Paolo Pistoletti, "Legni"

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Letture

Dalla prefazione di Marco Beck
“Costituisce senza dubbio una sorpresa di segno positivo l’incontro con una ricerca poetica che proprio oggi, in una stagione non certo prospera per il modello di famiglia – se così lo si può ancora definire – “regolare”, “tradizionale”, in sostanza cristiano, pone al centro della sua vitalità e del suo dinamismo la tematica domestico-familiare. Una stravaganza anacronistica? Eppure, non altro che questo è il principale obiettivo perseguito da un poeta semi-esordiente ma non inesperto quale mi risulta essere Paolo Pistoletti: rappresentare, declinandole in versi e ambientandole per la maggior parte nel “teatro” di un appartamento, alcune “scene da un matrimonio”. Il richiamo al titolo del celebre film di Ingmar Bergman non è incidentale. Attenzione, però: riferita alle poesie di Legni, questa locuzione presuppone qualche decisiva precisazione, qualche fondamentale distinzione.
In primo luogo, la nozione di matrimonio assume, nell’orizzonte poetico-esistenziale di Pistoletti, una valenza ben più ampia che non quella dell’angusto recinto di un ménage di coppia con le sue esclusive, ossessive peculiarità e problematiche. Il rapporto dell’autore con la moglie si configura come il vincolo di coniugalità – costantemente operante senza essere mai esplicitato, mai sottolineato se non in rare occasioni (per esempio in Luce accesa) – intorno al quale si dirama una rete di relazioni affettive che abbraccia di preferenza la figlioletta ma non esclude i genitori, ritratti sia nella loro contemporanea anzianità, sia, sul filo struggente della memoria, nella loro ormai lontana maturità messa a confronto con l’infanzia dell’io poetante.
Secondariamente, le vicende familiari evocate o rievocate nei flashes elegiaco-narrativi di Legni ignorano la traumatica tensione verso la quale inclina il pessimismo moralistico del cinema bergmaniano. Il journal di Pistoletti registra, è vero, un paio di eventi scopertamente drammatici che irrompono a turbare la sommessa quotidianità dell’ambientazione domestica: la morte del padre e, poco dopo, un ricovero d’urgenza in ospedale sperimentato dal poeta stesso. Ma anche queste emergenze, comunque senza effetti negativi sulla tenuta del “patto” coniugale, passano attraverso il filtro di un pudore, di un riserbo, di un rispetto della sofferenza, propria e altrui, che non permettono al pathos di prevaricare su un virile controllo dei sentimenti.
paolo_pistolettiE tuttavia i sentimenti, se non vengono enfatizzati, non appaiono neppure sterilizzati. La loro manifestazione, improntata a una “castità” non solo psicologica ma anche verbale, è perlopiù delegata al muto eppure eloquente linguaggio dei volti, degli sguardi, delle rughe. Perché è sulla superficie facciale che affiora, a saperla leggere con intelligenza e sensibilità, la segretezza del cuore, come hanno intuito e mostrato i grandi ritrattisti, capaci di dipingere su un volto la vibrazione di un’anima. Non a caso, i vocaboli viso, faccia, fronte e simili ricorrono in questa raccolta con una frequenza e un’intensità tali da disegnare una vera e propria mappa degli affetti interpersonali. Una mappa in cui l’orografia sentimentale tocca le quote più elevate – come si è già accennato – in corrispondenza del rapporto padre-figlia. Nell’ambito del quale un’esigenza di fisicità tattile, al limite della possessività, accende di tenerezza protettiva il contatto, o quanto meno lo sfioramento, tra i due corpi: «Qui come stasera che lei mi dorme / accanto distesa […] / un piccolo mondo / che respira al mio fianco».
sempre all’immaterialità di atmosfere, stati d’animo, sensazioni, riflessioni. Un legno, quindi, tutt’altro che ostile, tutt’altro che meramente materico: entità non inanimata («chiedersi come mai si muove / senza avere vita»), non refrattaria al rispecchiamento del “fattore umano”, solidale anzi con la casa e con chi vi abita, partecipe del lento sgranarsi di “opere e giorni” della famiglia. Analoga funzione svolge il vetro delle finestre, barriera di confine tra la quiete del microcosmo casalingo e il tumulto della strada («quel grande fiume di asfalto»), diaframma su cui si appoggia pensosa la fronte del poeta, quasi a trarne energia intellettuale. Oppure superficie riflettente su cui si stampano, stilizzati, i lineamenti di un volto. Persino il caffè, il cui aroma, proveniente dalla cucina, si diffonde più di una volta tra le pagine di Legni, sembra simboleggiare per traslato una dimensione dello spirito, stimolando una disposizione introspettiva.”
[…]
Da “Legni“, di Paolo Pistoletti, Giuliano Ladolfi Editore
Legni                                                                    
Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.                                               
All’ospedale di Careggi c’è il bianco                                              
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a stare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non è più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza                   
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.
Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo                                          
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre       
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro                         
moltiplicato per sempre sia l’eternità.   
Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001. 

Qui

Siamo stati qui fianco a fianco tutto il giorno
insieme tra i tavoli i fogli e le sedie
nel mentre tutte le nostre cose si lasciavano fare
bene o male da noi, al di là di tutto
al di là del fatto che invece
sotto sotto non c’eravamo affatto.
Ma dopo pranzo ho poggiato davvero la testa
sulla poltrona. Poco prima avevo aperto le finestre
riempito la brocca dell’acqua il vaso dove sta la pianta.
Ma in fondo al cuscino forte e chiaro
poi ho sentito che ci doveva essere dell’altro,
che ancora nessun gesto aveva colmato la misura
quello che si poteva. Qui davanti a casa c’è una grande chiesa
sulle mensole i libri una divina commedia
parole di carta che restano appena
cenni chiusi sulle mani
come lucernari nel buio della mansarda.                                                     
Ma poi quando mi volto allora non mi bastano più gli occhi
come in una pagina quando con l’ultima riga non è finita
adesso con te in questa stanza
pare tutto una notte bianca una sete di luce che non passa.
Vecchio
 
Dicono che quel vecchio non ci stia più tanto con la testa,
io non lo so ma qualcosa davvero gli manca
perché in strada pare una giacca vuota che passa.
Ma poi come se si fosse tutti immensi all’improvviso
ti saluta che pare vento sulla faccia e allora sì che sulle spalle
senti il passo che s’allunga
la distanza della spanna che separa.
Una volta mi hanno detto che per colmare la misura
bisognerebbe avere un occhio perfetto
raggiungere il punto esatto
guardare dritto per dritto,
come da bambino quando tu mi prendevi in braccio
e allora dopo mi sentivo un altro
come l’ultimo avamposto prima del gran salto
lassù finalmente
a cavalluccio sul collo
che adesso non mi ricordo di un trono più alto.                              
Amico
Caro amico mio quando uno come te
si ammala in giorni come questi
di una tacca tutto si abbassa
pure i nostri corpi. E solo adesso                                                           
vedo tutto il bianco della mia barba
l’alba che mi cresce fitta pallida sulla faccia.
E allora rimane poco qui quasi niente
del respiro che va sotto va più giù,
mentre fuori si riaprono nicchie lucernari
si riapre la stanza che ora riconsegna reperti
ripone unghie nei cassetti
lettere e capelli nelle scatole
come pelle lasciata indietro nei giorni i guanti spaiati.
E le stagioni tra le persiane passano
tornano ai loro maglioni alle loro scarpe
e nella foto appesa al muro poi
tutto quel ricomporsi di cose.
 
Bentornata
Come un fiume mia madre scorre piano
una dopo l’altra le foto sopra al tavolo
risale i ricordi fino al fondo dell’argilla.
E sembra più bella adesso che la guardo
un’impronta sulla sedia che non sa niente,
poi la voce che si incrina con tutti quei nomi
come acque che si rompono dopo il bene.
Che a dire il vero si sperava che dopo il flash
cascasse il velo dal letto di magra
che in un lampo fosse nudo il dolore.       
Invece non si vede uno scatto che possa                                              
fissare qui il lenzuolo di chi ci lascia
solo sulla carta che vedessi mamma                 
quello che succede mentre parli. Che guardalo laggiù 
il vecchio lido dove una volta dice che si ballava
con tutti quanti quelli che va a sapere
adesso quale buon vento se li porta.
E poi noi che chissà come faremo
che non bastano più gli argini a tenerci qua
l’erba che sale dalle sponde
per i crinali fino al monte
dove il babbo ruzzolava come un matto
a rompere i pantaloni a chilometri
e poi una valanga di risate da crepare la pelle
ci faceva uscire fuori per sempre
bentornati a noi. E bentornata pure a te.
 
 
Chi
 
 
Per carità d’accordo va bene anch’io vorrei
dirlo come si conviene ma senza citare
senza sfilare un verbo dalle tasche
dalle pagine dalla lingua di un dio invano
che alla fine tanto si sa troppo di tutto
quello che muore. Che poi a pensarci bene     
chi può più della forza che ha il tuo letto
della morsa della tua stanza
delle tue mura di casa sempre
con quell’unica porta da infilare
sulla punta della chiave. E chi più
del compenso che cerchi quando vorresti
lì fuori tutto immenso compreso il varco del bar
e infinita la tazzina del caffè. E chi più
di quel chiuso e del niente di quel locale
dove tutti girano le facce le pagine
le poche righe una foto, di tutte quelle
parole ammassate che restano dentro
come i coriandoli a terra quando il carnevale s’è spento.
E chi poi può più di noi a cena lì lì
sempre sul punto di esserci come la pasta al dente
con quell’animaccia nostra a resistere
inesorabile al centro che ancora niente di niente.
 
NOTA BIOGRAFICA
Paolo Pistoletti è nato nel 1964 a Città di Castello e vive e lavora ad Umbertide in provincia di Perugia. Dopo gli studi in giurisprudenza e in teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali. Dal 2010 cura e conduce un programma di letture e poesia a RadioRCC, proponendo anche testi propri.
 

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