Alberto Bertoni, “I ricordi di Alzheimer”

Nello scaffale: Ricordi di Alzheimer (seconda edizione) di Alberto Bertoni
a cura di Luigia Sorrentino


Il nitore della parola 
di Guido Monti

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I ricordi di Alzheimer, seconda edizione, di Alberto Bertoni paiono nello stile e contenuto come prosciugati, scarnificati, rispetto a quelli della pur rilevante prima edizione del 2008 sempre per book editore.

“E’ pasqua./Viviamo una Passione di lamiere,/cantieri e terre ferme/piangendo mio padre quando preme/nel sottoscala il seno di Anna,/la ragazza che ogni giorno lo accompagna/a cercare la sua casa/….”.

È come essere, leggendo questa cronistoria dell’abisso relazionale, a ridosso di quegli argini desolati di certe foci marine e percepire l’annichilimento di un luogo che ad un occhio attento, da naturale si fa esistenziale; c’è quindi ma non dice del perché della sua presenza.

Ecco, i passeggi di Alberto Bertoni col padre Gilberto, sono paesaggi esistenziali vestiti di una quotidianità che non ha appunto alcun esito futuro e progettuale, solamente esiste: “Mio padre ci vive coi suoi morti/chiede all’alba che fine ha fatto/ e perché non s’è svegliato/nella casa dove è nato/in via Castelvetro…” ma forse, non è della poesia più vera rivelare presenze non rappresentazioni?

E ad una ontologia della caducità sempre presente nel libro, si affianca uno sguardo lieve e commosso per l’emilia profonda oramai sepolta: ..//”Nostra America, babbo/nella fuga delle strade coi canali/per mai più stando in braccio riascoltarli/il frusciare di carta delle ossa/l’aroma delle tue Nazionali” affiora, nelle quattro sezioni del libro, il viaggio antropologico-culturale dentro una terra: “Oh, e poi siamo nati/e abitiamo papà/in una città che chiama/pittori gli imbianchini, artisti/gli attori….” ; ma gli abissi della perdita identitaria, come buchi si aprono ad ogni pagina e il poeta cronista li viene appuntando avvertendoci però che la disgregazione lenta, inesorabile, è anche di chi testimonia l’altrui tragedia: …// “Dopo, tornando a casa,/ quell’unica casa nella quale/da quando sono nato coabitiamo,/dopo ogni tanto mi scambia/con un cugino morto giovane/….”.

La scrittura dunque oscilla continuamente tra l’apertura folgorante di paesaggi e il loro rattrappirsi in una simbologia dolente della marginalità, quasi vicina a certo espressionismo tedesco del secolo scorso: “La notte mi ha fatto/ diventare matto/abat-jour schermata/ e tra le cosce un bagno/le pappe dolci d’olio/mentre il pioppo spiumava a giorno fatto/…” che torna prepotente quando i due,
come scordando se stessi, passeggiano tra i migranti del nuovo millennio: …//”Tutti fuori i pochissimi cristiani/e la città è degli altri/raggruppati nei parchi/-ucraini, islamici, africani/..”.
E proprio nella sezione primavera, s’affaccia forse il momento più inclemente per il poeta-passatore, il ciclo della vita che si schiude, coincide con l’atroce ricordo della fine dell’uomo padre: …// “Oggi non c’è il babbo?/chiede il cameriere grasso/e non sa cos’avrei pagato/per trascinarti a pranzo//Ma cazzo,cazzo,cazzo/cosa ci porto, un morto/nella domenica di marzo/fredda di foglie e di marmo?/..”.

In questa partitura disfatta, sembra accendersi per contrappasso nel corpo del poeta, l’arcano di una stramba genitura d’impronta kafkiana: ” Oggi ho partorito una larva/dal polso, mentre guidavo/prima un’ala poi l’altra/chissà dove incubata, chissà quando/…” è il ghigno della vita, per chi sa intuirne l’estremo inganno, che ci usa come strumenti di un progetto solo all’apparenza intellegibile.

Eppure nello sfinimento dei giorni, corre sempre tra Bertoni e il suo uomo-faber, un dialogo sotterraneo traversato da un alfabeto nuovo, quello appunto della semplice presenza: “Vedo i coetanei di mio padre/orientarsi, scrivere, viaggiare/e lui quasi niente/purissimo bianco memoriale/buco vivo che ripete sei sette volte la stessa frase/…// Penso che è lui il poeta/io l’archivista muto….”.

Alfabeto a volte dell’assurdo Brechtiano che percorre, nei gesti e balbuzie oramai reciproca, traiettorie tra loro lontane: ” Per la prima volta oggi mio padre/ inscena una paralisi non va/ a prendere il giornale/dice che cerca sassi// ‘Per tirarli?’ ‘No, voglio quelli/ da collezione, i belli’. ‘E quali sarebbero/i sassi più belli?’ ‘Ma quelli più neri, con più ferro,/e soprattutto piatti!’/….”anche se forse a guardar bene, svolazzano dentro uno stesso cielo, quello della finitezza dell’uomo che nessun mito storico e a venire potrà scalzare.

Ciò non cancella però il nitore e struggimento di certe tessiture verbali, che restituiscono la commozione dell’uomo per le cose della vita: “…ma oggi è domenica e vado/a passeggio con mio padre/ io e lui soli dopo anni/ a fare due chiacchiere coi cani,/ gli uccellini, gli infanti// Gli occhi gli sono/ cambiati, gli occhi/sciolti d’amore, acquosi”.

Ma ad incombere su tutto è sempre il luogo oscuro dell’immobilità-fissità, della coazione a ripetere i movimenti della disperazione, con la paresi identitaria di Gilberto, che assume spesso lo sguardo, la voce senza suono del poeta: “…//Lo so perché lo provo/ogni pomeriggio a tramonto/appena cominciato/nello sguardo bluastro di mio padre/sospeso tra la fame/e la voglia di salvarlo/con unghie disperate/quel lampo/ di sottomondo in fuga dal suo pozzo,/nome abraso e volto/ cancellato”.

Un senso vasto di dissoluzione, si posa sempre più sulle cose, anche sulle presenze naturali: “…//Come è stato campione/il piccione riverso/sul marciapiede sotto/così atletico, elegante, muscoloso/di fianco al cassonetto” per poi tornare dentro l’io poetico che sembra chiedere l’annientamento di se medesimo “…// Io, dalla finestra chiusa/ho l’unica colpa di essere vivo/mentre guardo il colombino amico/nello specchio di un altro/ giorno finito”.

Quale il luogo psichico di Alberto Bertoni? Quello intendo dove la sua intimità più fonda vaga dopo il ventaglio di dolori sovrapposti ed acuminati d’inizio millennio; è forse lo spazio non toccato più da alcuna umana speranza ma così vivo di ogni attimo, eccolo, si mostra: ” Non ho ascensore, così/resto qui, sul pianerottolo,/ dove ogni giorno catturano mio padre/le ère geologiche, il tempo delle statue//Minerale mi resta l’olfatto/ma io non ci metto più piede, nel reale/perché bevono sangue le ombre/prima di parlare”.

Certo lo shock esperienziale, ci dice il poeta, corrode anche l’idea di concetto, che con le sue categorie astratte ci forma e guida da millenni allontanandoci però dalla esperienza della presenza che solo la parola poetica può dare: “La mia casa cade a pezzi/…../e i libri hanno fatto uno tsunami/non registrato da sismografi..//Eppure ogni giorno ci nuoto/riemergo con immane sforzo/…da queste/parole senza peso”.

Il libro si chiude nella sequenza degli attimi finali di Gilberto: “…//Sulla sua mano esploso/questo blocco unico di ghiaccio/rantolo e niente più respiro/solo un attimo dopo/…”. Ecco l’imbuto nel quale cola ogni strada, tutto precipita nel suo imbocco: gli spasmi interiori, i microdrammi, i tremori, le speranze riposte in un figlio; minime ambizioni di ogni genitura: “…// Ingegnere mi avresti sognato, alla Ferrari/e io tutto diverso/inadatto a ogni senso concreto/incapace di renderti nonno/..”. Tutto si fa terreo in questo ultimo luogo, scolora nella rigidità di un viso che non dice più, neanche la smemoratezza: “…//Una perdita fulminea di calore/e di fiato fino al freddo/totale nelle ossa/la maschera di gesso/..” e dove ancora la reale necessità delle alte parole e del concetto viene messa in dubbio: “…//(Buttarle nel fango/o in qualcos’altro che taccio/lirica e grammatica/da liceo classico)”.

Alberto Bertoni si dirige e ci dirige, con questi suoi ultimi versi dei Ricordi di Alzheimer, non nel luogo del fine-vita linguistico ed esistenziale ma in quello estremamente vivo della presenza e compiutezza poetica.

 Guido Monti

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da Ricordi di Alzheimer di Alberto Bertoni Book Editore (euro 12)

Vedo i coetanei di mio padre
orientarsi, scrivere, viaggiare
e lui quasi niente
purissimo bianco memoriale
buco vivo che ripete in poco tempo
sei-sette volte la stessa frase
e dopo che mi adora
come l’amore più grande non si sogna

Penso che è lui il poeta
io l’archivista muto
della sua foto con ferrari
in officina, la tua macchiata
di sudore e di unto

 

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Stasera tira un vento cattivo
che scopre lingua e vestito
non vuole che faccia neanche
due chiacchiere, un giro

Io, dalla finestra chiusa
ho l’unico colpa di esser vivo
mentre guardo il colombino amico
nello specchio di un altro
giorno finito

Alberto Bertoni (Modena 1955) insegna Letteratura italiana e contemporanea e Prosa e generi narrativi del novecento nell’Università di Bologna. Ha pubblicato diversi saggi di argomento novecentesco ed è autore delle antologie Poesia della Traduzione (Sometti, 2003,in collaborazione con Alberto Cappi), e Trent’anni di novecento. Libri italiani di poesia e dintorni 1971-2000 (Book Editore 2005). In poesia ha esordito nel 1996 con il volume Lettere stagionali( con una nota di Giovanni Giudici, Book Editore) a inaugurare una sequenza di libri conclusa con la seconda edizione di Ricordi di Alzheimer e con Il letto vuoto(Aragno, 2012). Dirige per Book Editore le collane di poesia contemporanea “Fuoricasa” e “Quaderni di fuori casa”, è consulente scientifico del “Poesia festival” di Castelnuovo Rangone e di “Poiesis-Fabriano”, e collaboratore dell’Almanacco dello Specchioo Mondadori. Alcune sue poesia sono state tradotte in russi, inglese, francees, spagnolo e ceco.

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