L’energia della parola

La solitudine dei reietti

di Fabrizio Fantoni

Con Il comune salario Fabrizio Bernini ci consegna un’opera compatta, densa e vibrante che si caratterizza, sin dai primi componimenti, per il forte legame con l’esperienza, con la concretezza dei dati della quotidianità che l’autore indaga con sguardo acuto, capace di cogliere ciò che si cela dietro le molteplici sfaccettature del reale.

È una ricognizione del presente quella che svolge il poeta – moderno flaneur- nei suoi vagabondaggi per le strade della città, in cui osserva il mondo intorno a lui concentrando l’attenzione su dettagli di un reale apparentemente inerti o indifferenti che, nel testo, vengono sottratti all’opacità grazie ad un dettato poetico nelle cui pieghe si cela un sempre più teso interrogarsi metafisico.

Seguendo queste coordinate, l’autore struttura il libro con una solida architettura incentrata sulle figure di tre personaggi di invenzione: il figlio del padrone, il disoccupato e lo studente attivo nel sociale.

Per ognuno di essi ricostruisce le dinamiche e i rituali di vita coagulandoli in un susseguirsi di rapidi componimenti che evocano aspetti di un “comune ambiente umano e storico”.

Queste esistenze si fanno ritratto del mondo e dell’esistenza dell’uomo contemporaneo, intorpidita sotto la coltre di un assordante ed inutile chiacchiericcio in cui tutto, Il dolore e la bellezza, il sentimento e la passione, il silenzio e la riflessione divengono pulviscolo nell’apatia di una vita che si trascina nei giorni. Continua a leggere

Fabrizio Bernini, “Il comune salario”

Fabrizio Bernini

ESTRATTI 

Luca, 22 anni, disoccupato, vive in periferia. magro, barba arricciata, zigomi forti, porta sempre scarpe da ginnastica.

Sono proprio davanti. C’è quasi un conato
nell’aria, un coro che ingombra il silenzio.
E i fischietti, gli striscioni, le bandiere diafane
che si incerano nei denti. Sento gridare.
Un compagno mi parla dei figli e di una moglie
senza pace. Vorrei ascoltarlo. Ma ho ancora
la notte nelle tasche, tutto il resto nel resto
della birra.
Mi incastro più dietro, dove un volto a metà
tira sassi a un’insegna.

***

Anche oggi affondo in una casa limata
nel midollo. Il gioco sembra muto.
Il mio amico sbuffa
e si butta sopra il letto. Suo padre si ferma sulla porta.
Poi mi guarda. E’ un occhio soffocato, cariato
nella posa. Sembra un pesce con le mani.

***

Non è un verbo. Eppure ti resta incastrato
sul labbro. Ti ascolto ripescare un cuore estinto,
scantonato. Allora mi sfibbio oltre la ringhiera
della tua croce e penso che sono anni quelli
che rincagnano sul mio, di cuore.
Poi resto lì. Il tuo sorriso sull’hamburger.
Forse, sguscio in verticale. Forse anche il tempo
ha qualcosa di sghembo
infilato tra i denti e non vuole assaggiarlo.
In fondo, quello che mi scaccia
è la scaltrezza di un dolore. E non paura.

***

Entro in fretta. Sullo schermo esplodono
piazze monumenti, colori epilettici.
La pubblicità è già un viaggio o meglio
l’immagine incalcinata sul pensiero.
Londra, Amsterdam, Barcellona…
Purché sia lontano, lontanissimo
da questo immoto cimitero
senza ali.

***

Tutto appare nell’apparenza senza apparire mai.
Non solo i circuiti, connetto anche
il tempo, la sua indisponenza
attraverso le mie dita.
Affogo, sempre più composto e ordinato.
Ultimo e in silenzio.

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