Opere Inedite, Paola Loreto

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

Oggi leggiamo la poesia di Paola Loreto, che definisce la poesia “un uso particolare del linguaggio, fatto non per fini comunicativi, ma espressivi.”  Il poeta, scrive Paola, “manipola il linguaggio perché vuole trasmettere quasi attraverso i sensi le proprie percezioni.”  Paola scrive che “il poeta nomina come se la sua fosse la prima percezione del mondo da parte dell’uomo. Per riuscire a farlo con freschezza non può servirsi del linguaggio codificato da secoli di utilizzo di un rapporto convenzionale tra segno e significato: deve porre di nuovo questa equivalenza dall’origine. Per questo Emily Dickinson parla di una ‘Circonferenza’, nelle sue poesie, senza che noi, ancora oggi, riusciamo a indicare precisamente cosa intendesse dire: a quale oggetto del mondo si riferisse. Voleva, semplicemente, suggerirci la percezione di una dimensione, una realtà, interiore, intangibile, che è il limitare della coscienza in espansione.
Perché è così importante esprimere una percezione? Perché quando esprimiamo qualcosa lo rendiamo reale, attuale, lo poniamo nel mondo, per noi e – nel migliore dei casi, per gli altri. Descrivere la nostra percezione del mondo, quindi, vuol dire collocarci nel mondo. Se sono abituata, o addestrata, a percepire l’Altro (che sia una pietra, una persona, o un sentimento), sarò sempre conscia dei confini del mio Io e di quando li sto travalicando: di quando ascolto o di quando travolgo l’Altro, del mio dentro-di-me e del mio fuori-di-me.
In questo senso la percezione trascorre immediatamente nella metafora: se vivo il mio salire in montagna, per esempio (come faccio nelle mie poesie) come un libro aperto sulla mia personalità più intima, il mio carattere e i miei comportamenti, l’analogia con la reazione delle mie risorse nel contesto più ampio, e rischioso, della vita sarà ovvia. Imparare a percepire, leggere, la realtà (dentro e fuori di noi) aiuta a comprendere profondamente ogni scena o situazione nuova: aiuta a imparare a stare al mondo in un modo significante, pieno, che conservi un senso anche riconsiderato dalla prospettiva finale di una vita compiuta. Perché la poesia è essenzialmente una forma di attenzione. Cioè di sospensione dell’impiego utilitaristico del nostro tempo, di accoglienza. Di vita vissuta davvero.”

Di Paola Loreto

Conoscenza della neve

Quello che fa la neve
nessuno è capace.
Colate senza forma
che hanno forme.
Slittamenti levigati
a picco. Impalpabili
sfarinamenti. Arresti
repentini nel vuoto
senza indizio e senza causa.
Frenate subitanee
su un balcone in pietra.
Quell’andare diritta
alla sua meta
insondabile.
Ombre melliflue
in bordi sbordati.
Incavi accoglienti,
adagiamenti,
fessurature.
Improvvisi cristalli.
Invetriature.
Annientamenti.
Polvere.

Crea un pino
nano
un protubero
duro grigio scuro
screziato di nero.
Non c’era. È vero.

Cancella quello
che c’era. Tutto
non è mai stato
ora. Solo
un livello.
Una polvere.
Bianca.

Il passo incede
nel pulviscolo di luce.
Non sa la materia
che incontra e lo accetta.
Docile cede un poco
e gli arresta la corsa.
Il piede trova
la sua forma.
Ripete. Prega.
Lo tiene la neve.
*
Leggera

Quel canale totalmente verticale
è bello bianco liscio mi toglie
il fiato. Così stretto, angusto
scivoloso. Così in ombra.
Appartato. Celato. Riposto.
Mi vedo volare sulla lingua
di ghiaccio a imbuto a perdifiato.
Le braccia aperte ad aquilone.
Impossibile fermarmi
mi lascio all’aria
che mi porta poco.
Mi cede.
Mi vedo pensare le ultime cose
della vita: le cose fatte, le cose
contente. Prego di evitare
il dolore, alla mia fine,
che è una fine arrivata,
come la cima di una vetta
elegante e discreta
segretamente piena
di grazia, esile e attorta
ma così complessa
da scalare, da aderirvi
con il corpo e con la mente
da non abbandonare
nello sfinimento
da crederci che l’hai voluta
ti ha trovato dove tanto
ti bisognava.
*
C’è ancora, la terra.
Dopo tutto questo bianco.
Dopo il gelo, gli abiti
allacciati al corpo.
Questo chiuso:
l’impossibile
essere. Riaffiora,
la terra, con il suo
sporco, le sue zolle.
Coprire lo spazio
con le mani (anche).
L’acqua
le altezze
il suolo sotto
i piedi. Duro.
Si nasce
perché muore.
*

Orme di ferro

Seguo questi segni
questi indizi
per capire dove
passare. Qualcuno
ha già trovato la via
l’ha tracciata.
È arrivato in cima.
Uso la sua mente
e il suo istinto
(la sua paura)
che hanno scelto
il percorso migliore.
Geroglifici da decifrare.
Graffiti graffiati
da un artista naif.
Muco di lumaca
essiccato al sole
esposto alla luce
argenteo. Fossile
vivo, che affiora e
risveglia al disgelo.
L’incisione è febbrile
precisa e sapiente.
Disegna reti di
pescatori tirate
in secca. Appare
l’opera del bulino
che ha chiaro
oscurato la lastra.
Il tratto nervoso
di un fulmine repentino
firma la cresta
con la sigla evidente
di una cicatrice.
*
Lembo di lago

Vedi come incontra l’acqua la roccia,
che le si getta dentro, come se ci
fosse sempre stata. Come se fosse
sua, e lei viva. E non si chiede cosa
viene domani, se tira il vento e
increspa la superficie e sciaborda
scaglie a riva. O se tutto resterà
perfettamente fermo, liquido,
e il silenzio assoluto.
*
Era così: un’aria
che torna e porta
tutto. Odore di
tenero di terra
muffa
l’appena nato.
Occhi da chiudere
per continuare a vedere
l’abbaglio
la polvere di luce
l’anima radente il suolo.
Sempre più tardi.
Sempre ancora un po’.
Mai basta, adesso. Più.
L’aperto. La paura.
Forme d’amore nelle dita
liberate, bianche. Sbucciamenti.
Riduzioni per accrescimento.
Guardare. Osare. Cedere.
Assecondo il tempo. Lo ricevo.
*
L’aperto spaura
perché non ha
fine. Dobbiamo
fare qualcosa
con la punta
delle dita.
*

Il cuore affranto
è la certezza che il giallo
di quella primavera da ragazza
aveva un senso solamente nel corpo.
Faceva l’alba e credevi
che il giorno sarebbe più lungo
più avventuroso. (L’orizzonte
più ignoto.) Sceglievi
tra il piano assolato e l’ombra
in anfratto riposto, privato.
Ma un’estate finisce.
Tutte le estati fanno un’estate sola
e il senso è in miniatura,
lo stesso, incompiuto.

*
Poi un giorno entrerò nella luce,
quella brillante di questo prato
gialla e verde
al rovescio dell’erba.
Tra gli oggetti indistinti
che ho calpestato,
che mi hanno portata
in alto, qui.

———

 

Paola Loreto è nata a Bergamo, insegna Letteratura Angloamericana all’Università di Milano. Ha pubblicato ‘L’acero rosso’ (Crocetti 2002), Addio al decoro (LietoColle 2006), La memoria del corpo (Crocetti 2007), una silloge di ‘poesie sulla montagna’ (Premio Benedetto Croce 2003), la plaquette ‘Spiazzi dell’acqua’ (pulcinoelefante, 2008), la silloge ‘Transiti’ (Almanacco dello Specchio 2009.
È stata poète en residence al Centre de Poésie et Traduction della Fondation Royaumont (Parigi). Ha curato il LucaniaPoesiafestival (2005 e 2008). Fa parte delle giurie del Premio San Pellegrino, Premio Città di Legnano-Giuseppe Tirinnanzi e del premio Subway-poesia. Traduce i poeti americani.
Come studiosa è autrice di tre libri sulla poesia di Emily Dickinson, di Robert Frost e di Derek Walcott. Ha tradotto Emily Dickinson, William Carlos Williams, Richard Wilbur, Philip Levine, Charles Simic, A. R. Ammons e Amy Newman. Collabora a Poesia e a varie riviste di studi americani italiane e straniere.

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