Il contravveleno al niente: Gian Mario Villalta tra poesia e presente

Gian Mario Villalta

di MATTEO BIANCHI

La poesia non si accontenta di una lettura e tanto meno di una lettura distratta. Di più, ci riporta a un brusio buono, biologico, alle parole sostanziali dei sentimenti. A confermarlo ancora una volta è il percorso in versi di Gian Mario Villalta, specie nelle sue ultime pubblicazioni. Una su tutte – anomala e folgorante – Il scappamorte (Amos, collana A27, 2019), nella quale il poeta non rinuncia a far proprio il bene altrui, a renderlo condivisibile attraverso il processo estetico: «Confessi a te stesso che della felicità / sai la voglia: fa feste / all’aria intorno a te e ignora / il boccone offerto, come il cane addestrato / alla guardia del cuore / quando sfugge al guinzaglio».

Nel corso di una mirabile divagazione, Barthes affermò che «la letteratura non permette di camminare, ma permette di respirare», in quanto esperienza panica e totalizzante, che permea l’individuo e non lo accompagna soltanto durante una trasformazione interiore. Villalta, dal canto suo, esorta il lettore a un’ecologia del pensiero e di conseguenza della parola, che rifletta onestamente una doverosa ecologia sociale, sostenuta dal disarmo linguistico, e che smussi l’uso di una verbosità sempre più aggressiva e opprimente, volta a intimidire e a conquistare il fruitore dei consueti flussi di comunicazione. D’altronde, sin dalla radice οἶκος, l’ecologia si fonda su un’analisi oggettiva delle interazioni tra le singolarità e il contesto di appartenenza, ossia un’analisi che si focalizza sulle relazioni interne a una qualsivoglia realtà organica. Continua a leggere

Gian Mario Villalta, “Il scappamorte”

GIAN MARIO VILLALTA

Sono stato un bambino insonne.
All’inizio era tutto catturare il momento
dello sprofondo , quando l’io vigile
si dissolve e subentra quell’altro che sogna
e sa che dorme.
Non è stato facile
rinunciare a un gioco dove pareva possibile
soffermarsi sulla soglia del perdere sé
e sorprendere – nella notte,
nel buio della mente, afferrando – l’istante,
la chioma sua di cometa già dentro il niente.
Tra me e me lo chiamavo il scappamorte.
È stato l’altro, poi, a sorprendere me:
da un sogno dove l’avevo lasciato all’alba
senza più ricordarmi,
mi ha svegliato mentre mi stavo perdendo
dentro le cose solite
che perdono tutti ogni giorno.

 

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

La poesia che abbiamo appena letto, è tratta dall’ultimo lavoro di Gian Mario Villata, (Amos Edizioni,  2019). E’ l’unica che richiama, all’interno del libro, il titolo della raccolta: “Il scappamorte”, una figura leggendaria, quasi mitologica. Ed è proprio nel titolo la chiave di lettura di questa nuova opera di poesia di Villalta, che rinvia a una sorta di gioco messo in atto dal bambino, poi adulto, con la coscienza, stando sulla soglia del sonno. Una soglia sulla quale si ha l’illusione di afferrare il momento in cui si perde coscienza, addormentandosi, ma sulla quale si ha anche l’illusione di afferrare con la coscienza il momento in cui si perde coscienza, fra la veglia (una veglia perduta, interrata dentro il buio e il silenzio) e il sonno, (atteso, quasi già arrivato, che, invece, non arriva.)

In questa e altre poesie qui contenute, c’è fondamentalmente il senso remoto dell’ “afferrare” la morte pochi istanti prima che arrivi e proprio per questo, perché la si sorprende sul fatto, la si “stana”, si ottiene scampo: la morte scappa per non farsi conoscere la coscienza della morte si ritira perché non può procedere.  Nel testo Villalta riprende da François de La Rochefoucauld il pensiero che “né il sole né la morte si possono guardare fissamente”. Quest’opera  quindi, sembra rivelarci qualcosa di importante sulla morte: l’uomo che ha trascurato troppo la morte, ha cioè trascurato il gioco di “afferrare” la morte, per stanarla, per farla fuggire, l’ha, evidentemente, guardata troppo. Continua a leggere