Franco Loi e l’angel

Franco Loi

di Lorenzo Chiuchiù

… el me dumanda
se l’angiul che mi s’eri l’è turnâ…

… mi domanda
se l’angelo che mi credevo è tornato…

Nulla è più lontano da Franco Loi della sentenza evangelica «il cielo è dei violenti» (Mt 11,12) – e nulla più vicino di: se «non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3).

Atterrito dai «mezzi di persuasione e di ipnosi strapotenti» (Da bambino il cielo, a cura di M. Raimondi, p. 256), sgomento per l’uomo a una sola dimensione, il mite Loi, l’eterno bambino, è stato in ascolto delle mille lingue del dialetto. Lingue terragne, piene di meraviglia e di sconcerto, idioletti che Loi ha ampiamente reinventato perché i tratti realistici della sua poetica confinassero con una parabola che esige parole nuove: «A mì che storia e fantasia s’inversa».

L’angel è figura di questa inversione, e la sua vicenda è il continuo sconfinamento tra domini che per Loi erano comunicanti. Come per tutti la fantasia è un contravveleno alla storia ma – e questo fa di Loi un poeta – può essere anche il criterio per giudicarla. L’angelo, l’uomo bambino, è anche un giudice. Vive tra bagliori e accenni di melodie che un altro mondo fa filtrare in questo: l’angelo li percepisce, li vede circonfondere gli oggetti più umili o i volti più noti. Sa che solo ciò che non risponde a ragione indubitabilmente si manifesta: l’archetipo, il mistero, l’inconscio, il Dio di cui parla Loi non sono oscurati da cause o anticipazioni. Senza merito e dunque senza ambizione, il poeta precipita nel canto. «La poesia non è un modo di scrivere, ma un evento a cui devi abbandonarti con tutto te stesso» (ibidem, p. 317). Umberto Fiori rievoca il suo primo incontro con Loi: l’«estasi che lo guidava mi affascinava e mi imbarazzava al tempo stesso». Il suo «entusiasmo non conosceva limiti» (https://www.doppiozero.com/materiali/franco-loi-incontrare-langelo). L’angelo è l’entusiasmo di Loi. E ci narra anche di un contrappasso: la pura esistenza dell’angelo è delittuosa per il mondo della storia che si sente smascherato. La sua nudità ingenera vergogna in chi non la possiede– questo l’effetto della condanna angelica. D’altronde la semplice esistenza dell’angelo è un messaggio irricevibile. Viene internato in manicomio; viene curato per estirpare la visione. Rientra così nella «città dei morti e della follia» autentica. Sorge l’idea del suicidio riparatore che dice: imprigionata e persa l’anima in questo mondo la ritroverò nell’altro. L’angelo sopravvive all’idea suicidaria, la visione diventerà utopia:

Ma s’an sbaliâ el Crist e pö ‘l Lenin,
sè ‘l vör un àngiul che pö l’è ‘n grass de rost?
I bun resun în pan dumâ per chi
cun la resun ghe magna dì e nott,
ma l’òm cum l’òlter òm el se fa tost,
el g’à paüra a dì quèl che l’infescia,
el se fa sü, el cünta ball, el tolla,
e tì cuj tò resun te sé cundî.
Dunca a fà l’àngiul ghe poch de rampegà,
ché l’àngel l’è la sulfa del vèss sul,
de ‘végh paüra che l’òm el te martèla,
paüra enfin che ghe sia mai resun
e mai l’ümanitâ te sia surella,
ché nüm se sèttum denter ‘na presun
e se fèm àngiul per speransa al sû.

[Ma se hanno sbagliato il Cristo e poi Lenin, / cosa può farci un angelo, che poi è meno di niente? / Le buone ragioni sono valide soltanto per quelli / che la ragione la frequentano giorno e notte, / ma l’uomo con l’altro uomo si fa duro, / ha paura di confessare ciò che lo tormenta, / s’imbroglia da solo, racconta menzogne, scappa, /e tu con le tue ragioni sei fatto fesso. / Dunque a far l’angelo c’è poco da raccogliere, / ché l’angelo ha il destino della solitudine, / di aver paura che l’uomo lo aggredisca, /paura infine che non ci sia mai una ragione / e mai l’umanità ci sia sorella, / ché noi ci sediamo dentro una prigione / e se facciamo gli angeli è per avere una speranza].

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