Il tempo delle ombre di Giancarlo Pontiggia

giancarlo-pontiggia-1Nota di Alessandro Moscè

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La poesia italiana ha molte varianti percorribili da unire alle preferenze singole della critica militante, che non potrebbero essere seguite con cognizione di causa, se non adottando mappe orientative tali da consentire un discernimento razionale, calcolato, per segnalare il tempo in fuga che il poeta tenta di salvare con l’uso di una parola identificativa o certamente significativa nel lavoro di composizione degli autori spesso eterogenei tra loro, come dimostrano i vari repertori critici e antologici. Ci sembra che la poesia degli ultimi anni non presenti la necessità di essere incanalata in una considerazione di valori assoluti e schematici, perché il tentativo fallirebbe di per sé nella formula. Il secondo Novecento e il primo decennio del terzo millennio non si sono risolti in un panorama formale, linguistico e organico avviato verso un canone come in un cursus scolastico che stabilisca scale di valori, poeti non scalfibili nell’ipotetica scala gerarchica. La storia recente è solo una sponda, un argine, non l’impronta tangibile alla quale affidare la metodologia di studio di sessant’anni di poesia, la cui forza della dispersione è l’unica definizione di senso e l’unico punto di riscontro. Il presupposto dello studio di Pier Vincenzo Mengaldo nella curatela non storicistica, ha voluto sgombrare il campo dall’equivoco di un’autoregolamentazione e di un progetto di tendenza combinato e alternabile come qualunque altro. La onnicomprensività della storia della poesia non può essere avvicinata, del resto, agli “storicismi totalizzanti”, proprio come Mengaldo li chiamò individuando un rischio incombente. L’opera inimitabile Poeti italiani del Novecento (Mondadori 1978) rifuggì da questo incauto pericolo e si avvertì costantemente l’allontanamento da un’etichetta unitaria, unificante e da uno strumento interpretativo di contesti complessi, improbabili da contrapporre in modo rigido.

Nell’incisività testuale della sua opera, Giancarlo Pontiggia oscilla in una continua, inesauribile origine (un big bang lento, sospeso, mai esplosivo) e in un sussultare di situazioni dissipate che finiscono in un abisso dove tutto si trasforma in oblio, dimenticanza, resa. Un poeta parco, che non ha mai avuto la smania di visibilità e che ha captato in anni difficili un ritorno al soggettivismo, come critico, con l’antologia La parola innamorata curata in tandem con Enzo Di Mauro (1978, edita da Feltrinelli), la quale tamponava la deriva avanguardista e sanciva un ritorno alla tradizione, alla forza della liricità, di una verità “innamorata” e dunque innervata di sentimento e autentica concretizzazione stilistica. Ma come poeta in proprio è solo nel 1998 che Pontiggia attesta la sua presenza da annodare per lo più al mito del tempo come opzione decisiva e irrevocabile. L’origine si situa nel verso che mantiene una memoria individuale e collettiva salda, ma che è, paradossalmente, sprovvista di un tempo preciso. L’aspetto peculiare, nel frastagliato panorama odierno dei poeti nati negli anni Cinquanta, sta in questa sorta di classicità che assegna al tempo di Pontiggia un ruolo primario, ma che non delinea una tangibilità ben distinguibile. Dove siamo? In quale spazio geografico? Il presente, decisamente offuscato, lascia trasmigrare il passato in un vago attraversamento senza mappa, in un “greve tormento”. Ma ritorniamo prontamente al punto di fuga: quale passato possiamo fermare, discernere, in un esilio dalla storia e in un’istanza di espressività comunicativa?

Pontiggia, Origini 180Nell’introduzione alla raccolta antologica Origini. Poesie 1998-2010 (Interlinea 2015) si fa strada prepotentemente l’assunto che Carlo Sini definisce “il destino dell’effimero nell’abbraccio con l’incircoscrivibile circolo del mondo”. Sia con Parole remote, edito da Guanda nel 1998, che con Bosco del tempo, sempre pubblicato da Guanda nel 2005, Giancarlo Pontiggia rovista nelle immagini opache, nel travaglio della memoria, nei guizzi improvvisi di luce, nella simbologia delle ombre che tengono insieme la vita, ogni vita, e che consegnano un eterno ritorno dove la plasticità delle forme si dissolve rapidamente. In ogni testo, rigoroso nella costruzione e nella rastremazione dei vocaboli, il canto si riproduce nel mezzo di un’atmosfera decadente che sfuma e che accoglie un’eco remota, arcaica (una “brunitura arcaizzante”, scrive Massimo Raffaeli). Si pensi a versi come: “Tra questi segni, / in questa direzione, / secondo misura di occhi, cuore e mente / comunque, entro questi limiti, / nel modo che solo va inteso, / entro i confini del canto”. Non si delinea dunque una territorialità, e lo stesso confine di luoghi non ha nominazione, non conserva un’intelligibilità, una coordinata, ma uno smarrimento imprudente, un segnale intermittente. Non un’elegia, ma un tono crepuscolare, cantabile, di resistenza nelle insorgenze memoriali, come succede ai lari negli “spigoli del mondo”, nei “pomeriggi quieti” caratterizzati dalla parola chiave “ombra”, che aleggia nel tempo rovinoso, sferzante, che appare e scompare, che si riaffaccia nel destino per occhi prensili. Pontiggia ricorda l’ombra di Ungaretti, di Giorno per giorno, “che si pone a lato timidamente”, quando non si spera più nel presentimento di un domani. Ecco il tempo perfino raro, che viene “sfogliato”, che “spuma” nell’incalzante ombra: una rifrazione, un’anamorfosi che permette di collocarlo solo in una polverosa esistenza di secoli che si raggruppano indistintamente, tra detto e non detto. Un’esistenza irrelata, con una campionatura che fa dell’uomo una comparsa e niente di più. E’ appunto il tempo, con le sue visitazioni, che risulta un incubo, ma anche uno sprone alla riflessione negli inserti del discorso indiretto. Il comando delle cose è l’estremo sentire del frammento, il responso della classicità di Pontiggia. “Ritorno ogni volta dove / l’ombra trova il suo confine / compagna del silenzio, // nella polvere delle strade che svoltano / contro cieli alti”. Il binomio tempo/memoria scivola in una corrente e si impone dal cielo alla terra in un andirivieni atmosferico, come dalla sommità della montagna fino al suolo e al sottobosco. Il poeta, nel cammino, guarda spesso in alto, in un’azzurrità vasta, in un’incisione icastica, non contenuta da stanze e porte, da finestre, da chiusure e delimitazioni. In fondo una tensione metafisica si traduce nel mistero algido del non sapere, nella constatazione dei limiti umani e nell’instabilità terrena. Perché il bordo si nasconde: oltre il confine cartografico c’è un altro confine che non si può scrutare ad occhio nudo. Il “settembre aureo” diventa il “marmo del tempo”, il “desolato vuoto”. Si fa riferimento ad un ignoto che è lì, invisibile, nelle nubi dei “foschi messaggeri”. I versi più intensi calamitano una sparizione, il dubbio atroce dell’uomo: “Come quando fosche, nel tempo // solitario dell’adolescenza, le forze / premono sul mondo // ed è giugno, è sera, e odoranti / selve di glicine dilagano sul cotto dei muri”.

Il “baluginante nero”, citato al termine di una delle migliori poesie, è quasi una dichiarazione di poetica: concentra la dicotomia tra la luce e l’ombra, tra un pensiero consapevole e l’impossibilità di dire con certezza. La poesia proviene da una veglia, da un sonno leggero, e l’immensità del creato, translucido come può essere nella percezione non solo visiva, fa di Giancarlo Pontiggia l’ideatore di un mito modernista, per dirla con Massimo Morasso. L’ideale del mondo non si posiziona nell’adesso, ma nel mai più. Pontiggia applica la sua visione in un’allegoria e in un marchio orfico. Una classicità postmoderna, potremmo dire, fa dello spirito del corpo il trait d’union tra anima e materia restituendo un’interpretazione pura alle cose e un’immortalità rintracciabile appunto nella combinazione passato/memoria. L’energia cosmica, che si avverte, fa da sponda ad un rito rigenerativo dove il silenzio della creazione, infine, riposa nel mistero, al riparo da intrusioni umane. La fioritura, come l’alba, la ricorrente luce e l’ombra in agguato, conferiscono la caducità, la capitolazione dell’io. L’immanenza, che vibra tra coscienza ed esperienza di stampo kantiano, attiene all’annullamento di ogni identità per rimandare a frammenti interiori, a sensazioni antagoniste, a snodi cruciali che rappresentano la fiamma accesa anche nella “scura crepa”. Viventi e non viventi sono situati alla stessa stregua delle ombre, dei rami, dei melograni, di “vele ardenti” che accompagnano il tragitto, il movimento incessante e a ritroso del passato che torna in una dimensione, ancora una volta, inafferrabile. “Salvami, metà della vita, e voi / nomi di una chiusa forza / che il tempo, non tenero, sbriciola / negli anni, scorza dopo scorza, // forme di una storia sacra / dove ogni parola è un’ara, / stanze estreme di una passione / celate in un’ala”.

pontiggia0888Come riferisce Adriano Napoli, uno dei critici che hanno meglio sondato la poesia di Giancarlo Pontiggia, l’invocazione è pervasa dall’oro che tinge le parole di un’aura, di una plasmabilità e inalterabilità, di una prefigurazione che non rimane ferma, ma che prende con sé il destino dalle origini. La quiete si trasforma anche in dolcezza, specie nella raccolta Bosco del tempo, che innalza il volere e l’imponderabile nell’attrito esistenziale, nella diaspora dell’umano, nella frattura tra passato e presente, nel “senso antico” dell’ignorare, parafrasando il poeta, in quello spartiacque tra introspezione e immaginazione, speranza.

In Bosco del tempo Giancarlo Pontiggia coglie la sua misura più congeniale, nella densità narrativa e nel filtro poetico, in relazione ai segnali delle cose, in un afflato che vira nel trascendente. “Questa raccolta esalta l’amore per la natura e un nutrimento classico”, ha scritto Giuseppe Conte nel risvolto di copertina. Il mondo divino rappresenta un tuffo all’indietro, un’impresa compiuta tra ardore e ansietà. I pensieri autunnali sono forme del mondo in espansione: “Quanti autunni hai guardato, e quante / foglie accartocciate, che danno / addio ai loro rami, quante, / mentre Orione ruotava intorno / allo zenit, e il mare, freddo / rumoreggiava?”. L’ombra è l’ossessione della scoperta infantile dell’età adulta: “Sotto questo azzurro, vedi, lo stesso / di un milione di anni fa, nell’ombra / che sconfina, ruvida, eguale, non sentivi, / fanciullo dolce, troppo educato, una vertigine / scura, dura, una febbre di verdi foglie // sulla tua fragile (troppo fragile) nuca?”. Non c’è germe assolutizzante in Pontiggia, ma come riferito, l’ansia di infinito induce a puntare gli occhi in alto e a tremare, fino a che l’“ombroso dove” sposa un certo neo romanticismo, un’inquietudine perturbante nel proseguo del processo poetico. Si rintracciano elementi riconducibili al sehnsucht di derivazione tedesca traducibile come desiderio che sperimenta l’uomo nei confronti dell’infinito e che rivela un malessere struggente, che si rifugia nell’interiorità che supera lo spazio-tempo. “A volte, di colpo, mi prendeva / una smania di andar via, vuota, / senza nome: era, in me, come un fervore / insano, che cresceva poco a poco, / e mi spauriva. A sera, / dentro il letto, silenzioso, udivo / Radio Praga o Radio / Tirana”. “I segni spuri di un’altra vita” palesano lo spirito del tempo, la coscienza invasiva dei lari mitologici, protettori dell’antichità, fantasmi, spettri da onorare con un fiammella accesa come succedeva nell’antica Roma per celebrare una ricorrenza e scambiarsi i sigilla dei defunti.

Riepilogando: il tempo remoto è la suggestione profonda di Giancarlo Pontiggia, il quale, a proposito, scrisse sul primo numero della rivista “Poesia e Spiritualità” (2008):  “Le parole della poesia sono sempre remote anche quando ci parlano di qualcosa che è qui, ora, nel tempo del nostro presente: sono remote perché richiedono una forma appartata, una disciplina della distanza, un tempo sospeso – dell’immaginazione e del pensiero – che sia in grado di scolpire verità decisive”. L’archeologia dello sguardo accende un’inquadratura, un linguaggio che sembra scolpito, statuario, e che accede in una sorta di stanza eterna ancora una volta senza confini. Pontiggia riporta ai vertici quella poesia italiana che sosta nei luoghi, che vive il tempo come una misura da rielaborare: un indice sempre ritoccato e un percorso non obbligato. Il viandante, nel bosco, perde i sentieri, confonde i tracciati. Il paesaggio e il passaggio della vita riservano avventure, anche nello stesso ambiente traslato in una specie di non tempo che viene prima delle stagioni, della nascita e della morte, che gravita in un olimpo, in una vetta al di sopra delle nubi e irraggiungibile come l’“aurora divina”. Questo sentimento è stato ben espresso da Alessandro Carrera su “Gradiva” (2008): “Nel Bosco del tempo, le sezioni L’infanzia tace e Severa adolescenza, ad esempio, sembrano lottare precisamente contro il più grande avversario del poeta, che è il poeta stesso, la costruzione del suo sé, l’edificio ingombrante edificato con i mattoni del suo passato e dei suoi sentimenti perduti, che dovrebbero morire e non muoiono mai perché la poesia non li lascia sprofondare nella terra, anzi li va a riesumare con picche e con vanghe, colorando la loro esumazione di una illusoria luce dorata”. Il luogo del poeta è quindi un luogo di transito personalizzato, che accumula reperti e folgorazioni. Il destino vaga in un qualsiasi punto del mondo, in una ragione tenacemente esistenziale, nell’espressione che salva il tempo stesso dal male dell’indifferenza. Ha ragione Stefano Lecchini nel dire che “Giancarlo Pontiggia non ha dimenticato la lezione di chi, fino a oggi, si è trovato a vivere nel tempo disertato dagli dèi”. Ciò che resta viene fondato dai poeti. Sono ricorrenti i messaggi di un’infanzia, non solo individuale, che subisce il duro impatto con la vita carica dei pesi di tutta l’umanità e dalla quale evadere: “Sono due le porte del sogno: / una è di corno, l’altra di avorio. / Per quest’ultima passano immagini / vane, suoni di delirio, ombre / non vere”. Una rete di relazioni, anche sottili, corrisponde alle forme del tutto. In Bosco del tempo, così come in Con parole remote, i versi riscontrano un compimento e un’appendice. Il mondo è nella duplice versione dell’umanità che mostra il suo volto trepidante. Le domande si infrangono nei barbagli, nelle vie polverose, nei muri di campagna intonacati: un tempo che è stato, un tempo sfatto perché irrimediabilmente perso. Non mancano episodi malinconici, di memoria adolescente, di parole volanti, “frecce dal leggero impennaggio”, come vengono definite, imposte dall’incedere cadenzato del ricordo, da motivi teneri per una pienezza da riconquistare.

In Origini ci sono dei testi editi che chiudono il volume (anche se non ancora raccolti in un unico libro). Si evince un tentativo di costruzione identitaria che passi dall’io al tu, al noi, ma la precarietà e una visione irriconoscibile continuano a pervadere il verso. Il dissolvimento del mondo incontra il senso di morte e di finitudine, un’energia repressa, i fantasmi di riconoscimento dell’origine e del sogno. “Passano, i giorni, / in un ostinato pressapoco: erra / l’anima, / disdegnosa del troppo / poco”. Oppure: “E leggi che durare possono / le cose che non hanno vita, / e tu muori, // e questi versi, che durano più di te, / e tu non duri, / e li hai fatti”. Pontiggia ricerca la conoscenza di portata universale, leopardiana, la comprensione di ciò che è leggibile in un’abitudine, in una fruizione tramandata, in una dedizione alla sensibilità del luogo, degli anni che attraversano l’ambiente domestico per un nuovo cominciamento. La risonanza universale offre dati esterni, un connotato di intimità, una sincronia tra questi livelli e l’identificazione dell’uomo con le vaghe atmosfere, mai consolatorie, che spingono ad elaborare consuntivi provvisori. Il tempo fisso è quasi sempre stordito, infranto. La realtà non è una scena esteriore, ma una foggia scavata, un pathos dolce, disperso, un’esperienza purificata, una luce di passione che si contorna di ombre, di graffiti. Si riproietta un’implacabile storia, un luogo duraturo, un altrove vigilante, un terreno originario ma incauto, sacro. “E noi ci perdemmo in questo / possente inizio delle cose / che fu per tutti la vita – la vita // com’è, quando ancora niente è in noi / se non caldo grembo, cibo, sonno, / suoni stranieri che rimbombano nel cavo della mente”. Ogni cosa è sfrangiata in una condizione di estraniamento, di violazione della normalità. Si tenta di umanizzare gli oggetti inanimati per lasciare tracce di familiarità attraverso miscugli ottici. “Cieli, tempi, cose – ori / ombrosi della mente. Come in un’anfora / scaldata dal sole, tutto / fu veduto in un lampo / da un pertugio di fiamme / sopite. Anche tu, che guardi / dal di fuori: e sei dentro, invece: dentro / la notte che contempli, notte / della sua luce, luce // in cui ti annienti”.

Nella poesia di oggi ci accorgiamo che il tempo è fissato nei luoghi, in una civiltà messa a fuoco da lontano, in un fondamento ideale che spazia nel viaggio, che divora le stagioni generando uno sperdimento tra interrogazione escatologica e risposta profetica. Ora che si tenta sempre più frequentemente di ristabilire un canone novecentesco e post novecentesco, riteniamo che le posizioni critiche non possano essere meramente concettuali. Giancarlo Pontiggia attinge al grande stile e respinge l’avanguardia, ma sa coniare una poesia personale plasmata da un dialogo corale, umile e sensibile, in questi luoghi indeterminati che lo avvincono. Scrive nel libro di saggi dal titolo Lo stadio di Nemea (Moretti & Vitali 2013): “Passando gli anni, posso solo aggiungere di credere sempre meno nel potere delle poetiche e sempre di più nella qualità sostanziale della poesia, che mi appare – al suo meglio – come una prodigiosa sintesi di immaginazione, pensiero e suono”. Si fonde un vortice musicale, incantatorio, con vari rimandi a temi coesi, con sequenze sintattiche ineccepibili, con clausole innestate, modulate con canali di ritorno tra interrogativi e affermazioni perentorie, compresi i “dialoghetti” sulla sorte che riassumono in toto, nella scrittura, una poetica liberatoria: ineffabile traguardo, appassionante trama.

 

 

 

 

 

 

 

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