Elena Salibra, il martirio di ortigia

Elena Salibra con il martirio di ortigia (Manni, 2010, euro 10,00) ci presenta una nuova raccolta di versi che conferma il canone poetico già sperimentato nelle due precedenti, vers.es (Diabasis, 2004) e sulla via di Genoard  (Manni, 2007) tutte pubblicate nell’arco di un decennio.
Il titolo rinvia al seicentesco Martirio di Sant’Erasmo, un quadro di incerta attribuzione che la Salibra nella finzione poetica immagina essere di Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Il martirio del santo porta in sé un dolore profondo che sembra accomunare i due artisti su un piano esclusivamente letterario: il tormento e lo strappo del pittore in fuga si tramanda alla poetessa, esule dalla sua Sicilia. Il “martirio” della fuga e dell’esilio diviene però, per l’autrice, anche “consolante”, come capita di leggere in uno dei componimenti della prima sezione del libro dal titolo trittico per il martirio di ortigia in cui la Salibra riesce a vedere un “presente” in cui non si riconosce più: “quelle villette anni sessanta tutte/ abusive condonate per metà/ si preparano alla burrasca d’agosto/ un poco anticipata”.
Anche nella penultima sezione del libro dopo i giorni di tobia – ispirata alla figura materna – la Salibra ricorre ad un elemento visivo richiamando nel titolo, un quadro di Giorgio De Chirico Il sogno di Tobia  e scrive: “Mi rabbonivi mi facevi piccina/ – a sfarinare i colori sulla tela/ – non ero buona – dicevi tanto/ tempo fa (a me la davi l’idea d’un/ al di qua compiuto).
Ed è proprio la visione del “presente” a caratterizzare il martirio di ortigia separando quest’ opera – se così si può dire – dalle due precedenti – già citate – dove lo sguardo dell’autrice era più orientato verso il motivo del viaggio, del separarsi da pur ritraendo momenti di vita vissuta, viaggio inteso come metafora di una raggiunta libertà di giudizio e di espressione. Il “presente” diviene, pertanto, nel nuovo libro della Salibra il pretesto e l’idea dentro cui muovere la lingua della poesia che per l’autrice sembra nascere da un pensiero strutturale, più che dall’azione poetica. Si potrebbe dire, quindi, che in questo libro la poetessa tragga la sua ispirazione dalle grandi opere d’arte del passato all’interno delle quali inscrivere la propria esperienza individuale, il suo stare al mondo, la sua presenza. Si prenda in lettura la prima poesia della sezione dopo i giorni di tobia che ha per titolo da un amore: “ma non viene da te quel consumarsi/ d’occhi nel desiderio del mattino/ quando a impeciare/ il tuo marsupio d’anni è la colla// d’un calore. se mi perdi sai trovarmi/ in una cuccia di foglie e aria. qui/ col tetto laterale hai murato/ le rimanenze d’acqua.// non gabbia pare – forse// è mare senza orizzonte in fondo -/ simmetriche la porta la finestra// e l’ascensore che ha l’ansia di/ salire dove scende il malumore/ di tanti te specchiati da un amore// . L’amore è qui vissuto come un’esperienza che si consuma nel desiderio della luce, di un mattino nuovo. E’ un’esperienza che viene dal “marsupio d’anni impeciato dalla colla”, da corpi che si logorano “in una rimanenza d’acqua murata”. Tutta l’immagine che arriva da questa poesia è riflessa dentro uno specchio, dove la porta e la finestra “sono” – nel presente, nell’essere qui e ora – simmetriche e l’ascensore – anch’esso simmetrico – diviene la metafora del salire e dello scendere del tempo che viene “da un amore”. Si comprende, dunque, che l’autrice pur muovendosi all’interno del “presente”, volga lo sguardo indietro, verso gli Antichi Maestri probabilmente per cercare e definire la sua poetica dello sguardo. Il sogno di Tobia, infatti, come osserva Maria Cristina Cubani nell’introduzione al libro, richiama l’episodio biblico in cui Tobia guarisce il padre dalla cecità ponendogli il fegato di un pesce sugli occhi, un’azione che allude al motivo della Rivelazione. Una Rivelazione che ha consentito a De Chirico di conquistare una nuova visione del mondo e delle cose e all’autrice di avvicinarsi a un nuovo modo di vedere e di comprendere il visibile e l’invisibile.
Il legame tra il martirio di ortigia e le precedenti raccolte della Salibra consiste, invece, nel rimanere in un dettato poetico ritmato che risente degli echi dell’azione sperimentale, utilizzata però – a mio avviso – a fini puramente espressionistici e non di rottura della lingua: “ora è un lamento come/ di piccioni attaccati all’abbaino/ o una meraviglia di qualche A4 / che la laserjet blocca a metà/ perché racconti il suo blackout”/ che collocano la sua ricerca poetica in un’epoca e in un tempo ben definito.
Il plurilinguismo della Salibra sebbene sia assimilabile al clima delle neoavanguardie e dello sperimentalismo, non è da essi dipendente. L’autrice, infatti, in tutta l’opera, avverte la necessità di portare “il passato nel presente” ricorrendo spesso a scene urbane, come nella poesia Neapolis in cui il corpo entra fisicamente nel Museo di Napoli immergendosi nel passato, ma anche nella visione della città nella sua realtà, nel presente, di come appare oggi: “e s’apre ai miei tic d’autunno la new/ polis davanti al volto semiserio/ del filosofo tardoimperiale. un poco di traverso nella sala/ museale la donna con lo stilo/ fermato sulle labbra come me/ combina il mosaico/ dei suoi versi. ma è un alternarsi/ di bitorzoli e rientranze/ anche/ questa città che sulla scena ride/ mentre sale/ la funicolare/ tra la roccia e il mare”…
La Salibra, dunque, conferma con il suo nuovo libro che l’alimentazione immaginativa viene dalle grandi opere di pittura – opere di fatto metafisiche – ma qui utilizzate evidentemente come modello di ispirazione-narrativa. Non è un caso che il tondo (“la donna con lo stilo”) di cui l’autrice parla nell’ultima poesia citata, che fa da sfondo al ritratto, è notoriamente attribuito solo letterariamente a Saffo, nella finzione poetica quel volto di donna, in cui l’autrice torna a specchiarsi, è funzionale, se così si può dire, “combina il mosaico/ dei suoi versi”. Il tondo, è bene ricordarlo, proviene da Ercolano, la cittadina distrutta dall’eruzione del Vesuvio del ’79 dopo Cristo, ed è custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Luigia Sorrentino