Ilaria Pacelli, da “L’alfabeto del buio”

Ilaria Pacelli

Alba d’inverno

Mi hai fatta nascere in gennaio
e ne porto in sorte i fiumi ghiacciati al posto
delle vene. Chi si avvicina sa il brivido
e il bene che arriva dal freddo.

Gli occhi che hanno perso l’azzurro
dal mare sono ridiventati mare, dell’onda
portano la risacca monotona
senza il suono di una parola.

Adesso che nel tuo corpo è sempre
inverno, a me non resta che tenermi
a quel filo sottile che unisce il sorriso
alle viole spuntate sopra i fossi.

Non c’è più l’urgenza di lottare, abbandonati
all’aria come bambini sull’aia. Lascia a noi,
anime affannate, che ogni gesto sia
una battaglia con la forza di gravità.

Tutto quello che importa
si conserva in un gheriglio di noce.
Adesso è notte, ma resiste la luce dell’alba.

 

La voce

Mia madre non parla più.
Le corde vocali non sostengono la voce.
Di tanti, un tempo vicini, non si sente più la voce
e questo, in fondo, è parte della nostra felicità.

Perché stride quando arriva diretta, la preferisco
portata dal polline, dal vento, dal vapore.
Arriva lieve come una tortora, si posa
sulla spalla, sussurra un nome, torna al cielo.

Promette che è vero ciò che accenna
aggiunge un indizio, un segno di penna
a questo giorno che impara ad andare
oltre la sera.

Sul cellulare leggo “Madre massacrata dall’ex davanti
al figlio di cinque anni” “ti può interessare?”.
Arriva sinistra come un corvo si posa sulla spalla, emette un verso, torna alla terra.
Decreta che è vero ciò che esibisce.
Ma io credo solo nel silenzio di quello
che muore, e fingo per me un fiore reciso,
rosso, sul comodino.

 

Suoni per una malattia

In assenza di parola, mi attengo
a semplici suoni. Li ascolto.
Gli asciugamani piegati, l’acqua
all’orlo, la tapparella in linea.

E giù, giù in piedi nel tempo
ad accogliere cenni, farne una gerla.
Osservo la tua vita, la stessa vita
cruda delle viole. Grazia e cura

la custodiscono, con la luce fanno
un paradiso in terra. Una brezza a stento
percepita porta la notte, e la confidenza
che hai con le tenebre ti fa bella.

Per bellezza ti prego, anche se è tardi:
insegnami come si fa nel buio a baciare il dolore.
Io che da tempo avrei dovuto imparare
come si sta in bilico sull’orlo dell’abisso,

sulla soglia di casa quando saluto, presi
dalla luce del giorno, mio figlio
il padre, di suo padre la stessa ombra
e mi trovo ancora a schivare la luce.

Estratti da : La parola del buio, con immagini di Dario Massi (LietoColle, 2020) Continua a leggere