«NOOSFERA – MUSEUM»

ilaria_scarpa_latinidi Graziano Graziani
Fotografie di Ilaria Scarpa
Terza tappa per il progetto «Noosfera» di Fortebraccio Teatro, la formazione composta da Roberto Latini, Gianluca Misiti e Max Mugnai, che proprio in questo formato trova la sua espressione più distillata, ovvero nella cifra dei monologhi di Latini – uno dei migliori attori della nostra scena – che restano tuttavia “quadri viventi” costruiti a tre sguardi.
«Museum» è il quadro più allucinato dei tre, e forse quello che mette in scena il paesaggio più desolato. Parlo di “paesaggio” perché l’ambizione di Noosfera sembrerebbe essere quella di tracciare un panorama della condizione umana odierna, dove pure quando i riferimenti sono legati alla letteratura, al cinema, ai classici del teatro, è facile leggere in controluce l’Italia di oggi e la sua geografia di macerie umane e morali. Se «Lucignolo» è un chiaro riferimento al paese dei balocchi, un orizzonte di disimpegno che luccica ma nasconde un destino di schiavitù, «Titanic» porta con sé la metafora del viaggio verso il nulla dove ancora e nonostante tutto si continua a ballare. Il punto di contatto tra i due è la voglia di fuga, quella radicale in Lucignolo – che è forse la sua pulsione più positiva – e la direzione del Titanic verso un’America ipotetica e irraggiungibile.
ilaria_scarpa_latini.2jpg«Museum» invece mette in scena il racconto più freddo, l’arrestarsi della corsa, la cristallizzazione. Riferimento a una società musealizzata dove non c’è più spazio nemmeno per la fuga. Come i colori dominanti nei primi due lavori erano rispettivamente il bianco e il rosso, qui ci troviamo immersi nel blu – colore della malinconia secondo la lingua inglese, colore del raffreddamento che prelude la perdita definitiva di calore. In questa cornice Roberto Latini veste maschere dolorose: la prima indossa un cappotto cosparso di chiavi e possiede una faccia metallica; la seconda porta una semplice maglietta bianca che si macchia di sangue, ultima traccia di una vitalità irredenta che pure sembra tendere all’esaurimento. Non a caso queste maschere, nonostante il panorama di desolazione, continuano a mormorare invocazioni all’amore, quasi assistessimo – attraverso brani originali e citazioni shakespeariane – al rantolo dell’ultimo dei romantici.
L’ultima maschera è quella che maggiormente rimanda alla pittura e, per estensione, al museo: è la maschera del bevitore, figura fragile e dall’andatura incerta che ha il suo ultimo appiglio in una bottiglia – tema caro a diversi pittori come Cezanne, Boccioni, Picasso fino ad approdare alla malinconia latente nelle bottiglie di Morandi, dove il paesaggio è ormai depurato di ogni presenza umana.
ilaria_scarpa_latini3Latini ricorre a simbologie e citazioni, ma in modo a volte ermetico e sotto traccia. Come ad esempio il richiamo alla materia, che è acqua in «Lucignolo», sale in «Titanic» e quindi terra in quest’ultimo «Museum» – elemento che può richiamare la morte come la nascita. Nei suoi spettacoli, tuttavia, non c’è nulla dell’attitudine tutta intellettuale e post-moderna del riconoscersi nella citazione più o meno colta; c’è piuttosto un ricamo di elementi che passa sostanzialmente per l’empatia. L’empatia è la chiave d’accesso a « Museum», un monologo in grado di coinvolgere in modo viscerale chi lo sta ad ascoltare pur senza andare da A a B, senza una storia, senza un vero e proprio intreccio drammaturgico. Quello che chiama l’attenzione è l’estrema forza del gesto di Latini, il suo darsi senza risparmio (di grande impatto è la scena in cui sbatte a terra, con forza e ripetutamente, uno straccio, in un crescendo senza evoluzione). Il suo essere magneticamente al centro dell’intreccio della sua tela ermetica.
ilaria_scarpa_latini5Naturalmente è corretto leggere in questa tensione irrisolta tra la fuga e l’abbandono, che innerva l’intero progetto «Noosfera», un richiamo o testimonianza della condizione odierna dell’attore (e dell’artista, più in generale). La generazione che ha scelto oggi il linguaggio dell’arte, che non è più in grado di intercettare economie significative né di praticare una lingua che incida nel dibattito pubblico, è un perenne viaggio verso la distruzione – com’era l’immagine della “Freccia Gialla” dello scrittore russo Victor Pelevin, un treno scientemente destinato al disastro. La musica continua sul ponte, ma la festa è già finita. Di fronte al panorama di macerie, la fuga di Lucignolo non è più “disimpegno”, ma sdegno vitale contro cui non si può più gridare alla vigliaccheria (come nella fuga dei cervelli che segna lo sgretolarsi della nostra futura classe dirigente, consegnata all’oblio prima ancora di formarsi). «Museum» è allora un approdo possibile di questo viaggio, un naufragio, una risacca che ci consegna all’inazione – della società come della scena, impossibilitata, nel caso di Latini, a rappresentare in modo diretto alcunché.
È corretto e legittimo, dicevamo, leggere tutto questo nel progetto «Noosfera». Basta non illudersi, però, di aver trovato una risolutiva chiave di lettura. «Noosfera» è uno specchio in frantumi dove, per quanto scissa in centinaia di parti, scorgiamo comunque l’immagine di noi stessi. Ciò che Latini aggiunge è la sua capacità, tutta emotiva e non-razionale, di far detonare la condizione esistenziale del presente lasciando che dagli squarci torni ad affiorare la poesia. Ad essa sola va il merito del magnetismo che Latini riesce a materializzare sulla scena. La sua è una personale “cognizione del dolore” – per rubare, e magari a sproposito, un felice titolo di Gadda, autore che pure aveva bisogno della maschera di una lingua inventata per articolare il suo discorso sul mondo – che si traduce in una serie di potenti maschere attoriali. Questa di «Museum» è la più pierrottesca, quella più malinconica e ferocemente innamorata della Luna dell’arte, che ci guarda di lassù, sempre più luminosa, sempre più fredda, sempre più lontana.
 

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