Opere Inedite, Guido Monti

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

“La parola poetica non è la parola della lingua, ma è la parola dell’essenza. È l’essenza della parola.
È rivelazione, fa apparire la cosa nella sua essenza non è la rappresentazione del reale.
Il poeta quindi si contrappone alla convenzionalità sociale, all’arbitrarietà logico-linguistica del segno. Mallarmè diceva ‘la poesia corregge i difetti della lingua’.  Difatti la lingua che noi parliamo e scriviamo, ha dei difetti che possono essere quelli semplici della incomprensibilità o più esattamente della ambiguità o falsificazione.

Nel linguaggio poetico la cosa non è semplicemente presente, è differita, differente. Ciò che la lingua non sa esprimere nel senso di una definizione logica, non rappresentazione materiale o mentale o empirica, lo fa la poesia. Il suo proprio è l’alterità di senso. Deve esserci sempre uno scarto dalla norma. Perché la poesia non è da capire con i criteri della lingua, la lingua dei linguisti, che devono fare una scienza della lingua e una storia della lingua. La poesia non fa la lingua. La lingua è fatta dalla convenzione sociale, dalla comunità dei parlanti, dalle definizioni logiche.

Naturalmente nella poesia si parla anche del mondo, ma non nel modo in cui parlano del mondo le scienze, i saperi, le pratiche. Si parla del mondo in quanto sei consapevole che il mondo è la parola che viene prima del mondo. Il mondo è fondato sulla parola e non viceversa.

La poesia quindi non è un sapere o una scienza costituita, una istituzione, una retorica ma si tratta di mondo. Il mondo nasce come parola e il poeta è l’ascolto della nascita del mondo.
Il poeta ascolta la voce del mondo in quanto sa, o percepisce che il mondo è linguaggio, il mondo è detto, nasce dalla parola.

Questa consapevolezza teorica, che fonda il mio rapporto con la poesia, procede con un’altra consapevolezza non meno importante, quella della lettura. Leggere poesia moderna e contemporanea, oltre che quella di ogni tempo, capire gli stili, i contenuti, la loro evoluzione. Per provare la scrittura poetica, occorre essere innanzitutto un attento lettore di poesia altrui ed anche aggiungerei, mi si permetta, di critica letteraria.

Mi domando, cosa sarebbe la mia poesia se non fossero entrati in me così prepotentemente gli immaginari visivi e stilistici di Giovanni Giudici, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Giovanni Raboni, Sandro Penna, Maurizio Cucchi, Gianni D’Elia, Valerio Magrelli e ancora successivamente di Milo De Angelis, Antonio Riccardi, Stefano Simoncelli ed anche ultimamente, tralasciando altri pur validi per motivi di spazio, di Gian Mario Villalta, Elio Pecora, Franco Buffoni.

L’attitudine al poetico può essere in noi ma occorre svilupparla, farla crescere appunto con le continue letture ma tutto questo può non bastare, occorrono anche le alchimie della vita, che devono accadere; per esempio i fallimenti personali che educano il vero poeta a resistere affinandolo e rafforzandolo nel suo carattere, gli abissi esperienziali, i buchi neri, senza i quali mancherebbe alla scrittura il fuoco della perdita e della lacerazione. Mi domando: val la pena essere poeti? perché questi sono i tanti prezzi da pagare. In verità la domanda forse è ambigua, perché nessuno può decidere di divenire poeta e quelli che credono di esserlo, in verità non lo sono. La vita, come serie di eventi non controllabili, decide in gran parte. A trent’anni iniziavo a scrivere, ancor prima ero solo un lettore onnivoro e mai avrei pensato di misurarmi un giorno seriamente e umilmente con la scrittura poetica.”

(di Guido Monti)

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La terra
 

Spazi col tutto di poggi e pendii e fossi, rincorrendoci i corpi fatti punti
dello sfogliarsi del suolo ai cieli e gli occhi presi nel correre del cielo
e poi a toccare le uve il fiore della comprensione privo di parola

lontano spari di patroni e rumori di aratri mischiati alle terre
ci prende la notte, socchiudersi di voci dentro l’udire minimo di animali
ascoltare le poche parole da dire abbracciati dentro il cerchio di ulivi millenari
paese gente dietro la collina col campanile in alto spalla a spalla scorgevamo dicendoci

e ora è pianura piatta, fitta nebbia, dietro il rigo sospeso esile del cavaliere d’Italia
che tu m’indichi mano mano camminando ancora tu mi dici in riso traversando
la bruciata luogo d’incontri emaciati e scorticati

tu cuore d’emilia

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 Osteria del sole

 

Andando per strada maggiore vedo la tua boccuccia violetta
alzarsi sull’arenaria scrostata della fontana vecchia dei palazzi
e sui rossi rubini del cotto in rilievo, in fregio, di Bologna la rossa

che tutta segreta ricordi le notti? ci pulsava di oscura carne
congiunta poi col portico secolare strisciato di sbornia
leccornia finale dell’uomo d’osteria come questa, chiamata del Sole

lungo spazio d’osti, occhi grossi ruminati di vita e arrivati dall’alto medioevo sin qui
tra noi che con parola cambiata ma eguagliata la bevuta in cecchino
scartiamo la carta tra la mano loro che il bicchierino porta

e riporta la sapienza di poca parola e riso d’accoglienza in accozzaglia di lingua
e fiato lordo d’uomo pasto a goduria

in notturna udiamo e riudiamo questa mistura di fòco amore di secoli secoli
con gli osti Bartolo il medievale, Pompeo il rinascimentale e su su sino al moderno tempo
di rivoluzioni fatte di fuori il mondo che straborda sin nell’ultimo dopoguerra con Debora
e Luciano Spalaore ancora col braccio nudo e unto sul panno e quel rosso liquido
vampare le bocche sul bancone intarsiato a fondo transitato

notturni noi traversando del novecento ultimo di Bologna questo suo concorde concènto
di finissima civiltà d’uomo su uomo arrangiata come sonata sul riso

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nostro secolo novecento

 
Tutto cambiato tornando alle colline dei grani dei venti
arretrato il cielo di gioco dietro l’ombra di oggi stesa anche alla luce e sul nostro guardarci
di superstiti del basso impero in soldo e cemento della storia

noi che dietro le viti andiamo a prendere la muta carezza degli ulivi avvitati verso l’alto la fermezza

l’imbuto del cielo ci viene tra notte e l’arco sonoro di sotto
mi cammina una voce vicina e ride di quel sorridersi a scoprirsi un punto
quasi espunto da questo frusciare rimasto di raro animale

lei poi sbuca dalla collina ferita dallo scasso, incisa però in cima da una sambuca
capelli in ricci rialzati su mani sottili rami bianchi volati in balli e ballate
mi toccano l’allegria, l’elegia perduta di questa sprovveduta era nostra

l’alba è già, ci torna il sorriso, la fermezza, il rivociarsi di noi Francesca
punti incamminati ora nitidi oltre la collina in scasso sfasata
noi del secolo novecento del suo alfabeto contrastato ma sempre alto e animato
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i fuochi di Giovanni

 

Luci come punti espansi su linee d’aria fresca a soffiare sulla terra fredda

di sotto la zolla bianca di brina brucava sul focolare delle stoppie
e dentro scoppiettare d’ardesia e ardere in cenere di tutto di tutto

il contadino su quel bruciato rintuzzava braci, stipava legni e al venire della luce
recuperò i contorni mani di cenere, collo grosso da traino, occhi fini celestini

la bocca arsa diceva calma del passaggio di tutti i tempi allo sparir di tutte le albe
al rintuzzar di tutti i fuochi e dentro quel tuo parlare Giovà vivevo
vidi poi il punto luce salire e l’alba impiccarsi e tutt’attorno mutare

quali parole? ora all’angolo di ogni città, mi chiedo con la bocca vuota e assediata
sul nostrano vialone da poco incatramato ma già quasi rottamato

quali parole Giovanni, Giovanni del mio primo mattino

 
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Su,su, con la dolente umanità

 
di lui dentro Bologna è quel sorriso stampato nel rincorrersi del portico

del corpo intaccato, l’avanzare di scatto stretto su me su verso la stradina appesa alla collina
ingoiata dalla mossa festiva di San Luca, della voce quel variare di tono come nei saliscendi
delle sue terre

andavamo ancora

e nel cammino per via chiamata senza nome gli s’apriva una pace e io che di lui
nel verso periferico delle scrostate mura al voltone di porta Castiglione
prendevo ancora come bambino nel giardino dorato l’àncora di silenzio semplice

seppur la fine di ogni nostra strada avanzava e nel sentirla noi tesi a reinventarla
ora proprio ora mano mano camminando nella via chiamata de’Carracci i pittori
sventrata dall’alta velocità per la dolente umanità

 

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l’infanzia di ser Brunetto (Latini forse?)

 

A notte seduto sul muretto bucato a glicini e violetto Brunetto a bocca aperta
era stretto alla vecchia in nero che col gran seno tutto lo teneva

l’acre resistere dei fiori nel crepuscolo fondeva il soffio del barbagianni all’odor di terra

parlò lei e l’occhietto bianco le scattò a salti di volpi come a cominciare la profonda storia
e tutto vicino a quella testa d’ebano a quel naso adunco, rattrappì col brivido dell’inferno

alzò l’insecchito dito, mirò a luna chiara i cipressi, quel loro muoversi sull’orlo del cimitero
e parlò con un crudo dialetto agli urli ammucchiati dentro quel fitto

mosse la testa bassa a bruco su di lui col labbro di fuoco e fiato pesto
ferma con la croce del Dio a serpe tra le dita torte mugolò d’essere richiamata dal quel tramestare
d’essere strega e sputare dai rami alti ai crocicchi, all’innocenza perduta dei passanti

le guardo il giro di pupilla rigirarsi a perdizione e svenimento tra terra e cielo
e il respiro soffia sul circolino dei glicini alitandomi dietro a risate sghembe e unghia appuntite

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Correvamo, si, correvamo

 
Siringhe sulle braccia non ne avevi tanto l’ago t’ha trapassato, è la resa delle vene fiordi verdi
in trasparenza che attesa il cenno della bocca, s’apre? ride? non lo fa preclusa come è o inclusa
in una smorfia

ticchetta come il pendolo il tuo labbro..

mi vedo amore, riperduto all’indietro nell’angolo del sorriso di ricerca tua di me io di te nel mondo
come nel fondo dei nostri giochi ricordi a correre e ricorrere per le strade, ora che ti cerco chino entro il tuo corpo immobile

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Guido Monti è nato a San Benedetto del Tronto nel 1971. Si è laureato a Bologna e ha collaborato con il Centro di poesia contemporanea dell’Università. È nella redazione della rivista “In forma di parole” diretta da Gianni Scalia. Scrive per il blog poesia del Corriere della sera di Ottavio Rossani.
Ha pubblicato nel 2007 per Book Editore, nella collana ‘Quaderni di fuoricasa’ diretta da Alberto Bertoni, ‘Millenario inverno’ la sua opera prima, finalista ad Orta S.Giulio (Novara).
È nell’antologia spagnola ‘Jardines secretos Joven Poesia italiana’ (trad.di E. Coco, Sial Editiones, Madrid 2008). Suoi inediti raggruppati sotto il titolo Eri Bartali nel gioco, sono usciti in plaquette fuori commercio, per le edizioni d’arte Grafiche Fioroni (2008) a cura di Eugenio De Signoribus .
È presente nell’Almanacco dello Specchio, a cura di M.Cucchi e A.Riccardi (Mondadori, 2009).
È coautore del libro Accademico di nessuna accademia, conversazioni con Gianni Scalia edito da Marietti (2010)

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