Thomas Kinsella, “Appunti dalla terra dei morti”

Letture
Thomas Kinsella


La pace della pienezza
di Chiara De Luca

Thomas Kinsella, nato a Dublino nel 1928, è una delle voci più intense e originali della poesia irlandese contemporanea. Oltre che poeta, è anche editore, instancabile traduttore dall’antico irlandese, curatore di diversi lavori critici e antologici.
Circa trent’anni fa, pur essendo già allora considerato uno dei migliori poeti irlandesi contemporanei, Kinsella decise di cambiare radicalmente l’orientamento della sua poesia, e di adottare una via più sperimentale, accogliendo numerose suggestioni dal modernismo. La sua è una poesia non immediata, che

fa uso di una meticolosa ricerca linguistica tesa a far “risuonare” la parola in una complessa melodia il cui ritmo è però spesso franto da repentine dissonanze. La sua ispirazione parte tuttavia sempre da un fatto contingente, che può essere un episodio di cronaca o un evento storico, oppure la vista del cadavere di un cane, della zampa di un gatto che spunta da sotto una porta, di un coleottero al lavoro, o delle proprie vene pulsanti sottopelle.
Nella poesia di Thomas Kinsella confluiscono numerose suggestioni della tradizione popolare irlandese. Si tratta però di una poesia più attenta al paesaggio e alla storia d’Irlanda che ai suoi abitanti, il più delle volte tratteggiati in funzione di tipi, simbolici dell’anima di una intera nazione.

In un saggio sull’importanza dell’elemento autobiografico nella poesia di Thomas Kinsella, il critico Taffy Martin sostiene che la sua poesia “può essere letta come una battaglia – meticolosamente orchestrata, circolare più che lineare e volutamente infinita – tra la funzione passiva e al contempo cinetica dello specchio da un lato, e i segreti creati, e, soprattutto, generati e di volta in volta proiettati dallo specchio”. Lo specchio è un elemento onnipresente nella poesia di Kinsella, una poesia in cui la suggestione autobiografica travalica l’identità dell’individuo, che, seppur visto nella sua unicità, diviene simbolico di una coscienza collettiva che si riflette (riconosce o disconosce) nelle cose.

Nel caso di Kinsella, possiamo parlare di un’autobiografia che si fa poesia, piuttosto che di una poesia autobiografica. L'”io” del poeta, pur nella sua prepotenza, nella decisione del suo delinearsi nell’universo poetico di Kinsella, non è che uno strumento (cinetico e passivo al pari dello specchio) della realtà che lo circonda. Lo specchio è simbolico sia della coscienza del soggetto, sia di una coscienza immanente esterna a lui, che gli restituisce la sua interiorità, plasmata, spesso deformata, dall’incontro-scontro con la realtà che lo circonda. Paradossalmente, questo io all’apparenza così “ingombrante”, si sminuzza e annienta nel riflesso incompleto che gli viene restituito dallo specchio, deputato a rivelargli le sue contraddizioni, l’intensità delle sue sofferenze, profondamente radicate in quella “oscurità” caotica che è per Kinsella fucina dell’opera d’arte, destinata a sprofondarvi di nuovo nel momento in cui si affrancherà dal poeta (l’artigiano, l’artefice). La scrittura è infatti per Kinsella lavoro di cesello, e l’io è spesso (simbolicamente) visto nell’atto stesso di scrivere, e riflesso nel suo attonito silenzio di fronte al prodotto della creazione. In “Specchio in febbraio” (1962), una delle poesie più note di Kinsella, l’anima diviene specchio in cui il soggetto si “legge”: “Ora pienamente nello specchio della mia anima / leggo che ho visto per l’ultima volta la mia giovinezza / e qualcosa di più”. Nella coscienza riflettente di questo io frammentato, prismatico, direi, la storia individuale e quella collettiva si fondono e confondono, divengono l’una riflesso e potenziamento dell’altra. La poesia di Thomas Kinsella è visiva non soltanto perché l’occhio del poeta (e la sua coscienza riflettente) si avvicina alle cose, le fotografa e restituisce nel verso, bensì anche perché si spinge oltre, cercando di penetrare le cose, di svelarne i segreti riposti, di spogliarle, mostrandone l’anima. L’occhio del poeta si avvicina come una sorta di microscopio, che cerca di cogliere e restituire particolari che normalmente sfuggono alla vista e all’attenzione. La poesia di Kinsella è spesso una sorta di “ingrandimento” del molto piccolo o dell’infinitamente piccolo, che s’impone, facendo sparire la realtà circostante: “C’era un movimento minimo ai miei piedi, / minimo e meccanico; guardai giù. / Un coleottero come una foglia di bronzo / sul cemento avanzava a piccoli passi / abbracciando con le zampette / una palla di sterco più grande di lui. / Il ciglio dentellato premette umilmente la terra, / si sollevò in una breve occhiata, si riabbassò; / la palla di sterco avanzava, impercettibilmente, / perdendo qualche frammento, / granelli di stantio e freschezza”. Allo stesso modo, l’inconscio dell’io, ciò che nel corso della vita vigile resta sepolto, s’impone sulla sua manifestazione esteriore (l’io del poeta stesso), ma proprio nel dirsi si sottrae e soggiace di nuovo al controllo della razionalità: “Spesso più semplifico / più le poche semplificazioni vanno / a scavare nelle proprie profondità, / finché non si risveglia la struttura di guardia…”. Così, in “Donna-gallina”, l’incontro-scontro, prefigurato fin dal titolo, tra la donna e l’animale, diviene simbolico non soltanto dell’incontro-scontro dell’uomo con la natura, bensì anche di quello tra il poeta, che osserva, e la propria stessa coscienza; tra il poeta e il mistero della creazione artistica, che riproduce all’infinito l’evento della nascita, vista come “riduzione” dell’io nel lasciare spazio a una nuova vita che lo rifrange e potenzia: “Mentre guardavo, il mistero si compiva. / Il nero zero dell’orifizio / si contrasse divenendo un punto / e il bianco zero dell’uovo pendeva libero, / picchiettato di umori verde palude”. La poesia riflette perciò quel che di norma sfugge allo sguardo, non fornisce spiegazioni, non definisce, bensì si limita a dimostrare che “non c’è fine alle cose che, / per quanto senza capirle, possiamo notare / e nella fantasia custodirci / nel tuorlo, per così dire, dell’essere, / e lì subire il suo crescere (quasi animale)”. In questa, come nella maggior parte delle poesie di Kinsella, l’uomo e la natura, il nucleo (tuorlo) delle cose e la coscienza dell’uomo si fondono (a volte contaminano) a vicenda, e si potenziano (crescono) in modo animale, dunque incontrollato. La vita “accade” quando il soggetto la riconosce, l’oggetto “diviene” nel momento stesso in cui è visto dal soggetto, che si fa a sua volta oggetto nell’accoglierne la rifrazione. Allo stesso modo, l’io si ri-conosce (e svanisce) nel momento stesso in cui si fonde con l’oggetto del suo guardare: “Qualcosa che – aderendo / alla sua cavità, non era stato / adesso era: un uovo di essere”. Così la zampa di un gatto che sbuca da sotto la porta, in “Irwin Street”, riflette una “chiazza di chiara memoria”, finché realtà, ricordo e sogno si fondono per dissolversi al risveglio, che è anche risveglio dei sensi e nascita eternamente ripetuta: “Mi sedetti sulla sponda del letto, / la mano nei pantaloni del pigiama, / i piedi nudi sulle assi nude”. Questa identità dell’io con la realtà circostante si ripropone, a partire dal titolo, in “Tutto è vuoto, e io devo girare”, dove una situazione contingente di sospensione e solitudine si fonde con il ricordo rievocato dalla vita che si risveglia negli oggetti (“I pavimenti strisciavano, / un terrore elettrico / era ovunque in agguato”) perché “Ciò che è sterile: è già di per sé il Tutto. / Fantastici milioni di / fragilità / in ogni singolo”. Una situazione simile si ripete in “Buonanotte”, dove la lente d’ingrandimento si sposta sul corpo del poeta stesso, rivelandone la sostanza più nascosta, ingrandendone i particolari: “[…] se guardi più da vicino / puoi vedere il dolce infimo / muscolo che si va formando / dalla roccia, e le vene pulsanti / a proseguire verso il dentro, appena visibili / sottopelle, e (appena rischiarati dall’interno) / ciuffi di morbide braccia che si radunano su / minuscoli occhi aperti, polpastrelli, smorfie / di bocche dalla penombra, minime / corruscazioni di luce fluttuanti, scintillanti / mezzelune- moscerino di peli!”. In “Lavoratore allo specchio, al suo banco” (1973) il gioco di rifrazione tra coscienza individuale e coscienza collettiva, tra l’io del poeta e il mondo, tra le mani creatrici e la creazione si fa evidente fin dai primi versi: “Superfici in silenzio estasiato / si assiepano scintillanti / tra loro”, in una “Autoriflettente / astrazione tendenzialmente circolare”, in cui la vicenda biografica, come notava T. Martin, non si disvela in una linea retta, bensì in un movimento circolare, che va dalle cose alla coscienza, dall’io del poeta al suo pubblico, il cui sorriso da “accogliente” si fa “acquoso”, mentre “la brillante assemblea comincia a farsi silenziosa”.
Infine il cerchio si amplia, e arriva a comprendere i frammenti di memoria riflessi confusamente dall’inconscio, facendoli riemergere da “quale dolce tempo antico… / Dimenticato”, e materializzando nella memoria “Il calmo sorriso di una faccia / semibruciata: orbita / vuota, lo sguardo all’interno / verso i quattro angoli di / quale infame continuum…”, così che lo sguardo interiorizzato dello specchio si sostituisce, frammento dopo frammento, a quello fisico di “Occhi che hanno visto… / Dimenticato”. La visione che ne risulta assume una concretezza tanto dolorosamente vivida da indurre il poeta e desiderare che l’immagine riflessa dall’interno soccomba di nuovo alla fallibilità della memoria e torni nel nucleo caotico che l’ha generata: “Resisti! Un’empia lingua lecca, tasta / il sangue denso del fratello. / Dimentica!”. La commistione, il reciproco gioco riflettente tra caos
interiore e caos esteriore, cui il lavoratore (il poeta) si trova di fronte osservando la merce ammucchiata (la sua creazione), è simbolica del percorso della poesia di Kinsella, del continuo interscambio tra il “tuorlo” delle cose e il “tuorlo” della coscienza individuale: “Il processo è complicato, e devastante / – una pericolosa confusione di pezzi laceranti / si raduna. Prendete il mio ciarpame a testimone… […] Un’idea, cresciuta con la cosa stessa, / dovrebbe condurlo a cercare all’interno / con una specie di vita, dovuta all’effetto riflettente”, per poi rifrangerla a sua volta in quelle che Kinsella stesso ha definito le “casuali / persistenti coerenze” dell’artista come artigiano.

(Articolo pubblicato in “Poesia”, XXII, nr. 236, Marzo 2000).


Poesie di Thomas Kinsella da: Appunti dalla terra dei morti, Edizioni Kolibris

THE HIGH ROAD

Don’t be too long now, the next time.
She hugged me tight in behind the counter.
Here! she whispered. (A silvery
little mandoline, out of the sweet-box.)

They were standing waiting in the sun outside
at the shop door, with the go car,
their long shadows along the path.

A horse trotted past us down Bow Lane;
Padno Carty sat in the trap
sideways, fat, drifting along
with a varnish twinkle of spokes and redgold
balls of manure scattering
on the road behind.
Mrs. Fullerton
was sitting on a stool in her doorway,
beak-nosed, one eye dead.
DARK! DAAARK! squawked the sour parrot
in her room. (Sticking to his cage
with slow nails, upside down.
He mumbles on a bar, and creeps
stiffly, crossways, with his tongue;
a black moveable nut
mumble
in my moulh.)
Silvery tiny strings
trembled in my brain.
Over the parapet of
the bridge at the end of Granny and Granda’s
the brown water poured and gurgled
over the stones and tin cans in the Camac,
down by the back of Aunty Josie’s.
A stony darkness, after the bridge,
trickled down Cromwell’s Quarters, step
by step, along by the foot of the wall,
from James’s Street.

 

(A mob of shadows
mill in silence on the Forty Steps;
horse-ghosts back and plunge, turning
under slow swords. In the Malt Stores,
through a barred window on one of the steps,
spectres huddle everywhere
among the shadowy brick pillars
and dunes of grain, watching
the pitch drain out of their wounds.)

Up the High Road I held hands,
inside on the path, beside the warm
feathery grass, and looked through the paling,
pulled downward by a queer feeling.
Down there… Small front gardens
getting lower and lower; doorways,
windows, below the road.
On the clay slope on the other side
a path slants up and disappears
into the Robbers’ Den. I crept up
the last stretch to the big hole
full of fright, once, and knelt
on the clay to look inside:
it was only a hollow someone made,
with a dusty piece of man’s dung
and a few papers in a corner,
and bluebottles.

(Not even in my mind
has one silvery string picked
a single sound. And it will never.)

Above the far-off back yards
the breeze gave a sigh: a sin happening…
I let go and stopped, and looked down
at a space in the weeds, and let it fall
for ever into empty space
toward a stone shed, and saw it turn
over with a tiny flash,
silvery shivering with loss.
***
LA STRADA MAESTRA
.

Non metterci troppo, la prossima volta.
Mi abbracciò stretto dietro la cassa.
Qui! Sussurrò. (Un piccolo
mandolino argentato, fuori dalla scatola dei dolci.)

Aspettavano fuori in piedi nel sole
davanti alla porta del negozio, l’auto a noleggio,
le loro lunghe ombre stese sul sentiero.

Un cavallo trottava giù verso Bow Lane;
Padno Carty sedeva sul calesse
sbilenco, grasso, scivolava lento
con un lucido riverbero di raggi e oro rosso
palle di concime tutte sparse
sulla strada alle sue spalle.
Mrs. Fullerton
sedeva sulla soglia sopra uno sgabello,
il naso aquilino, un occhio morto.
BUIO! BUUUIO! gracchiò acido il pappagallo
nella stanza di lei. (Attaccato alle sbarre della gabbia
con le unghie lente, capovolto.
Borbotta su un poggiolo, e scivola
rigido, di traverso, con la lingua;
una piccola noce in movimento
mi borbottava
in bocca.)
Minuscoli fili argentati
mi tremavano dentro il cervello.
Sul parapetto del
ponte all’estremità del Granny e Granda’s
acqua marrognola gorgogliava e gocciava
su pietre e minuscole lattine nel Camac,
giù accanto al retro dell’Aunty Josie.
Un’oscurità pietrosa, dopo il ponte,
colava giù verso i Cromwell’s Quarters, passo
dopo passo, lungo la base della parete,
dalla James’s Street.
.
(Una folla di ombre
brulica in silenzio sul Forty Steps;
cavalli fantasma si voltano e immergono, girando
sotto lente spade. Nel Malt Stores, vedi
tra le sbarre di una finestra su uno dei gradini,
spettri ovunque accucciati
tra scuri pilastri in mattone
e dune di cereali che guardano
pece sgorgare dalle proprie ferite.)
.
In cima alla strada maestra protesi dentro le mani,
sul sentiero, al di là della calda
erba lieve, e attraverso la palizzata guardai,
spinto da una strana sensazione.
Laggiù… giardinetti anteriori
che scendevano sempre di più; soglie,
finestre, seminterrate.
Dal lato opposto, sulla discesa argillosa
un sentiero devia e svanisce
nel Robbers’ Den. Risalii strisciando
l’ultimo tratto verso la grande fossa
colma di spavento, un tempo, e m’inginocchiai
sull’argilla per guardarci dentro:
era solo un fosso scavato da qualcuno,
con un pezzo polveroso di sterco umano
e qualche cartaccia in un angolo,
e mosconi.
.
(Non una sola corda argentata
neppure nella mia mente ha mai prodotto
se pizzicata un singolo suono. E mai lo farà.)
.
Al di sopra dei lontani cortili sul retro
la brezza emise un singhiozzo: un peccato
avveniva…
Lasciai stare e mi fermai, e guardai giù
in un punto nella sterpaglia, e lo lasciai cadere
per sempre nello spazio vuoto
verso un pendio pietroso, e lo vidi rotolare
emettendo un minimo bagliore,
rabbrividendo argenteo di smarrimento.

***
IRWIN STREET

Morning sunlight – a patch of clear memory –
warmed the path and
the crumbling brick wall,
and stirred the weeds sprouting
in the mortar.
A sparrow cowered
on a doorstep. Under the broken door
the paw of a cat reached out.
White nails fastened in the feathers.
.
Aware – a distinct dream –
as through slowly making it happen.
The suitcase in my hand.
My schoolbooks…
.
I turned the corner into the avenue
between the high wire fence and the trees
in the Hospital: under the leaves
the road was empty and fragrant
with little lances of light.
He was coming toward me – how
could he be there, at this hour? –
my maker, in a white jacket,
and with my face. Our steps
hesitated in awkward greeting.

*

Wakening again, upstairs,
to the same wooden sourness…

I sat up on the edge of the bed,
my hand in my pyjama trousers,
my bare feet on the bare boards.
***
IRWIN STREET

Luce mattutina del sole – chiazza di chiara memoria –
riscaldava il sentiero e
il muro cadente in mattoni,
e scuoteva l’erbaccia spuntata
nella calcina.
Un passero acquattato
sopra una soglia. Da sotto la porta sfondata
spuntò la zampa di un gatto.
Bianchi artigli affondarono tra le piume.
.
Attenzione – un sogno nitido –
come a farlo lentamente avvenire.
La cartella in mano.
I miei libri di scuola…
.
Girai l’angolo e presi il viale
tra l’alto recinto di filo spinato e gli alberi
nell’Ospedale: sotto le foglie
la strada era vuota e rallegrata
da piccole lance di luce.
Lui veniva verso di me – come
poteva essere lui, lì, a quell’ora? –
il mio creatore in giacca bianca,
e con la mia faccia. I nostri passi
esitarono in un goffo saluto.

*
Risvegliandomi, al piano di sopra,
alla stessa legnosa asprezza…

Mi sedetti sulla sponda del letto,
la mano nei pantaloni del pigiama,
i piedi nudi sulle assi nude.
***
SURVIVOR

High near the heart of the mountain there is a cavern.
There, under pressure in the darkness,
as the walls protest and give dryly,
sometimes you can hear the minute dust-falls.
But there is no danger.
The cavern is a perfect shell of force;
the torsions that brought this place forth
maintain it. It is spoken of, always,
in terms of mystery – our first home…
that there is a power holding this part of the mountain
subtly separate from the world, in firm hands;
that this cave escaped the Deluge;
that it will play some part on the Last Day.
.
Far back, a lost echoing
single drop:
the musk of glands
and bloody gates and alleys.
.
Claws sprang open
starred with pain.
*

Curled in self hate. Delicious.
Head heavy. Arm too heavy,
What is it, to suffer:
the dismal rock nourishes.
Draughts creep: shelter in them.
Deep misery: it is a pleasure.
Soil the self.
lie still.
.
Utter dread
of moving
the lips
to let out
the offence simmering
weakly
as possible
within.
.
Something krept in once.
Was that a dream?
A flame of cold that crept under the back
and under the head huddled close
into the knees and belly.
For what seemed a long year
a thin thread of some kind of sweetness
wailed far below
in the grey valley of the blood.
What is there to remember?
.
Long ago, abuse and terror…

O fair beginning…

landfall – an entire new world
floating on the ocean like a cloud
with a forest covering and clean empty shores.
We were coming from… Distilled from the sunlight?
or the crest of foam?
From Paradise…
In the southern coast of the East… In terror
– we were all thieves. In search of a land without sin
that might go unpunished, and so prowling
the known world – the northern portion, toward the West
(thinking, places answering each other on earth
might answer in nature).
Late afternoon we came in sight
of promontories beautiful beyond description
and saw the crystal sea gather in savage currents
and dash itself against the cliffs.
By twilight everything was destroyed,
the only survivors a shoal of women
spilled onto the shingle, and one man
that soon – even as they lifted themselves up
and looked about them in the dusk –
they silently surrounded.
Paradise!
No serpents.
No lions. No toads. No injurious rats
or dragons or scorpions. No noxious beasts.
Only the she-wolf…
.
Everyone falling sick, after a time.
.
Perpetual twilight… with most of the light dissolved
in the soil and rocks and the uneasy waves.
A last outpost into the gloom. Sometimes
an otherwordly music sounded in the wind.
A land of the dead.
Above the landing place
the grass shivered in the thin shale
at the top of the path, waiting, never again disturbed.
There was a great rock in the sea, where we went down
– The Hag: squatting on the water,
her muzzle staring up at nothing.
A final struggle up rocks and heather,
heart and lungs aching,
and thin voices in the valley
faintly calling, and dissolving one
by one in the blood.

I must remember
and be able some time to explain.

*

There is nothing here for sustenance.
Unbroken sleep were best.
Hair. Claws. Grey.
Naked. Wretch. Wither.

***
SOPRAVVISSUTO

Vicinissima al cuore della montagna c’è una caverna.
Là, sotto pressione nell’oscurità,
mentre le pareti protestano e seccano,
puoi sentire talvolta minuscole frane di polvere.
Ma non c’è pericolo.
La caverna è una perfetta conchiglia di forze;
le torsioni che generarono il luogo
lo sostengono. Se ne dice, sempre,
in termini d’arcano – la nostra prima dimora…
che c’è un potere a tenere questa parte di monte
separata un poco dal mondo, in mani salde;
che questa caverna è scampata al Diluvio;
che giocherà un suo ruolo nel Giorno del Giudizio.

Molto più indietro, un perduto echeggiare
singola goccia:
il muschio di ghiandole
e cancelli insanguinati e viali.

Artigli di scatto si aprono.
costellati di pena.

*

Raggomitolato nel disprezzo di sé. Delizioso.
Testa pesante. Braccio troppo pesante,
Cos’è… soffrire:
roccia tetra nutre.
Spifferi strisciano: in essi è rifugio.
Profondo tormento: è un piacere.
Insudicia l’essere.
giaci immobile.

Pura paura
di muovere
le labbra
lasciar uscire
l’offesa che ribolle
debolmente
per quanto possibile
dentro.

Un tempo qualcosa strisciò dentro.
Era un sogno?
Una fiamma di gelo scivolava sotto la schiena
e sotto la testa precipitava
nelle ginocchia e nel ventre.
Per quel che parve un anno infinito
un filo sottile di una qualche dolcezza
vagiva molto più in basso
nella valle grigia del sangue.
Cosa c’è là da ricordare?

Molto tempo fa, violenza e terrore…

Oh bell’inizio…

Terra in vista – tutto un nuovo mondo
fluttuante sull’oceano come una nube
con una foresta a coprire e pulire le rive vuotate.
Venivamo da… Distillato da luce solare?
o creste di spuma del mare?
Dal Paradiso
Nella costa meridionale dell’Oriente… Terrorizzati
– eravamo tutti ladri. In cerca d’una terra senza peccato
che potesse restare impunito, e così battendo alla cieca
il mondo conosciuto – la porzione a Nord, verso Ovest
(pensando: luoghi che in terra si rispondono a vicenda
potrebbero fare altrettanto in natura).
Nel tardo pomeriggio avvistammo
promontori belli oltre ogni dire
e vedemmo il cristallo del mare
condensarsi in flussi selvaggi
e schiantarsi contro le rocce.
Al tramonto era tutto distrutto,
unici sopravvissuti una frotta di donne
a riversarsi sulla spiaggia ghiaiosa, e un uomo
che subito – proprio mentre si alzavano
guardandosi attorno al crepuscolo –
circondarono mute.
Paradiso!
Senza serpenti.
Né leoni. Né rospi. Né ratti ingiuriosi
o dragoni o scorpioni. Né bestie malefiche.
Soltanto la lupa…

Si ammalarono tutti. Non passò molto tempo.

Perpetuo crepuscolo… gran parte della luce dissolta
su terra e rocce e onde turbate.
Un estremo avamposto nel buio. Talvolta
dall’oltre una musica echeggiava nel vento.
Una terra dei morti.
Al di sopra del punto di approdo
l’erba tremava nel sottile scisto argilloso
in cima al sentiero, in attesa, mai più turbata.
C’era una grande roccia nel mare, dove scendemmo
– La Strega: accovacciata sull’acqua,
col muso proteso verso il nulla.
Un ultimo sforzo su erica e rocce,
col cuore e i polmoni dolenti,
ed esili voci nella valle
debolmente a chiamare, e dissolversi una
dopo l’altra nel sangue.

Devo ricordare
e riuscire un giorno a spiegare.

*

Non c’è nulla qui per nutrirsi.
L’ideale sarebbe un sonno incessante.
Capelli. Artigli. Grigio.
Nudi. Disgraziati. Appassire.

***

AT THE CROSSROADS

A dog’s
body zipped
open and
stiff in
the grass.

They used to leave hanged men here.

At night when the moon is full
and swims with evil through the trees,
if you walk from the silent stone bridge
to the first crossroads and stand there,
do you feel that sad disturbance under the branches?
Three times I have been halted there
and had to whisper “O Christ protect”
and not know whether my care was for myself
or some other hungry spirit.
Once by great whiplash without sound.
Once by an unfelt shock at my ribs
as a phantom dagger stuck shuddering in nothing.
Once by a torch flare crackling
suddenly unseen in my face.
Three times, always at the same corner.
Never altogether the same. But the same.

Once when I had worked like a dull ox
in patience to the point of foolishness
I found myself rooted here, my thoughts
scattered by the lash Clarity:
the end of labour is in sacrifice,
the beast of burden in his shuddering prime
– or in leaner times any willing dogsbody.

A white face
stared from the
void, tilted over,
her mouth ready.

And all mouths everywhere so
in their need, turning on each furious
other. Flux of forms
in a great stomach: living meat torn off,
enduring in one mess of terror
every pang it sent through every thing
it ever, in shudders of pleasure, tore.

A white ghost flickered into being
and disappeared near the tree tops.
An owl in silent scrutiny
with blackness in her heart. She
who succeeds from afar…
The choice –
the drop with deadened wing-beats; some creature
torn and swallowed; her brain, afterward,
staring among the rafters in the dark
until hunger returns.
***
ALL’INCROCIO

Un cane
il corpo squarciato
in due e
rigido dentro
l’erba.

Un tempo là ci lasciavano gli impiccati.

Di notte, quando la luna è piena
e nuota col maligno tra gli alberi,
se cammini dal ponte muto di pietra
fino al primo incrocio e ti fermi,
senti quel triste tumulto sotto i rami?
Per tre volte sono stato bloccato in quel punto
e ho dovuto sussurrare: “Cristo, proteggimi tu”
e senza sapere se è per me che temevo
o per qualche altro spirito affamato.
Una volta per una sferzata muta.
Una volta per una scossa lievissima tra le costole
come di un pugnale fantasma che colpisca a
vuoto e sussulti.
Una volta per il crepitìo di un bagliore di torcia
repentino e invisibile sul viso.
Tre volte, sempre nello stesso angolo.
Mai lo stesso del tutto. Eppure lo stesso.

Una volta che avevo lavorato come un bue indolente
paziente ai limiti dell’idiozia
mi ritrovai inchiodato qui, coi pensieri
dispersi dalla sferzata Chiarezza:
la fine della fatica è nel sacrificio,
la bestia da soma nel fiore fremente degli anni
– o in tempi di magra il corpo obbediente di un cane.

Una faccia bianca
fissava dal
vuoto, incombeva,
con la bocca pronta.

E tutto era bocche ovunque così
bramose, a voltarsi l’una verso
l’altra con furia. Flusso di forme
in un grande stomaco: carne viva strappata,
a resistere in un caos di terrore
ogni spasmo generato, in ogni cosa che
fremendo di piacere, straziava.

Un bianco spettro si materializzò
e svanì accanto alle cime degli alberi.
Una civetta scrutava in silenzio
con il buio nel cuore. Lei
che può farlo da grande distanza…
La scelta –
la goccia con colpi d’ala smorzati; una qualche creatura
gonfia e squarciata; il suo cervello, dopo,
guarda tra le travi nel buio
finché la fame non torna.

***
GOOD NIGHT

It is so peaceful, at last:
the heat creeping through the house,
the floorboards reacting in the corner.
The voices in the next room
boom on in their cabinet.
How it brings out the least falseness!
There is one of them chuckling at
a quiet witticism of his own.

Relax, and these things
shall be…
and the voices of a norm
that is in course of…
foundering…
urgent yet mannerly:
I would remind… Please…
Oblivion, our natural condition…

and the sounds of the house are all
flowing into one another and turning
in one soft-booming, slowly swallowing
vertige most soothing and pleasant
down this suddenly live
brinegullet
to a drowned pit
clasping the astonished spectre of
the psyche in its sweet wet.

Attached into the darkness by every sense
– the ear pounding –
peering eye-apples, unseeing –
fingers and tongue
outstretched –
into a nothingness
inhabited by a vague animal light
from the walls and floor.
Out of the glassy rock,
like tentacles moving on each other
near their soft roots, human thighs
are growing; if you look closely
you can see the tender undermost
muscle actually forming
from the rock, and the living veins
continuing inward, just visible
under the skin, and (faintly lit from within)
clusters of soft arms gathering down
tiny open eyes, finger-tips, pursed
mouths from the gloom, minute
drifting coruscations of light, glistering
little gnat-crescents of hair!

What essences, disturbed from what
profounder nothingness…
flickering, delicate
and distinct, fondled
blindly and drawn down
into what sense or languor
… Would you agree, then, we won’t
find truths, or any certainties…
where monsters lift soft
self-conscious voices, and feed us
and feed in us, and coil
and uncoil in our substance,
so that in that they are there
we cannot know them, and that,
daylit, we are the monsters of our night,
and somewhere the monsters of our night
are…
here… in daylight that our nightnothing
feeds in and feeds, wandering
out of the cavern, a low cry
echoing – Camacamacamac…
that we need as we don’t need truth…
and ungulfs a Good Night, smiling.
***
BUONANOTTE

C’è una tale pace, alla fine:
il calore striscia nella casa,
le assi del pavimento si dilatano ad angolo.
Le voci nella stanza accanto
rimbombano sul loro stipo.
Come rivela ogni minima falsità!
C’è uno di loro che chioccia
della sua stessa arguzia.

Rilàssati, e queste cose
saranno…
e le voci di una norma
che è in corso di…
naufragando…
persistente eppure discreto:
ricorderei… Per favore…
Oblio, la nostra condizione naturale…

e i rumori della casa stanno tutti
defluendo l’uno nell’altro e diventando
un solo dolce rimbombo, che inghiotte lento
vertigine molto piacevole e confortante
giù per quest’improvvisamente vivo
esofago in salamoia
verso un pozzo sommerso
che afferra lo spettro stupito della
psiche nella sua dolce umidità.

Attaccato all’oscurità con tutti i sensi
– l’orecchio martella –
pupille che scrutano, senza vedere –
dita e lingua
protese –
in un nulla
abitato da una fioca luce animale che viene
dalle pareti e dal pavimento.
Fuori dalla vitrea roccia,
come tentacoli in moto l’uno sull’altro
vicino alle loro tenere radici, cosce umane
stanno crescendo; se guardi più da vicino
puoi vedere l’infimo e dolce
muscolo che si va formando
dalla roccia, e le vene pulsanti
a proseguire verso l’interno, appena visibili
sottopelle, e (debolmente rischiarati da dentro)
ciuffi di morbide braccia che si radunano sopra
minuscoli occhi aperti, polpastrelli, smorfie
di bocche dalla penombra, minime
corruscazioni di luce fluttuanti, scintillanti
mezzelune-moscerino di peli!

Quali essenze, turbate da quale
profondissimo nulla…
fluttuanti, delicate
e distinte, carezzate
alla cieca e abbassate
in che senso di languore
… Se sei d’accordo, allora, non potremo
trovare verità, né certezze…
dove mostri levano tenui
voci consapevoli, e ci nutrono
e si nutrono di noi, e si avvolgono
e svolgono nella nostra sostanza,
così che mentre ci sono
non possiamo saperle e sapere che,
alla luce del giorno, siamo i mostri della nostra
notte,
e da qualche parte i mostri della nostra notte
sono….
qui… nella luce del giorno di cui il nostro nulla
notturno
si nutre, e che nutre, errando
fuori dalla caverna, un grido smorzato
che riecheggia – Camacamacamac…
che abbiamo bisogno della verità come non ne
abbiamo…
e sputa un Buonanotte, sorridendo.


Thomas Kinsella è nato a Dublino nel 1928. Ha lavorato presso il Ministero della Finanza fino al 1965, quando si è trasferito negli Stati Uniti per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Con Liam Miller, ha fondato la Cuala Press e una sua piccola casa editrice, la Peppercanister, a Dublino. Attualmente si divide tra Dublino e Filadelfia, dove insegna inglese presso la Temple University. Nel 1956 pubblica Poems, la sua prima raccolta di poesie. Nel 1958 pubblica Another September, nel 1962 Downstream, nel 1968 Nightwalker and Other Poems.
Tra le sue magistrali traduzioni ricordiamo: The Táin, una traduzione della prosa epica in irlandese del XVIII secolo, Táin Bó Cuailnge; An Duanaire – Poems of the Dispossessed, un’antologia di poesia gaelica pubblicata da Séan Ó Tuama (1981). Tra le sue raccolte di poesia ricordiamo Butcher’s Dozen e Finisterre (1972), Vertical Man (1973), One (1974), Fifteen Dead (1979), One Fond Embrace (1981), Her Vertical Smile (1985), Blood & Family (1988), From Centre City (1990), Madonna and Open Court (1993) e The Dual Tradition: An Essay on Poetry and Politics in Ireland (1995). Ha curato l’antologia New Oxford Book of Irish Verse (1986).

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