Chiara Gamberale, “Il mio ricordo di Rocco Carbone”

Scrittori 

Chiara Gamberale, “Il mio ricordo di Rocco Carbone”

a cura di
Luigia Sorrentino

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A cancellare il numero di telefono di Rocco dalla rubrica del mio cellulare non ce l’ho fatta. Se ne sta ancora lì, dov’è sempre stato, fra il numero di Roberto, un mio amore estivo di tanti anni fa, e di un altro Rocco, padrone di un ristorante italiano di New York.


Non so che cosa mi aspetti, da quel numero. Per mesi ho aspettato che lampeggiasse sul display del mio cellulare, come faceva un giorno sì e uno no verso le sei, o che accompagnasse la bustina di un messaggio, come faceva circa dieci volte al giorno, nel ping pong di comunicazione implacabile a cui Rocco e io ci siamo messi a giocare subito, dalla sera stessa in cui Emanuele (Trevi n.d.r), a una cena, ci ha presentati. – Lei è Chiara, la mia ragazza, lui è Rocco, Rocco Carbone.
Avevamo tutti e due sentito parlare a lungo dell’altro.
– Chiara, finalmente.
– Finalmente: Rocco. Che cosa avevamo da dirci, con tanta urgenza, da usare il telefonino in maniera così spregiudicata? Niente. O meglio: niente che non si potesse rimandare alle lunghe lunghe, lunghe serate che almeno una volta alla settimana passavamo insieme, di solito mezzi addormentati sui divani di casa nostra, quando arrivava l’estate da lui, a Monteverde, sotto il piccolo pergolato di foglie di vite del suo terrazzino.
E’ che a tutti e due veniva piuttosto difficile, vivere senza che il contatto con qualcun altro ci autorizzasse a farlo.
– Siamo della stessa Parrocchia, noi.- Gli piaceva tanto sospirare, a sigillo di certe nostre chiacchierate. La Parrocchia a cui alludeva (la maiuscola era sua, negli sms) era quella della sindrome bipolare. Dentro quella Parrocchia, fra i mille e mille simboli religiosi che si chiamano sintomi c’è anche un’ansia sfrenata di comunicare e di verificare che siano sempre tutte lì, le persone che ci vogliono bene, che rimangano ferme ai loro posti, e non si scordino di noi.
Così, se gli altri giustamente dopo un po’ possono considerare sfibrante questo bisogno continuo di conferme, Rocco e io ci permettevamo a vicenda di dare libero sfogo alle nostre compulsioni: mi chiedi ogni dieci giorni se ti voglio bene? Allora vuol dire che mi vuoi bene anche tu, che non hai nessuna intenzione di abbandonarmi! E il CERTO CHE TI VOGLIO BENE volava rapido, in risposta, da un cellulare all’altro.
Oppure poteva capitare che la nevrosi dell’uno irritasse a tal punto l’altro, da regalarci la possibilità di chiederci, ognuno per sè: oddio, ma allora anch’io posso risultare per qualcuno così inopportuno e rompicoglioni?

Come in ogni piccolo o grande contenitore per i disturbi emotivi che si rispetti, infatti, anche nel nostro si litigava: e molto.
Perché eravamo sì della stessa Parrocchia, ma avevamo stratagemmi diversi per difenderci o assecondare la nostra natura.
Io troppo spesso mi perdevo dietro di lei, come ancora mi perdo, incantata dai lampi colorati dell’inquietudine e terrorizzata dalle sabbie mobili del quotidiano.
Lui tentava continuamente di arginare quella natura in monolitiche formule etiche o sociali, che per fortuna era il primo, nei fatti, a non rispettare.
Lo scontro, va da sé, era inevitabile: gli spunti che più cretini non si può.
Quello su cui per esempio ci scontravamo più spesso, a costo di trascorrere l’intera serata a discutere fino a lasciarci senza che nessuno dei due cambiasse di una virgola opinione, era se bisognasse stare dalla parte di Cesare o di Bruto. Bruto è la democrazia, sosteneva lui: la libertà. E’ un vile traditore, un ingrato, sostenevo io: voleva essere Cesare e per questo l’ha ammazzato. Anche qui: lui analizzava la cosa su un piano storico e politico, io scivolavo subito su un piano emotivo e psicologico. Ovvio che non saremmo mai potuti arrivare a un punto d’incontro: anche perché era impossibile arrivarci in generale, con Rocco. Di qualunque argomento si parlasse, i presupposti di quello che sosteneva lui erano inaccessibili, misteriosi e fermi proprio come quegli anfratti dell’Aspromonte dove era nato e cresciuto. – Sarà che sono calabrese…- Prendeva spesso la rincorsa per le sue affermazioni. Poi arrivava un “ma”, e via. Sarà che sono calabrese ma quella cosa proprio non mi va giù. Sarà che sono calabrese ma io mi sarei comportato in maniera diversa. Ma ci sono rimasto male. Ma non si fa così. E poi. Sto esagerando? Domandava.

E’ grottesco il coro narcisista che si alza quando qualcuno non c’è più, fatto di voci autonome, ognuna interessata a raccontare chi era per lui la persona che se ne è andata, quali esperienze ci aveva condiviso insieme. E’ grottesco: e in parte naturale. Ma nel caso di Rocco diventa perfino legittimo.
Perché era tantissima, l’umanità che il suo bisogno d’amore intercettava e che la sua smania di contatto faceva sentire importante.
Spaziava dalle detenute a cui negli ultimi anni insegnava nel carcere di Rebibbia a grandi scrittori internazionali.
Nonostante tutte le insidiose insicurezze di cui la Parrocchia carica i suoi seguaci, in realtà era molta di più la gente che lui affascinava di quella da cui fino in fondo si lasciava affascinare: ma naturalmente, troppo preso a guardare in faccia proprio quelle insidiose insicurezze, nemmeno se ne accorgeva.
Eppure bastava osservarlo, e risultava evidente.
Perché in qualunque contesto si ritrovava (con quella forza misteriosa di chi sembra a rischio, tanto è confinato nei suoi pensieri, ma che proprio per questo potrà sempre far affidamento su qualcosa che gli appartiene) faceva in modo di essere roccocarbone. Con un racconto inaspettato (“una volta Bud Spencer mi ha detto…” “quando ho conosciuto Echenoz…” “una mia alunna che ha ammazzato il marito mi ha scritto che….”), con la straordinaria capacità di partecipare a qualsiasi discussione senza rinunciare mai a esprimere quale fosse la sua opinione al proposito, con una battuta felice, con una fuori posto, con una confidenza personale che gli altri lì per lì s’imbarazzavano ad accogliere, ma che poi diventava la possibilità di far cambiare di segno la serata, che con lui, inevitabilmente, da mondana non poteva che farsi intima. Ecco perché in un universo letterario chiuso e asfittico come quello italiano, Rocco dava retta a tutti ma, per come era fatto, alla fine si circondava solo di persone come lui. Della nostra Parrocchia o meno (i bipolari hanno tanti difetti ma sono piuttosto democratici) erano persone con una certa inclinazione per il disastro, quelle che piacevano a lui. Strutturalmente incapaci di stare al mondo: e consapevoli di questo al punto di prenderla a ridere. Affaticate dagli altri e per gli altri piuttosto faticose. Donne svaporate, uomini soli. Persone che sentivano di avere qualcosa che non andava. E a cui invece Rocco, più o meno implicitamente, e con l’esempio lampante della sua stessa esistenza, sembrava dire: è proprio quella cosa che di te pensi non vada, quella che più funziona.

Rocco mi manca tutti i giorni: tutti.
Mi manca quando sono sola: troppo.
E mi manca quando sono con altre persone: tanto.

“Scopro da Internet che la prossima settimana devi andare a presentare il tuo libro a Reggio Calabria: certo che potevi anche essere tu a dirmelo.” E’ stato l’ultimo messaggio che ho ricevuto da quel numero che non riuscirò mai a cancellare.
Era il diciassette luglio del 2008, nel tardo pomeriggio.
Che palle, Rocco: ho pensato. E vabbe’, non ti ho detto che sarei andata dalle tue parti: è un reato?
Adesso nemmeno ti rispondo, così impari. Tanto domani mi chiamerai e, come fai sempre tu, non ti ricorderai nemmeno perché ce l’avevi con me.

di Chiara Gamberale

Rocco Carbone nato a Reggio Calabria nel 1962, è morto a Roma in un incidente stradale nell’estate del 2008.
Dal 1998 ha lavorato come insegnante nel carcere di Rebibbia. Critico, saggista, collaboratore delle riviste “Nuovi argomenti”, “Linea d’ombra”, “L’Indice”, “Paragone”, e dei quotidiani “l’Unità”, “Il Messaggero” e “La Repubblica”, Rocco Carbone ha pubblicato i romanzi “Agosto” (Theoria, 1993), “Il comando” (Feltrinelli 1996), “L’assedio”  (Feltrinelli 1998), “L’apparizione” (Mondadori 2002), “Libera i miei nemici” (Mondadori 2005). Nel maggio 2009 e sempre per la Mondadori, è apparso postumo “Per il tuo bene” e, nel novembre 2011,“Il padre americano”  (Cavallo di ferro, euro 18,00 – con un ricordo di Romana Petri).
Elogiato dalla critica per il suo stile asciutto e le tematiche affrontate, Rocco Carbone è stato considerato una delle voci più importanti della sua generazione. Le sue opere sono tradotte in Francia.


Chiara Gamberale è nata nel 1977 a Roma, dove vive. Ha scritto “Una vita sottile” (Marsilio 1999), “Color Lucciola” (Marsilio 2001), “Arrivano i pagliacci” (Bompiani 2003), “La zona cieca” (Bompiani 2008, premio selezione Campiello)  “Una passione sinistra” (Bompiani 2009), “Le luci nelle case degli altri” (Mondadori 2010).
È ideatrice e conduttrice di programmi radiofonici e televisivi come “Gap” (Raiuno), “Quarto piano scala a destra” (Raitre) e “Trovati un bravo ragazzo” (Radio24). Dal 2010 è in onda su Radio2 con “Io Chiara e l’Oscuro”. Collabora con “La Stampa”, “Il Riformista” e “Vanity Fair”.

4 pensieri su “Chiara Gamberale, “Il mio ricordo di Rocco Carbone”

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