo la spesa, non
l’abbiamo capito. Ieri al funerale,
in un mattino veramente solare,
con uccelli veramente in volo,
l’intero circolo di Messalla
raccogliendo le ceneri nell’urna,
eravamo pochissimi.
Proprio come della mano a lui
che carezzava l’ancella nelle chiome
bastava invece quell’unghia,
forse del mignolo,
forse della sinistra.
UNA STORIA COME LE ALTRE
A Marco Fabiano
E quando a Lucrezio venne la sonnolenza
che gli era stata annunciata e gli si
rivelò l’aumento euforico
delle erbe e dei fiori resi
scarlatti dal buio,
segnale esuberante d’un’estate estuosa
e magnifica in un
giardino selvaggio fra le città,
in quella sera, forse notte
di gialle
luna e ginestre su lontane
pendici, l’ocra del suo dolore
anch’esso divenne giallo, più giallo
della giallità del croco e del sole
quand’è potente e leggero, ed egli sentì
come un’onda di flauto i sospiri di ignoti,
giovani amanti poco distante, distratti ronzii
d’api ritardatarie, alcune terse
memorie degli sguardi che pure un tempo
l’avevano dimenticato, altre immagini
miracolosamente ridotte a una, ma
non ebbe a dolersene, e a quelli
concesse un bizzarro perdono senza ritorni,
a questa il dono e l’esattezza del volto
in uno specchio purissimo, e
sorrise di tutto,
degli insulti della plebaglia e dei dotti,
dell’indecenza e della furbizia, dell’esito
inutile dei versi, dei tentativi vani
di rapire un’anima e fonderla
con la sua, dell’ira chi sa se volontaria
della madre, dell’avvilimento e del fuoco,
sentimenti e fatiche: granelli
della clessidra, parole non oltre
la punta dello stilo; così il frullo
d’ali d’un uccello privo di nome tra le fronde
gli parve il suo stesso volo e non ridisse
un solo difetto del mondo, perché sentì
l’assenza totale del desiderio e della pena,
sofferta a correggere il tempo e l’aspetto
d’ogni cosa che ci contatta: l’invenzione
della gentilezza e del tocco,
delle calamite perfette,
è impossibile.
E forse, mentre s’accorse di non
aver mai pensato così poco e così bene
– o così poco e basta –, Lucrezio,
innamorato finalmente delle sue forze
che se ne andavano, del nulla
in cui si sarebbe disperso…
INDISCREZIONI SU CAVALCANTI
I
– Uccidono Guido!
Lo grido nei vicoli
e nelle piazze, alle fontane
dov’è il viavai dell’acque,
ai cavalieri che passano
con le rosse zimarre,
alle celesti dame.
La gente che si ferma mi dice
che non è vero, che non ha
colpe, che non ho
colpa.
– Ma Guido muore! Ieri
ha scritto col sangue,
s’è sbiancato alla candela:
– TU PENSI CHE ARRIVI
DAL MARE?
– Poi non ha detto più nulla,
e c’era molta luna sull’assito
dell’altana. Ai primi
colombi dell’alba,
s’è sporto a guardare
il sole.
Io son da solo. Guido
mastica le mascelle,
il suo cuore è bellissimo,
io anche
ho paura.
II
Forse così, in un mattino
doloso di primavera, nato
dai versi, salito a rarità
di suono, a miracoli
di bianco sulla luce
di un volo che pure immobile
e cieco negli istanti
ultimissimi Guido seppe
volare e vedere, morendo
del proprio amore più che
dell’intransigenza
e del genio, e finalmente
sapendolo, come una perla
di Cina rinvenuta nell’anima,
stretta in pugno e di pari
natura, di pari grazia, lei,
lui, il mare poco
distante, il mare
che mescola…
Forse cosi l’immoderato
e miserando amicotrovò Cavalcanti
al ritorno sulla terrazza,
un poco scivolato
dalla scranna, gli occhi
sbarrati in alto,
chiarissimi,
più del cielo.
I COLLOQUI DI ELPINTI
I
Forse perché
la giornata è bella, fatta
la primavera, lucido
il cavallo, non cigolanti
le ruote del carro, riparata
la strada, in fiore
le messi e qualche
ventre di fuoco offerto
per solidi o complimenti,
poi rosso,
rosso il miglior falerno
al buio tiepido
della notte e dei nostri
colloqui…
… o forse perché
non siamo stati né ingiusti
né avari o temiamo
di diventarlo, e quindi perché
il mattino, il pomeriggio, la sera
sembrano devoti e noi
probabilmente
a noi stessi ed anche – c’è
chi lo dice – il mese,
l’anno, volendo
il decennio…
… forse per tutte
queste latitanti promesse o
che altro – la bellezza
del mare? –, perché dovremmo
temere ciò ch’è stato
deciso?
A queste
o a questa sola domanda
che ora ti faccio davanti,
anche se guardi i pesci
nella vasca e fingi
di non sentire, e che
in anni così lontani ti scrissi
e riscrissi sapendo
di non essere solo,
ancora una volta, Ammiano,
non rispondi,
non rispondi,
perché?
II
A lancinanti prore
sul dorso marino,
a palpabili mete
sotto
un’aperta tunica,
a boe terrestri nei trivi
o presso
il fuoco domestico,
a parole madide
o false che vogliano
udirsi,
alla stella affine
dei fati notturni,
alla pena
e all’odio vandalici,
ai mercati, al greto
sulle bell’acque:
a tutto;
l’uomo s’avvita a tutto,
povero Massimiano.
In tanta notte che s’avvicina,
poiché ammetti la paura
e la fine del suono,
per la tua boria infiammata
di solitario, accanto ed oltre
ed almeno
ti sopravviva e ti basti
un animale estremamente vivente
– serpe, falco
o cane argentati – , insieme
agli ondeggiamenti del grano.
*
I CAVALLI DEL NEMICO
Un dolore fermo, non acre, forse nel mezzo della corazza,
li aveva scartati tutti. Alcuni non gli parevano
sconosciuti. Al doppio segnale dell’ennesimo
attacco era sembrato inevitabile
scontrarsi un’altra volta
con loro, ma non era
successo. Di tre
o quattro
catafratti invece
ricordava chiara-
mente la furia e la destrezza nelle prime
fasi della battaglia, la velocità
delle fughe e i reiterati
assalti. E le ferite leggere
che gli avevano inferto: pochi graffi
quasi rimarginati, se non proprio
invisibili.
Uno dopo l’altro, li aveva osservati con attenzione.
La fila era stata lunga: di molte,
alte clessidre,
eppure erano le bestie
strappate ai vincitori.
Si chiese allora sgomento quanti cavalli del suo
esercito decimato fossero già nel campo persiano, inadatto forse
a contenerli tutti, quanti nemici
li avrebbero ridomati, addolciti,
addestrati, infine caracollati
al decisivo assalto, al disastro,
al macello finale.
La filza degli animali catturati, ben più umani
dei pochi prigionieri così meno afflitti,
sembrava finita.
Nel vuoto dopo l’ultimo scalpiccìo,
apparvero nella pianura gialli e sfocati roghi
molto, molto lontani. E s’udirono,
ma non appena, strazi e lamenti:
dei piagati, dei moribondi e,
come un’eco,
dei morti.
Così tramontava quella giornata terribile.
Quanto male, misto a quel sordo
vuoto nel petto,
s’accaniva con l’impazienza.
Fu dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel ritardo,
quando emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro
di chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,
e vide finalmente l’asta a due punte
che l’aveva trafitto:
il primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi
luttuoso. L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,
un gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,
in una presa insicura, la carogna d’un ratto
troppo grosso, ridotta a poltiglia
sanguinolenta.
Poi l’altro: un puledro aspro e impaziente,
avido ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,
a fatica, forse per caso, un bianco
cane tremante.
______________
Alessandro Ricci, nato il 14 agosto 1943 a Garessio (CN), un “paesone al fondo” dell’Alta Val Tanaro, dopo la laurea in lettere alla Sapienza, con una tesi su Beppe Fenoglio, sceglie di fare l’insegnante.
Nel 1972 partecipa alla realizzazione del film di Vittorio De Seta Diario di un maestro (è il vero maestro che deve preparare i ragazzini interpreti del film). Da allora, lavora anche come sceneggiatore.
Alcune sceneggiature, scritte in collaborazione col regista Claudio Bondì, diventano film per la televisione e sono pubblicate nel 1980 dalla ERI in un volume dal titolo La storia a misura d’uomo, con introduzione di Giulio Cattaneo. L’ultima sceneggiatura è tratta dal poemetto De reditu suo del poeta tardo-latino Claudio Rutilio Namaziano; il film, con la regia di Bondì, esce nel 2003 col titolo De reditu – Il ritorno.
Fumatore accanito, Ricci è morto di tumore ai polmoni il 27 marzo 2004 a Roma. Riposa, come volle, accanto al padre, nella nativa Garessio.
Ha pubblicato in vita due soli libri di poesia: Le segnalazioni mediante i fuochi (1985) e Indagini sul crollo (1989), ormai introvabili. Un terzo, I cavalli del nemico, da lui preparato, esce postumo nel maggio 2004. A cura di Francesco Dalessandro, sono state pubblicate due raccolte d’inediti: L’arpa romana (2007) e L’editto finale (2014). I colloqui di Elpinti è un’antologia delle sole poesie di argomento storico. L’accompagna il saggio, L’antico e il tempo, di Stefano Agosti.
Meravigliosa poesia, quella di Alessandro Ricci, persona – e poeta – di cui già lessi il libro edito nel 1985, e l’altro, uscito nel 1989.
Scrissi, per Alessandro – che ho conosciuto negli anni ’80 -, alcune poesie, poi edite.
Non furono scritti per Alessandro i versi che qui trascrivo ma “come quando tempo fa uno / mi chiese … “, quell'”uno” era Alessandro.
non vorrei fosse il nostro
convegno di volatile incontro
come quando tempo fa uno
mi chiese – fermàti a una
delle tante fontane della vita –
se li amavo io i colombi là
raggruppati in metafore pronte
di abbandoni
Da “i semplici (1989)”, A.C.L.